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Edmond Hamilton – Il fuggiasco della galassia (Starwolf 1)

Non sono mai stato un grande appassionato dei libri di Hamilton, che anzi trovo piuttosto dozzinale, quasi una versione appena più tollerabile di Van Vogt: tuttavia riconosco l’enorme contributo che, col suo entusiasmo, Hamilton ha dato alla fantascienza ed in particolare alla space opera. Ciononostante non sono mai riuscito a terminare un suo libro o, nei rari casi in cui ce l’abbia fatta, non sono mai riuscito a goderlo.
Poi mi sono imbattuto in Morgan Chane, il «Lupo dei Cieli» (Starwolf), e ho dovuto cambiare il mio giudizio su questo autore.

Piacere, Chane. Morgan Chane
L’opera cui mi riferisco è «Il fuggiasco della galassia» (The Weapon From Beyond, 1967), prima di una trilogia che ha per protagonista il «Lupo dei Cieli» eponimo: questi – che di nome fa Morgan Chane appunto – è un terrestre nato e cresciuto su Varna, un pianeta dalla forte gravità che produce un’unica risorsa, esportata con dovizia ma disprezzata da tutti. Sono – sorpresa! – proprio i «Lupi dei Cieli», pirati temuti dappertutto non solo per la loro ferocia ma anche per le loro caratteristiche fisiche particolari: più forti, più veloci, più scaltri, più tutto, grazie alle condizioni proibitive del pianeta nativo.
Pur non essendo uno di loro per sangue (umanoidi di aspetto, i varniani sono però ricoperti di una peluria ed hanno un aspetto nell’insieme felino: più che lupi, quindi, tigri o felini ma tant’è), Chane lo è divenuto per adozione: favorito dalla gravità del pianeta, anch’egli è divenuto un superuomo, come Hamilton ama caratterizzare i suoi protagonisti.
È proprio il caso di dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Siamo figli delle stelle
Senza addentrarmi troppo nell’ambientazione, che lo stesso autore si limita a delineare solo nelle sue parti indispensabili ai fini della storia, mi sento però in dovere di citarne almeno i due punti più rilevanti.
Il primo è che nel futuro l’umanità è diffusa in tutta la galassia: non per merito di noi terrestri però. Quando infatti le prime astronavi hanno lasciato il sistema solare, gli astronauti che le guidavano hanno scoperto che gran parte degli altri pianeti era già abitata da razze nell’insieme umanoidi, con differenze spesso minime se non nulle dall’archetipo terrestre: pare infatti che, in tempi dimenticati, la forma umana sia stata sparsa in un’infinità di sistemi solari da un’altra razza (forse umanoide a sua volta) e che poi questi campioni, lasciati a se stessi, si siano evoluti adattandosi alle condizioni ambientali dei loro pianeti e sviluppando così le lievi differenze riscontrabili oggi. Posso solo immaginare lo sconforto di quei primi esploratori quando hanno scoperto che gli alieni non sono poi tanto diversi da noi.
Il secondo aspetto da tenere a mente è la povertà della nostra terra rispetto alla gran parte degli altri pianeti: per questo la sua principale risorsa sono gli uomini, che esportiamo in tutta la galassia. Particolarmente ambiti sono i Mercenari (chiamati «Mercs» anche nella traduzione italiana), piccole bande di avventurieri che si formano e disfano in base alle necessità: si può vedere qui un parallelo con i Lupi varniani, con la differenza che, mentre i pirati sono presentati come predoni sanguinari, i mercenari sono invece contraddistinti da un rigore e da un codice d’onore strettissimi.

