Una rondine non fa primavera. E una manciata di racconti fantastici pubblicati nell’arco di sessant’anni non basta a dimostrare che la fantascienza avesse messo radici in Italia ben prima della sua nascita ufficiale: è naturale infatti che avanguardie di un genere letterario – uno qualsiasi – siano sempre presenti ben prima dell’inizio riconosciuto di quel dato movimento o corrente.
Così, pur apprezzabile nell’intento, l’antologia «Le aeronavi dei Savoia. Protofantascienza italiana 1891-1952» (2001) riveste un certo interesse solo per l’accurato lavoro di ricerca e cernita svolto dal suo curatore, Gianfranco De Turris, una figura leggendaria per la critica e la diffusione del fantastico in Italia: ma dal punto di vista filologico la raccolta non riesce a dimostrare la tesi che vorrebbe sostenere (l’esistenza di una tradizione fantascientifica anche nel nostro Paese sin dai suoi albori) e conferma semmai il contrario, cioè che l’Italia di oggi non è terreno fertile per la fantascienza perché da sempre la considera un genere letterario di serie B.
O anche C.
Il canto del cigno
Pubblicata dall’Editrice Nord nel 2001 in uno dei suoi ultimi ansiti di vita prima dell’assimilazione da parte della Longanesi e della rapida perdita di identità che ne è derivata, «Le aeronavi dei Savoia» raccoglie una quarantina di racconti apparsi tra il 1891 ed il 1952 per lo più sulle riviste popolari italiane: e se per datare al 1891 l’inizio della «protofantascienza italiana» è bastato scavare indietro nel tempo, per fissarne il termine al 1952 è invece stato sufficiente regolarsi sulla nascita di Urania, che è appunto apparsa per la prima volta quell’anno e rappresenta il battesimo ufficiale della fantascienza in Italia.
Non che prima ci fosse il nulla e poi all’improvviso è apparsa la luce: ma prima di Urania la fantascienza non aveva una sua identità propria, così come mancava persino di una parola che la distinguesse dagli altri generi, coniata proprio nel 1952 dal direttore della neonata collana. Così, già il fatto che nel titolo di questa antologia si parli di «protofantascienza» e non di fantascienza e basta (in America il termine «science fiction» su cui è stato modellato quello italiano era diffuso già dal 1926 e prima ancora si parlava di «scientifiction») fornisce un primo indizio sui contenuti: le storie infatti non provengono dalle riviste specializzate come quelle americane (non ce n’erano) ma da periodici generici, rivolti ad un pubblico variegato e tutt’altro che devoto o anche solo appassionato di fantascienza o «romanzi scientifici», come piaceva chiamarli all’epoca.
L’assenza di riviste specializzate dalle quali attingere ha quindi condizionato pure la scelta e la qualità dei racconti inclusi: anche nei migliori casi si tratta di storie molto leggere e debolucce, che non reggono il confronto con quelle d’Oltreoceano, che invece già all’epoca erano più mature, articolate e avvincenti, per non dire (super)scientifiche. I racconti nostrani – almeno quelli scelti per la raccolta – hanno solitamente il tono della fiaba o della storiella edificante per ragazzi, come se l’autore stesso non credesse in quello che stava scrivendo e quasi se ne vergognasse o volesse comunque tenere le distanze dalla sua creatura: si avverte infatti un certo distacco degli scrittori, che tendono a porsi in una posizione di superiorità o condiscendenza rispetto al lettore. Di conseguenza l’azione, quando c’è, è secondaria rispetto all’esercizio mentale, allo sfoggio intellettuale, al pistolotto didascalico.
Tutt’altra impostazione rispetto ai pionieri americani, che invece si lasciavano coinvolgere in pieno dall’azione e la raccontavano assieme al lettore: magari era un espediente banale (e probabilmente necessario per riuscire a vendere la storia, a mezzo centesimo a parola) ma era anche efficace, perché trasmetteva maggiore trasporto e un’identificazione quasi totale dell’autore con gli eventi narrati.
Come esempio, si mettano a confronto le meraviglie del mondo futuro descritte da Gernsback in «Ralph 124C 41+» (che è del 1911) con le visioni future di un qualunque racconto di questa antologia: alcuni magari partono persino da ottimi spunti – in uno si parla addirittura di teletrasporto, sessant’anni prima di Star Trek (ma trenta dopo il suo autentico esordio, ad opera di un inglese) – ma presto le idee si annacquano e vanno a perdersi in finali deboli e sbrigativi.
Niente senso del meraviglioso
Il peccato originale di queste storie potrebbe essere individuato nell’assenza di qualsiasi senso del meraviglioso, che poi è l’elemento fondamentale della fantascienza, almeno di quella di un tempo: anche quando vengono descritti fatti o macchinari sorprendenti subentra piuttosto quell’altro senso di cui si è già parlato, il senso di superiorità intellettuale e incredulità dell’autore, che prende le distanze come se si trattasse di roba per ragazzi. Ma non si può scrivere fantascienza se non si prova nemmeno a lasciare il lettore a bocca aperta per lo stupore: sarebbe come scrivere un giallo lasciando fuori l’assassino.
E così questi racconti hanno il sapore della pizza del giorno prima: sono ancora buoni, magari, ma senz’anima.
A gravare sulle storie intervengono poi altre questioni di contorno, che messe assieme hanno la loro rilevanza: l’ostacolo della lingua, ad esempio.
