Già dal gioco di parole del titolo originale «Il pianeta degli orsi» di Gordon Dickson (Spacial Delivery, 1961) tradisce il suo contenuto umoristico: ed infatti bastano le prime pagine per rassicurare il lettore che la storia, leggerissima e sottilmente ironica, non deluderà le sue aspettative. Tutto merito degli orsi del titolo, i dilbiani del pianeta Dilbia, una razza di alieni simili ad orsi alti sui tre metri e massicci in proporzione con i quali i terrestri sono entrati da poco in pacifico contatto: definiti primitivi, permalosi e pieni di pregiudizio, i dilbiani sono non solo sempre pronti a bisticciare tra loro per ogni questione e cavillo ma anche gelosissimi della loro libertà e buona reputazione, che difendono letteralmente con le unghie e con i denti. Dopotutto, sentenzia uno di loro, «se uno è pronto a difendere i suoi diritti, il peggio che gli può succedere è finire ammazzato».
Giochi di parole e libertà
Pubblicato nel 1961 in un testa-coda della Ace assieme ad un altro romanzo breve di Dickson (il più oscuro «Delusion World», mai tradotto), «Il pianeta degli orsi» è stato ristampato più volte e, a partire dal 2000, è comparso anche in un volume unico assieme ai due seguiti indiretti, che però impiegano altri protagonisti. Il titolo inglese del romanzo, «Spacial Delivery», è un arguto gioco di parole che richiama le due caratteristiche essenziali della storia: lo spazio appunto, dal momento che si tratta di fantascienza; e la «consegna speciale», ossia il protagonista nel suo viaggio nella gerla del postino dilbiano, che gli vale il nomignolo indigeno di «Pacco Postale da Mezza Pinta», poi abbreviato in «Mezza Pinta».
Anche l’antologia che raccoglie tutte e tre le avventure dilbiane ha un titolo volutamente umoristico: «The Right To Arm Bears», che gioca sul secondo emendamento della costituzione americana. Con uno scambio di parole, il «diritto di portare armi» («the right to bear arms») diventa infatti il «diritto di armare gli orsi», anche se di armi, guerre e conquiste non c’è traccia in nessun episodio della serie, che invece incarna la terra promessa per ogni amante della libertà, dell’indipendenza e dell’autonomia, perché questo è anche il modo di vivere dei pacifici dilbiani, cattive maniere e baruffe verbali a parte. Ma l’inversione delle parole nel titolo suona bene e introduce quell’atmosfera da umorismo sottile alla «tongue in cheek», la grande attrattiva di tutte e tre le storie.
Che pur avendo un protagonista umano (sempre diverso, come detto) non sono così umanocentriche come si potrebbe pensare: Dickson sta infatti dalla parte dei dilbiani e del loro diritto all’autodeterminazione, contro ogni interferenza da parte di un’autorità centrale o, peggio ancora, un’entità esterna qual è il governo terrestre; e non nasconde nemmeno il suo scetticismo riguardo alla legittimità di qualsiasi occupazione od aggressione di una nazione da parte di un’altra più potente o progredita, qualunque ne sia la motivazione. Alla fine della storia infatti, risolta senza alcun dramma ma solo molto melodramma (com’è nella natura dei dilbiani), l’anziano Uomo Solo, uno dei personaggi positivi del libro, chiede al protagonista: «Chi vi ha chiesto di precipitarvi in massa sul nostro pianeta? (…) Cosa vi faceva pensare di dover piacere a tutti noi, di essere i benvenuti, di spingerci a desiderare di essere come voi»?
Dickson non delude davvero mai quando si tratta di un bene prezioso come la libertà.
I dilbiani
Anche se di sé parlano semplicemente come «uomini», per la nomenclatura terrestre i dilbiani traggono il nome dal loro pianeta natale, Dilbia appunto, che viene descritto molto simile alla terra (nei seguiti verrà detto avere anche una gravità minore) ma ancora dominato dalla natura incontaminata: i dilbiani infatti non sono numerosi e vivono molto semplicemente, come rozzi boscaioli che costruiscono capanne di legno e utilizzano i materiali a disposizione sul posto. Formano clan e alleanze tra loro ma preferiscono abitare isolati gli uni dagli altri: al massimo si aggregano in comunità di poche decine di individui. Per la loro mentalità Humrog, un villaggio di cinquemila abitanti dove ha sede l’ambasciata terrestre, è già una metropoli dalla quale preferiscono tenersi alla larga, l’unica della vasta regione in cui è ambientata la storia.
Di conseguenza non esiste nemmeno una rete di strade, solo sentieri tra i boschi e le montagne che i dilbiani percorrono a piedi, dal momento che la loro tecnologia è così arretrata che non conoscono nemmeno i veicoli a motore: anzi, una delle ragioni per cui hanno una scarsa opinione degli umani – che chiamano «Piccoletti» – è proprio la nostra dipendenza da macchine e altri «aggeggi» per fare ogni cosa.
