Recentemente mi è capitata per le mani una copia di «Frozen Hell», la stesura per così dire «originale» di «Who Goes There?», il celebre racconto di John Campbell: in altre parole, la Cosa, di cui ho già scritto tempo fa. Così, dal momento che «La cosa da un altro mondo» (questo il titolo italiano) è una delle migliori storie di fantascienza mai pubblicate, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di rileggerla in questa «nuova» versione: ma è stata una delusione, perché, sebbene nell’insieme racconti la stessa storia che già conosciamo, l’originale non è altrettanto efficace.
È invece il libro di cui non si sentiva bisogno, prodotto tipico del nostro tempo orfano di creatività, che continua a pescare dal barile dei classici del passato per trovare idee «nuove» da rimaneggiare; e al tempo stesso anche rovinare. Ma per fortuna i danni qui sono limitati.
Una riuscita operazione commerciale
Scritto dunque nel 1937 per Argosy, una delle maggiori riviste di narrativa dell’epoca, che lo rifiutò, nei mesi successivi «Frozen Hell» è stato rivisto e corretto – in altre parole, migliorato – dallo stesso Campbell che, divenuto nel frattempo direttore di Astounding, l’anno seguente lo pubblicò sulla sua rivista con un altro titolo, «Who Goes There?», quello sotto il quale la storia è divenuta famosa.
Anzi, più che famosa: un classico della fantascienza.
Campbell tuttavia non si disfece mai del testo originale ma lo conservò assieme ad altre carte che poi, negli anni Sessanta, donò ad una biblioteca, la Houghton Library di Harvard: questa, dopo averle chiuse in uno scatolone, le depositò in un magazzino, dove sono rimaste dimenticate per mezzo secolo.
Nel 2017 finalmente un certo Alec Nevala-Lee, nel raccogliere informazioni per un saggio su Astounding al quale stava lavorando, si imbatte in una traccia che, al termine di una breve indagine, lo porta a riesumare il documento: da abile markettaro, già il giorno seguente lancia una campagna Kickstarter (il sito di finanziamento collettivo) che, facendo montare le aspettative per questo «tesoro riscoperto» con promesse di tesori nascosti, alla fine gli frutta più di centocinquantamila dollari, con i quali finanzia un’edizione extralusso dell’opera.
Che è buona, sì, ma l’originale – quella che già conosciamo – è decisamente migliore.
Frozen Hell, alias Pandora
In questo articolo non mi dilungherò in un commento della storia, dato che l’ho già recensita l’anno scorso; mi limiterò invece ad indicare le maggiori differenze tra le due versioni, che sono concentrate per lo più all’inizio: i primi tre capitoli di «Frozen Hell» sono infatti assenti nella versione finale di «Who Goes There?», che come noto parte invece nel vivo della storia, con tutti i membri della spedizione già riuniti attorno al blocco di ghiaccio in cui è ancora congelato l’alieno. Di quei capitoli iniziali rimangono però alcune tracce distribuite qua e là, per dare scampoli di informazioni sull’antefatto e intanto costruire l’atmosfera di orrore e paranoia: e la scelta di questa seconda versione, quella pubblicata, è vincente, perché crea subito interesse ed aspettativa nel lettore, attratto dal senso di mistero che circonda la creatura.
Al contrario, l’originale prende il via molto più lentamente: solo al quarto capitolo, dopo aver già descritto quasi tutto quello che c’era da sapere sull’alieno e svelato così ogni mistero, si svolge infatti l’assemblea plenaria che costituisce la scena d’apertura di «Who Goes There?». Di conseguenza l’effetto sul lettore è meno incisivo, perché ha avuto tutto il tempo di ambientarsi e farsi una sua idea sulla faccenda.
Che già dal titolo suona volutamente ambigua: nell’originale si fanno infatti molti accenni all’«inferno di ghiaccio» (o «congelato», a seconda del soggetto cui si riferisce il participio) del titolo, ma sono per lo più un richiamo alle condizioni atmosferiche proibitive del Polo Sud; e solo più avanti, quando viene rivelata la vera natura dell’alieno, diventa chiara l’ambiguità del titolo. Perciò, secondo un aneddoto raccontato da Nevala-Lee nella sua prefazione autocelebrativa, Campbell avrebbe preso in considerazione anche un altro titolo, più colto, poi scartato: Pandora. Nella mitologia greca infatti Pandora è colei che aprì il famoso vaso dal quale poi tutti i mali si sono riversati nel mondo: anche qui, liberando la creatura dalla sua prigione di ghiaccio, i protagonisti – come la donna del mito – rischiano di liberare un nuovo male nel mondo.
