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Bob Olsen e l’esordio letterario degli space marines

Secondo la fonte più accessibile ma anche meno attendibile del West – la Wikipedia – la prima apparizione degli space marines nella letteratura andrebbe fatta risalire a due racconti di Bob Olsen pubblicati negli anni Trenta sulla rivista Amazing Stories: si tratta del «Captain Brink of the Space Marines» (dicembre 1932) e «The Space Marines and the Slavers» (dicembre 1936). Per quanto scorrevoli e tutto sommato gradevoli, entrambe le storie sono una grossa delusione per chiunque si aspetti dei guerrieri del futuro che indossano armature potenziate, maneggiano armi che seminano distruzione e combattono i nemici dell’umanità con zelo fanatico: anzi, per certi versi questi space marines rischiano persino di far venire i brividi al lettore moderno.

Gli space marines del futuro
«Perché ci chiamiamo marines se nemmeno sfioriamo gli oceani?» chiede il tenentino al suo comandante ancora all’inizio del primo racconto: semplicissimo, risponde quegli (l’eponimo capitano Frank Brink), «molto prima che la Repubblica Terrestre fosse creata i marines erano chiamati così perché stavano sulle navi da guerra». Evidentemente, aggiunge poi, si deve essere ravvisata una qualche continuità tra quei soldati e quelli rappresentati dai nostri protagonisti, perché «da allora le tradizioni dei marines continuano ad essere tramandate di padre in figlio».
Una di queste è di mandare sempre per primi i marines – tanto quelli di ieri quanto quelli di domani – a sistemare le cose ogni volta che scoppia un qualche guaio: un tempo erano quelli degli Stati Uniti, domani saranno quelli della succitata Repubblica Terrestre che, barattate le navi ed i mezzi da sbarco con le astronavi ed i razzi spaziali, pattuglieranno il sistema solare o almeno la sua parte colonizzata, quella al di qua di Giove.
La particolarità di questi combattenti del futuro è anche nell’equipaggiamento: la dotazione personale include infatti uno zainetto antigravità (o «gravinul») che permette loro persino di volare. Prima però devono svolgere due tendine che, normalmente arrotolate sotto le maniche della giubba, vanno agganciate a speciali fermagli sulla coscia; poi, afferrati due cilindri che funzionano da controlli per i movimenti, è sufficiente allargare le braccia, attivare lo zainetto e spiccare quindi il volo: uno spettacolo orribile anche solo a immaginarsi per il lettore moderno, viziato da sistemi ben più accattivanti per il volo individuale.
Come se ciò non bastasse, questi marines ne fanno uso soltanto due volte, solo nel primo racconto e pure malamente: la prima all’inizio, quando Brink viene convocato dal suo colonnello, per farne sfoggio ed intanto descriverne il funzionamento; la seconda quando, finalmente sbarcati su Titano, i due protagonisti cercano di sfuggire agli indigeni ma, appena pochi metri più in là, vengono facilmente costretti a tornare con i piedi per terra dagli stessi catturatori.
Si tratta quindi non solo di un sistema grottesco ma persino inefficace: probabilmente anche per questo Olsen non ne ha più fatto riferimento nel secondo racconto.