Del loro aspetto già si è detto: assomigliano ad orsi «che abbiano deciso di camminare su due zampe e di dimagrire un po’», con alcune leggere differenze fisiche, come la fronte più alta (che indica un cervello più grande), il muso più corto, le mani invece delle zampe e, si intuisce, le gambe più lunghe delle zampe di un orso; ma a colpo d’occhio l’impressione che danno rimane quella di un grande plantigrado.
Per i dilbiani conta solo la forza fisica e l’intelligenza non vale niente, solo a farsi prendere in giro: così un tema ricorrente della storia è proprio l’astuzia dei dilbiani più intelligenti e meno forti che inventano metodi creativi per fingere di avere una forza strepitosa, in modo tale da guadagnarsi il rispetto dei simili e soprattutto mettersi al sicuro dai preponenti. Nei volumi successivi si aggiungerà un’altra caratteristica del loro carattere che serve ad aggiungere uno strato di ridicolo alla cocciutaggine di questi colossi pelosi: osservano le leggi alla lettera ignorandone tuttavia lo spirito; perciò dicono sempre la verità, anche se poi è così distorta da diventare una menzogna. L’importante è solo salvare la faccia di fronte agli altri.
I nomi stessi, che vengono attribuiti dagli altri dilbiani in età matura, mostrano chiaramente la preminenza della forza fisica: l’antagonista della storia, un attaccabrighe, si chiama Il Terrore del Fiume (Streamside Terror); un boscaiolo grande e grosso incontrato per strada porta il nome di Quello Che Fa Piangere Gli Alberi (Tree Weeper); il veloce postino che porta il protagonista sulle spalle è Il Fregatore delle Colline (Hill Bluffer); mentre il sindaco di Humrog è diventato Papà Ginocchia di Marmellata (Daddy Shaking Knees) perché in gioventù aveva retto da solo per ore una pesante trave e alla fine le sue gambe avevano iniziato a tremare per lo sforzo.
Un pianeta conteso da due potenze
Dato che attribuire un certo nome è il loro modo di esprimere le qualità di un individuo, i dilbiani hanno affibbiato anche ai terrestri (i «Piccoletti», appunto) dei nomignoli che tradiscono la loro mancanza di rispetto per gli uomini: dal momento che ci vedono così piccoli e fragili, ritengono che un umano non potrebbe mai battere un «uomo» (uno dei loro) in una lotta; di conseguenza, ritengono che un umano non sia nemmeno in grado di difendere i suoi diritti e la sua reputazione, e questo non lo rende degno di sedere al tavolo degli uomini. È un ragionamento abbastanza primitivo che però, nella mentalità primitiva dei dilbiani ben illustrata dal libro, ha un suo senso.
Così l’ambasciatore terrestre è chiamato Piccolo Morso (Little Bite), ma solo perché al suo arrivo si era difeso con un coltello dalle intemperanze di un dilbiano ubriaco, causandogli alcuni graffi alla mano; ed un altro funzionario terrestre, una delle ragioni per cui i dilbiani hanno scarso rispetto per gli umani, viene invece chiamato Il Puzzone Che Urla (The Squeaming Squirt), perché si era messo a gridare di terrore la prima volta che un gigantesco indigeno lo aveva afferrato e sollevato in aria.
Al contrario, i dilbiani mostrano un certo rispetto per un’altra razza di alieni, gli emnoidi, che hanno soprannominato i «Grassottelli»: sono un tipo umano più alto, più grande, più forte, più robusto dei terrestri e quindi più in sintonia con la mentalità degli indigeni, che sono comunque più grossi. Una forma del rispetto che portano agli emnoidi è rivelata dal soprannome che si è guadagnato il loro ambasciatore: L’Ingollatore Senza Fondo di Birra (Beer-Guts Bouncer).
Tutta la storia è ispirata proprio dalla rivalità tra umani ed emnoidi – giunti sul pianeta gli uni trent’anni prima, gli altri venti – per guadagnarsi il rispetto dei dilbiani, il cui mondo si trova in una posizione chiave per l’espansione di entrambe le sfere di influenza: e, come si può immaginare, si risolverà infine a nostro vantaggio, grazie al coraggio del protagonista e ai classici capricci del fato.
Un incidente diplomatico costruito ad arte
John Tardy, il protagonista, è un giovane biochimico terrestre che, prima di laurearsi, ha vinto la gara di decathlon alle olimpiadi pangalattiche. Mentre si trovava in viaggio per prendere servizio su un qualche pianeta è stato arruolato forzatamente dal servizio diplomatico terrestre e, dopo un breve addestramento ipnotico nel quale ha imparato la lingua locale, scaricato sul pianeta Dilbia con un delicato incarico: liberare la sociologa Ty Lamorc («Faccia Unta», per via del trucco), rapita per ritorsione da un dilbiano, il Terrore Del Fiume.
La situazione in realtà è piuttosto intricata e tipicamente dilbiana ma è stata costruita ad arte dal servizio diplomatico terrestre per sbloccare la situazione con gli enormi indigeni, che considerano ridicoli i piccoli terrestri: è stata la stessa Ty Lamorc a ideare il piano, che – ritiene – dimostrerà ai dilbiani che gli umani sono sì piccoli ma non sono meno coraggiosi e temerari di loro. Così, trovato un pretesto per farsi rapire, la sociologa terrestre ha messo in moto il meccanismo: e John è stato scelto dai computer per compiere la missione di salvataggio perché il suo profilo psicologico appare simile a quello dei dilbiani.