I tre capitoli «inediti»
Come detto, «Frozen Hell» parte con tutto un altro tono e con premesse completamente diverse: si apre infatti come una normale storia di avventura ambientata al Polo Sud; ed anche il ritmo lento della narrazione si adatta perfettamente all’ambientazione, un freddo deserto di neve. Quattro membri di una spedizione scientifica stanno facendo rilevazioni attorno ad un polo magnetico secondario (quello cui «Who Goes There?» fa saltuari riferimenti ma senza mai chiarire cosa sia), nonostante le tempeste di vento e ghiaccio che soffiano a più di cinquanta chilometri all’ora con una temperatura di 40 gradi sotto lo zero, che probabilmente sono Fahrenheit ma se anche fossero Celsius suonerebbero comunque spaventosi.
Finalmente, verso la fine del primo capitolo, i quattro scoprono l’origine di questo polo magnetico, che è un’astronave sepolta nei ghiacci da almeno mezzo milione di anni: più avanti verrà detta essere grande poco meno di cento metri per venti (trecento piedi per sessanta); Vane, il fisico della spedizione, stima necessario un equipaggio di almeno dieci «esseri» per governarla ma, aggiunge, per dimensioni potrebbe benissimo contenerne anche trecento.
Appena al di fuori dello scafo scorgono il corpo della cosa: e subito – ossia nel secondo capitolo – si mettono a scavare nel ghiaccio cristallino, per recuperare l’alieno e giungere all’astronave, che pure è invasa dal ghiaccio. Nelle pagine successive vengono date alcune splendide descrizioni dei quattro che lavorano sotto il ghiaccio trasparente e degli effetti di luce proiettati dalle loro torce al magnesio, così come vengono visti dalla superficie.
Nella fretta di estrarre il corpo, McReady, il personaggio che più si avvicina al protagonista della storia, assesta involontariamente un colpo di accetta alla testa della creatura e così le spacca il cranio: la circostanza dovrebbe rassicurare il lettore, perché se non sono bastati cinquecentomila anni di sepoltura nel ghiaccio per ucciderla, almeno il colpo alla testa dovrebbe esserle stato fatale.
E, sempre per la fretta, i quattro combinano un altro guaio: dato che sarebbe impossibile liberare anche la nave con le sole accette con cui sono attrezzati, decidono di usare una bomba alla termite per sciogliere il ghiaccio che la imprigiona; tanto più che pare essere fatta di una lega super resistente, inscalfibile, refrattaria persino agli acidi. Ma evidentemente hanno fatto male i conti, perché lo scoppio innesca l’esplosione a catena dell’intero vascello, il cui scafo prende fuoco e diventa un’immensa torcia di metallo, con botto finale: «Era una lega di magnesio e alluminio, temprata col berillio ed altri metalli», sentenzia Vane a disastro ultimato.
L’esplosione è così potente che causa la devastazione di tutta l’area e viene avvertita anche al campo base, a diverse decine di chilometri di distanza: i quattro scienziati si salvano perché trovano riparo dietro una cresta di rocce ma tutte le loro strumentazioni restano fulminate dagli impulsi magnetici generati dal disastro.
A quel punto, raccolgono le loro cose, salgono sul gatto delle nevi e con l’alieno a rimorchio fanno ritorno al campo base, dove tutti sono in ansia per loro: dopo le necessarie spiegazioni, i trentasette membri della spedizione si riuniscono nella sala principale per l’assemblea generale in cui devono decidere il destino dell’alieno. Inizia così il quarto capitolo: da qui in poi la storia è praticamente la stessa, fatte le necessarie correzioni, per lo più per incorporare i frammenti di antefatto rimossi nella revisione.
Mai mostrare il mostro
Con buona approssimazione si può dire che quanto più viene lasciato all’immaginazione tanto più spaventosa riesce la storia: infatti non solo il lettore (o lo spettatore, nel caso dei film) colma quei vuoti con le proprie paure ma, tenuto nell’incertezza, non è nemmeno mai sicuro che la sua intuizione sia quella giusta. «Who Goes There?» è un classico proprio perché dà forma a quella che è la regola d’oro del genere orrorifico: descrive superficialmente la creatura ma senza soffermarsi sui dettagli superflui, come la sua origine o natura; queste sono speculazioni che lascia al lettore.