Le amebe di Titano
Il primo dei due racconti, «Captain Brink of the Space Marines», si apre con l’ufficiale eponimo che, chiamato a rapporto dal suo comandante, viene incaricato di salvare le gemelle Valentine, esponenti della mondanità, le quali si sono messe nuovamente nei guai, questa volta su Titano, inesplorata luna di Saturno: Brink è infatti il solo che può riuscire nella missione.
Visti i problemi che la Marina Spaziale della Repubblica Terrestre (la ERSN) deve fronteggiare, tra pirati, rivolte e rivoluzioni, gli space marines possono assegnare alla missione solo una piccola tre posti: Brink però può scegliersi i compagni e così recluta il parigrado Albert Hawkins, gran dormiglione, ed il tenente James Sullivan, la cui funzione è solo di servire da spalla e far così brillare ancora più luminoso l’astro del nostro protagonista.
Giunti su Titano, Brink e Sullivan scendono in perlustrazione mentre Hawkins rimane di guardia al razzo: i due non fanno quasi in tempo a mettere piede sul pianeta che vengono subito individuati dagli indigeni, sorta di amebe giganti, intelligenti e telepatiche, capaci di mutare forma a piacere per volare (costringendo così i nostri a tornare a terra, si veda l’episodio già citato) o estroflettere peduncoli e pseudopodi che operino come braccia o mani.
Condotti prigionieri nella loro città, Brink e Sullivan osservano il loro razzo mentre viene pilotato in un hangar dalle stesse amebe, che però non sanno portarlo e così stanno involontariamente scaricando tutto il propellente necessario per il viaggio di ritorno a Giove. Studiati ed esaminati, i due vengono infine rinchiusi in una cella in quello che dapprima credono essere un museo ma presto scopriranno essere in realtà un laboratorio che le amebe intendono usare per vivisezionare gli umani catturati: la buona notizia è che nella cella accanto alla loro sono rinchiuse le due sorelle Valentine, che piangono la perdita di Omar, il loro gatto, già fatto a fettine dagli indigeni.
Al momento opportuno, con l’aiuto del diamante che porta al dito, Brink riesce ad evadere: seguito dal tenente e dalle gemelle, con una torcia improvvisata il capitano mette in fuga le guardie titaniane che, proprio come si aspettava, non conoscono il fuoco ed anzi «come tutti gli animali tranne l’uomo ne sono spaventati», spiega il nostro eroe in uno dei suoi frequenti pistolotti. I quattro fuggiaschi raggiungono così l’edificio che funge da hangar, trovano la loro nave (quella delle gemelle, pure condotta lì, è danneggiata e non può prendere il volo) e scoprono che, sorprendentemente, ha il serbatoio quasi pieno. «Sarà un regalo di Babbo Natale», esclama Brink mentre prende il volo e si lascia alle spalle le aeromobili degli inseguitori, che non possono lasciare l’atmosfera.
All’appello manca però ancora il capitano Hawkins: Brink è deciso a trovarlo prima di tornare a casa ma non appena finisce di esporre a Sullivan il suo piano di salvataggio l’assente viene scovato a bordo. Scambiato dapprima dalle Valentine per un’ameba rifugiatasi nelle cuccette, Hawkins – che dorme della grossa e russa sonoramente – è invece subito riconosciuto da Brink, che per svegliarlo gli fa un’altra volta lo stesso scherzo che gli avevamo visto fare all’andata: approfittando dell’assenza di gravità, gli lancia una bolla d’acqua in faccia, l’unico metodo efficace per richiamarlo dal mondo dei sogni.
Risolta così per il meglio la missione, Brink congeda Hawkins per dedicarsi assieme a Sullivan alle due gemelle.

Gli schiavisti di Marte
Più lungo ed articolato ma anche meno convincente del precedente, «The Space Marines and the Slavers» porta i nostri eroi sul pianeta rosso: ritornano tutti e tre i protagonisti che già conosciamo (Hawkins però appare solo nel finale), sempre guidati dal capitano Brink, che questa volta si prende tutti i meriti senza fare quasi nulla. Nell’intervallo tra i due racconti Sullivan ha mantenuto il grado di tenente – a quanto pare non si fa carriera nella ERSN – ma è stato promosso a factotum espertissimo di tecnologia ed è il vero motore di questa storia: cede così lo sgradito posto di spalla al guardiamarina Daniel Mayer, ingenuo, innamorato e pure leggermente tonto, per la prima volta sui nostri schermi.
La storia vede i tre appena nominati di ritorno alla loro base su Ganimede, un satellite di Giove, dopo aver concluso con successo una missione su Io, altro satellite del quinto pianeta: Mayer pilota la navicella e, facendo finta di niente, prende la via leggermente più lunga per passare sopra un insediamento di coloni e vedere tramite «teleview» (sorta di televisore che coglie ciò che si desidera inquadrare) la figlia del missionario locale, la norvegese Ingeborg Andersen, con cui si è recentemente fidanzato; la deviazione ovviamente non passa inosservata all’attento capitano che però, appresane la ragione, lascia correre.
Solo che, giunti al lago Tolako dove si trova l’abitato, i nostri fanno l’orribile scoperta: il villaggio è stato saccheggiato e la popolazione sterminata; i corpi tanto dei terrestri quanto dei ganimediani che pure qui vivevano giacciono sparsi sul terreno. Decisi ad indagare, i tre prendono terra: Mayer controlla con ansia i cadaveri senza rinvenire quello dell’amata.
I morti mostrano i segni del terribile raggio elettrolitico marziano, un’arma dichiarata fuorilegge nel 2734 che trasforma l’acqua in ossigeno e fa esplodere i corpi dall’interno: a questo punto Sullivan può far sfoggio di capacità deduttive degne di Sherlock Holmes (non inattese da uno che Brink ha appena definito «il miglior risolutore di enigmi del sistema solare») e da tre soli indizi determina che l’autore della scorreria è un tale Zurek («Donnola» in marziano), ben noto capo degli schiavisti di Marte.
Queste tracce sono un grumo di fango, una cartina appallottolata ed un filo curvato in maniera curiosa: nel fango, rinvenuto in prossimità del punto di atterraggio della nave (una Krovenka marziana), Sullivan rileva delle macchioline viola, ossia frammenti di vetro di un tipo che si trova solo nel deserto di Menfol su Marte, dove appunto si trova la base di Zurek. La cartina è invece l’involucro di una dose di una droga da cui Zurek è dipendente mentre il filo è…un fermaglio da barba: è infatti risaputo che Zurek si vanta dei suoi bei baffoni, che porta intrecciati e, per evitare che si sciolgano, fissa con simili fermagli.
Appurato ciò, i tre si preparano per la missione di soccorso: solo che, a causa delle relazioni già instabili tra Marte e la Repubblica Terrestre, la ERSN non può intervenire direttamente, dato che i marziani aspettano solo una scusa per scatenare la guerra aperta. Poco male: nel loro tempo libero, Brink e Sullivan hanno costruito il «Cosmicraft», un razzo dotato di strumenti che nessun’altra nave possiede, come un apparecchio di camuffamento che a terra rende praticamente invisibile il velivolo, persino agli occhi esperti dei marines che l’hanno assemblato.
I tre quindi partono in missione segreta, scoprono la locazione del campo in cui sono tenuti gli schiavi e, mentre Brink se ne resta nella nave, Sullivan e Mayer incitano la rivolta: tra gli schiavi, oltre alla bella Ingeborg, i nostri trovano anche il capitano Hawkins, dato per disertore da settimane ma in realtà rapito anch’egli. Con un pizzico di ironia inaspettata, Sullivan, piombato nel dormitorio degli schiavi durante la notte, riconosce l’ufficiale proprio dal distintivo russamento.
In un finale a dir poco anticlimatico, a questo punto sono gli schiavi liberati a fare tutto: eliminano le guardie del campo, si impadroniscono delle navicelle degli schiavisti, raggiungono con queste la base principale di Zurek e, mentre i protagonisti osservano lo spettacolo tramite la «teleview» della loro navicella, fanno fuori anche il perfido capo schiavista, che viene colpito alle spalle mentre spara all’impazzata con due armi elettrolitiche nella sua ultima resistenza.
Ancora una volta i marines tornano a casa vittoriosi ma, in definitiva, senza aver ancora dato prova delle loro effettive capacità in combattimento.