Ma ovviamente a John viene taciuta tutta questa parte: così, poche ore dopo essere sbarcato su Dilbia, già si trova infilato nella gerla del Fregatore Di Colline, il postino governativo degli indigeni, e lanciato all’inseguimento del rapitore.
Più vincitore di un vincitore non c’è nessuno
Dietro la faccenda però sono all’opera anche gli emnoidi, una razza di alieni di aspetto simile agli umani ma più grandi e robusti, cosa che li favorisce non poco nel giudizio dei dilbiani: terrestri ed emnoidi sono in competizione per l’espansione nello spazio ed entrambi ambiscono ad includere Dilbia nei loro protettorati, perché si trova in una posizione strategica. Così gli agenti emnoidi – che sono una razza crudele e prepotente – si mettono all’opera per alzare la posta e rendere inevitabile lo scontro tra John ed il Terrore, che può finire solo con la vittoria di quest’ultimo, e la morte certa del protagonista: in questo modo verrebbe confermata la fragilità degli umani, che perderebbero anche ciò che resta del rispetto dei dilbiani.
Lungo il viaggio tuttavia John ha diverse occasioni per mostrare il proprio coraggio, guadagnandosi così il rispetto del Fregatore: e quando, nel finale, diplomatici ed anziani del clan del Terrore trovano il cavillo che non solo evita il combattimento tra John ed il Terrore ma salva anche l’onore di entrambi, John stupisce tutti invocando invece lo scontro che potrebbe essergli fatale, perché il Terrore, pur senza essere enorme, è veloce e micidiale. Evidentemente il computer non aveva sbagliato a valutare il suo profilo psicologico.
Per annullare il vantaggio del Terrore, John lo affronta nell’acqua alta di un laghetto, dove l’umano, più piccolo, si muove con più agilità: e con l’ausilio della cintura riesce a restare appeso alle spalle dell’avversario – quasi fuori portata dei suoi micidiali colpi – e intanto soffocarlo fino a fargli perdere conoscenza. Alla fine, esausto, John riesce a trascinarsi a riva con le sue forze prima di svenire per la fatica ed il dolore provocato da alcune costole rotte; il Terrore invece deve essere soccorso: e per la mentalità dilbiana questo assegna a John la vittoria. E la vittoria porta anche i dilbiani a cambiare immediatamente la loro opinione dei terrestri, perché uno di loro ha mostrato di essere uomo come un vero dilbiano: e tanto basta perché a tutti i Piccoletti venga riconosciuto un certo rispetto.
Perché, come sentenzia un indigeno, «più vincitore di un vincitore non c’è nessuno».
Una società libera è anche una società sana
«Il pianeta degli orsi» non tenta nemmeno di sembrare qualcosa che non è: si presenta subito come una storia leggerissima e ironica e poi segue ciecamente questa strada, senza troppe deviazioni. A Dickson interessa raccontare la parte divertente della vicenda (l’inseguimento ed il contrasto tra la mentalità terrestre e quella dilbiana), non perdersi in un intreccio intricato o disseminare colpi di scena: ci sono, questo sì, alcune scene che hanno lo scopo di rimpolpare una trama altrimenti troppo scarna – come il tentativo di assassinio, il rapimento da parte degli emnoidi, l’incontro illuminante con Uomo Solo – ma sono poche e irrilevanti e servono solo per aggiungere colore e dettagli.
Ciononostante Dickson trova lo spazio per aggiungere le proprie considerazioni sui diversi argomenti, come la libertà e l’indipendenza, il rapporto con l’ambiente naturale, il modo di vivere sano di individui che si rispettano l’un l’altro ed altri indicatori di una società vigorosa: sono solo poche pennellate messe qua e là ma, messe insieme, creano un’immagine chiara della scena, come in un bel quadro naturalista.
Il libro ha anche un ulteriore aspetto positivo: John Tardy è un uomo comune, appena più in forma della media, ma non ha nessun talento speciale e per questo non è difficile immedesimarsi con lui. Al contrario, i protagonisti delle storie di Dickson tendono invece ad essere dei superuomini e per questo riescono sgradevoli, perché è facile primeggiare quando si hanno delle abilità sovrumane: alle volte è solo questione di carisma e personalità, come Mark Ten Roos del romanzo «Lo spaziale», già recensito; altre invece i superpoteri sono autentici, come nella saga dei Dorsai, che mi ha perso quando Donal Graeme si è messo letteralmente a camminare in aria. John invece è coraggioso e competente ma non ha nessuno di questi difetti: e se riesce in quello che fa è prima di tutto per una questione di allenamento, dal momento che ha smesso da poco di gareggiare nel decathlon.
Nell’insieme «Il pianeta degli orsi» non è certo l’opera migliore di Dickson: ma per molte ragioni, prime tra tutte la leggerezza e l’umorismo che la caratterizzano, è sicuramente una delle più gradevoli, soprattutto se non si ha familiarità con l’autore e si desidera scoprirlo.
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