La superarma aliena
Il libro si apre su Chane ferito e fuggiasco: nello spartire l’ultimo bottino sono sorti motivi di discordia coi Lupi, risolti nel sangue. Chane ha ucciso uno dei suoi «fratelli», è stato ferito a sua volta ma è riuscito a fuggire ed ora è inseguito dalla flottiglia dei pirati assetati di vendetta. Avvistata una nave di mercenari, Chane riesce a farsi raccogliere spacciandosi per un minatore di asteroidi: il capo dei mercenari, John Dilullo, non la beve però e da subito smaschera il varniano; ma lo fa in privato, sfruttando poi la finta copertura di Chane come motivatore per la nuova recluta. Entrambi sanno infatti che l’odio che tutti provano per i Lupi è tale che, se i mercenari scoprissero la vera identità del protagonista, non esiterebbero a farlo a pezzi.
A questo punto merita spendere due parole su Dilullo, che di fatto è il coprotagonista del ciclo: presentato non meno competente di Chane, il capo dei mercenari è vecchio ma conserva intatte tutte le proprie qualità, in particolare l’astuzia, l’intelligenza e l’autorità sul suo piccolo esercito. Tra lui e Chane nasce un’autentica amicizia, ispirata dal rispetto reciproco: e, onestamente, Dilullo è un personaggio molto più affascinante di Chane, se non altro perché è «solo» un uomo e non un superuomo come il varniano.
La nave dei mercenari è in missione: è diretta sul pianeta Tale, dove riceve l’incarico di spiare il pianeta Talaltro, suo acerrimo nemico, e di distruggerne una superarma che si dice sia in grado di spazzar via ogni opposizione. Si tratta giusto di un espediente per portare i mercenari (e quindi i protagonisti) di scena in scena nel pieno dell’azione: la superarma in questione non è altro che il relitto di un’enorme astronave aliena precipitata secoli fa su un pianeta inospitale dello stesso sistema solare dei due avversari e zeppa di oggetti recuperati dal suo equipaggio sui diversi pianeti; l’equipaggio stesso – una razza di umanoidi così snodati da essere paragonati alle alghe – è ancora in vita, conservato da un campo di stasi.
Mentre i protagonisti esplorano il relitto e si preparano a combattere con i due incrociatori del pianeta «spiato» che proteggono i lavori di recupero, arriva la nave di soccorso aliena che, bloccato ogni altro sistema meccanico ed elettronico dei contendenti, provvede sia al recupero (dell’equipaggio e del carico) sia alla distruzione del relitto, offrendo così ai protagonisti l’involontaria occasione di mettersi in salvo ed al tempo stesso di riscuotere il premio per aver compiuto la missione, senza colpo ferire.

La space opera ed il senso del meraviglioso
Il libro parte lento, molto lento: nei primi due capitoli non c’è un solo dialogo; poi pian piano la storia prende vita e da quel momento in poi il ritmo si mantiene quasi frenetico sin verso la fine.
La storia è anche avvincente: offre un’interessante ambientazione, begli scorci di civiltà aliene ma non troppo, la minaccia sempre presente di un antagonista pericoloso (i Lupi dei Cieli che ancora inseguono Chane ed intanto ne approfittano per un po’ di saccheggio extra), la civiltà aliena curiosa ed il classico «Big Dumb Object» che risveglia subito l’attenzione del lettore e ne porta al massimo la curiosità.
Rimane, certo, una space opera un po’ datata, quindi gli appassionati un po’ snob della fantascienza moderna – lentissima, freddissima, superscientifica ed attenta ad includere tutti senza offendere nessuno – non potranno fare a meno di giudicare questo libro una reliquia di un’epoca di barbarie o, i più indulgenti, solo anacronistico. Chi invece ama i pulp non può restare indifferente: qui c’è davvero tutto quello che si può desiderare in una space opera: c’è avventura, c’è azione, c’è mistero, c’è passione.
In altre parole, c’è quel senso del meraviglioso che invece manca a tutta la fantascienza degli ultimi vent’anni e forse più: ed è proprio così che Morgan Chane mi ha fatto riscoprire Hamilton e persino apprezzare molte delle sue opere.

Aggiornamento: il commento al secondo volume della trilogia, «I pianeti proibiti» (The Closed Worlds, 1968), si trova qui; al terzo, «Stelle del silenzio», qui.

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