La superscienza colpisce ancora
Anche se si prendono leggermente troppo sul serio, ambo le storie sono ottimi esempi dei pulp: presentano personaggi positivi e pieni di risorse, includono una buona dose d’azione e terminano con un doveroso lieto fine, il tutto annaffiato con generose spruzzate di superscienza e gergo sopra le righe, che include espressioni come «Per amore della gravitazione!» e «Cosmilossal!» (che mi azzarderei a rendere con un «Cosmicolossale!» da brivido) la cui ingenuità provoca per lo più un sorriso.
Tuttavia la superscienza è pure il punto debole di queste storie: anche se in passato mi sono digerito tutti i volumi della Skylark di «Doc» Smith e numerosi altri libri o racconti di Campbell ed emuli, personalmente non sono mai entusiasta all’idea di dover sopportare paginate di vaneggiamenti scritti in gergo tecnicistico. Già tollero a fatica la scienza reale, figuriamoci pagine e pagine di descrizioni improbabili su macchinari fittizi o leggi fisiche, reali o fasulle, che rallentano solo il ritmo dell’azione, che è il vero nucleo di queste storie, la ragione stessa per cui sono state scritte: certo, la superscienza è uno degli elementi caratteristici dei pulp e, anzi, spesso la creatività con cui i protagonisti di questi racconti sanno mettere assieme la macchina che risolve i loro problemi riesce persino divertente, perché attesta la fede incondizionata dell’epoca nella capacità dell’uomo di comprendere e dominare l’universo; ciò che riesce più gravoso è invece quando l’autore prende troppo sul serio questa superscienza e, fiero della sua creazione, si dilunga a presentare i suoi ritrovati come se stesse spiegando qualcosa di reale ad altri tecnici.
Mentre nel «Captain Brink of the Space Marines» questa tendenza tecnicizzante è più contenuta, limitata a poche e brevi descrizioni funzionali alla narrazione, in «The Space Marines and the Slavers» la diga invece ha già ceduto: parecchie pagine ad esempio sono dedicate alla descrizione dapprima del sistema di camuffamento del «Cosmicraft» e poi, subito dopo, alla spiegazione delle orbite delle lune di Marte, con divagazioni più contenute qua e là sui diversi ritrovati tecnici in cui via via ci si imbatte nel corso del racconto.
Nell’insieme però entrambe le storie riescono gradevoli (direi leggermente meglio la prima della seconda però) per la loro fiducia nel futuro e per l’ottimismo di fondo che, proprio come l’azione serrata, la superscienza e gli eroi senza macchia né paura, non solo sono un elemento caratteristico dei pulp ma anche uno stimolo di cui oggi avremmo tanto bisogno.

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