«Frozen Hell» invece prende la strada opposta e già prima della metà fa la radiografia dell’alieno. Apprendiamo così che l’aspetto della creatura è quello che conosciamo: alta sul metro e venti, del peso stimato di una quarantina di chili («è grande come un husky», dice Blair, il biologo, che così dà un metro di paragone), con pelle blu, tre occhi rossi dall’espressione malvagia e capelli – sempre blu – spessi come lombrichi, «forse l’organo di un qualche senso che ci è sconosciuto». Per dirla come Copper, il medico della spedizione ed uno dei quattro scopritori del mostro, sembra «un incrocio tra una pantegana in trappola, un serpente velenoso ed un demone del decimo secolo sbucato direttamente dall’inferno».
Vero, le stesse descrizioni anatomiche, più sfumate, appaiono anche nella revisione, che però si ferma lì; al contrario, l’originale si spinge ben oltre ed insiste nei dettagli: per esempio, accenna alla leggerissima peluria che ricopre la creatura, come se un momento prima di congelarsi avesse iniziato a mutare dalla forma attuale ad un’altra più adatta a sopravvivere al freddo, probabilmente pescata dalla memoria tra le forme che aveva già assimilato.
Nessuno può dire se questa sia la sua vera forma, la forma degli alieni dalla cui nave era appena fuggita o la forma di qualche altra specie assimilata: più probabilmente nessuna delle tre ipotesi è corretta. Verso la fine del terzo capitolo McReady, dopo aver sognato una mutazione della creatura, dubita infatti che «sia legata ad una forma o dimensione» ma crede che «possa plasmare il proprio sangue e la propria carne e persino la più piccola delle sue cellule non per imitare ma per duplicare il sangue e la carne e le cellule di qualsiasi altra cosa. E leggere i pensieri, le abitudini, la mente di chiunque». E così è già rivelato il trucco: il lettore sa cosa aspettarsi e, quando arriverà alla scena madre dell’esame del sangue, sarà anche già preparato alla spaventosa scoperta che il sangue non è sangue ma è vivo; e così si perderà tutto l’orrore della scoperta improvvisa.
Un libro di cui non si sentiva il bisogno
Nell’insieme «Frozen Hell» non è un cattivo libro: non potrebbe esserlo, visto che in definitiva racconta la stessa storia che già conosciamo, di un capitolo più lunga. È nel confronto con «Who Goes There?» che ha la peggio, perché quest’ultimo è nettamente superiore: più veloce, più misterioso, più spaventoso. Semplicemente perfetto.
Se «Frozen Hell» fosse stato pubblicato subito, e quindi Campbell non avesse avuto bisogno di riscriverlo, oggi sarebbe senza dubbio questo il «grande classico della fantascienza orrorifica» di cui tutti parlano perché il nucleo della storia rimane solido: ma dal momento che la versione per così dire ufficiale del racconto è quella riveduta della seconda redazione e «Who Goes There?» è così buono, di «Frozen Hell» proprio non si sentiva il bisogno. È infatti solo un’operazione di marketing, sia pure perfettamente riuscita: ha poco senso per l’appassionato, che qui trova poco più di una curiosità, e nessuno per il lettore casuale, che nel racconto pubblicato nel 1938 trova una storia decisamente migliore.
Probabilmente proprio per questo il curatore ha cercato di rendere più appetibile il volume integrandovi aggiunte superflue, come l’introduzione di maniera di Robert Silverberg, le scialbe illustrazioni di Bob Eggleton (storico disegnatore di Dungeons & Dragons) e, in appendice, una revisione della storia in chiave moderna scritta da John Gregory Betancourt, ignoto autore di serie C che però una quindicina di anni fa ha acquisito i diritti di Weird Tales.
Ma se l’esumazione di «Frozen Hell» si fosse fermata qui i danni sarebbero del tutto trascurabili: il guaio è che a gennaio di quest’anno hanno anche annunciato un nuovo film ispirato alla Cosa che, ahimè, seguirà la trama di «Frozen Hell».
Quel giorno sì che è iniziato il vero orrore.
Aggiornamento: la traduzione italiana della storia, intitolata «Inferno di ghiaccio», è uscita nel maggio 2022, due anni abbondanti dopo questa recensione.
One thought on “John W. Campbell – Frozen Hell”