Per quanto mi addolori anche solo pensarlo, l’italiano non si presta alla fantascienza: non è una lingua tecnica ma letteraria, intellettuale, e come tale fatica ad adattarsi al fantastico e alla sua terminologia fantasiosa, creativa, ricca sia di neologismi che non devono suonare troppo accademici sia di espressioni che vorrebbero essere gergali. Quando ci prova, l’italiano suona ridicolo, forzato, inadatto: si vedano ad esempio l’«acciaina», che dà un’idea di «buone cose di pessimo gusto», e le atmosfere struggenti da paesello e Italietta risvegliate dal chiaretto, dal pastrano, dagli inventori che sono nobili e non uomini qualunque, ricchi non di titoli e denaro ma di individualismo e spirito di iniziativa.
Certo, questa era la società italiana dell’epoca, che non era certo paragonabile a quella coeva americana, frizzante ed ingegnosa: lo riconosce anche lo stesso De Turris, che infatti nella pur valida introduzione al volume sottolinea che la fantascienza è «una espressione letteraria tipica della civiltà industriale e della cultura scientifico-tecnologica» e che «il “decollo” italiano in questo settore è stato tardivo e impacciato». Ma proprio per questo se ne ricava che non si può parlare né di fantascienza italiana prima della sua nascita canonica né tantomeno di protofantascienza: non puoi avere la fanta-scienza se non hai in primo luogo la scienza, sulla quale la fantascienza si basa.
Non sorprenderà quindi che le storie migliori, quelle che avrebbero potuto figurare anche su una leggendaria rivista americana, sono quelle che non c’entrano niente con l’argomento della raccolta: racconti fantastici, misteriosi, alla Weird Tales per intenderci, dove non si parla di superscienza ma di situazioni bizzarre ed insolite, come l’uomo che si trasforma in pianta, la cattura dell’ultimo fauno, le conseguenze nefaste di una visita ad un tempio indiano. Sono storie al limite della fiaba, più affini alla tradizione narrativa italiana di quanto fosse una scienza che, nonostante il genio di certi pionieri meritatamente celebrati ancora oggi, faticava a farsi strada in un paese legato ancora in gran parte all’agricoltura.
Tutti i racconti
La raccolta si compone di trentanove storie divise in una decina di categorie: Altri mondi; Esseri di altri mondi; Invenzioni straordinarie; Scienziati pazzi; Mostri vegetali, animali e umani; Il mondo prossimo venturo; Domani possibili; Guerre future; Catastrofi; e Avventure metapsichiche.
In appendice si trovano brevi biografie degli autori e i profili delle riviste, oggi dimenticate, su cui i racconti sono apparsi in origine.
Come di consueto, di seguito pubblico un breve riassunto e commento di ciascun racconto.
– A. E. Zuliani – Il fascino dell’ignoto (1905)
Raccontino didascalico scritto con la tipica ingenuità della storia destinata ai giovanissimi: non ha una trama vera e propria ma segue un canovaccio che procede come uno schiacciasassi ed offre man mano l’occasione di tirare pistolotti pseudoscientifici.
In sostanza, un americano (o inglese) ha nascosto una cassa zeppa di diamanti al polo nord di Venere e l’ha pubblicizzata sui giornali, mettendola a disposizione di chiunque arrivi per primo a metterci le mani sopra: vuole così promuovere il progresso scientifico. Non viene però detto come abbia fatto l’americano (o inglese) a giungere su Venere né viene dato il giusto risalto al fatto che è stato lui il primo a raggiungere il pianeta.
Ad ogni buon conto, il professore protagonista della storia raccoglie la sfida e progetta una sfera di cristallo che, grazie ad un qualche meccanismo che inverte la gravità, arriva su Venere in sei ore: ma durante i lavori di costruzione della sfera, che per ragioni di segretezza si svolgono su un’isola dell’oceano Indiano, i piani vengono trafugati da una spia, che poi fugge con l’aiuto di un sommergibile. Il cantiere subisce un ritardo ma finalmente un giorno, all’equinozio d’autunno come previsto, i quattro protagonisti partono: il professore, la nipote, il suo fidanzato ed il meccanico.
Arrivano su Venere e parcheggiano la sfera da qualche parte nelle paludi, proseguendo a piedi, invece di piombare sul polo nord direttamente con la sfera, prendere la cassa coi diamanti e tornare: ma così c’è spazio per un altro po’ di trama e soprattutto per altri pistolotti. Che d’ora in poi riguarderanno soprattutto i dinosauri con occasionali sortite in altri campi, come la vulcanologia: i nostri infatti fanno alcuni brutti incontri con i rettili che popolano il pianeta, identici a quelli che hanno popolato il passato della terra, ma se la cavano ogni volta per meriti propri o per fortuna.
Avvicinati dagli indigeni (ometti primitivi alti un metro e mezzo e con la coda, muti), li allontanano con un colpo di fucile quando questi diventano troppo pericolosi, ossia dopo una mischia in cui però nessuno rimane ferito. Poco dopo invece rimangono feriti – anzi, uccisi – due austriaci, quelli che avevano rubato i piani della sfera e preceduto i nostri sul pianeta: infidi come ci si può aspettare dai nostri tradizionali nemici, i due standosene nascosti sparano al gruppo ma mancano i nostri, che invece hanno una mira migliore e non falliscono nessun colpo.
Il resto della storia è l’ultima remata per raggiungere l’isola che è il polo nord veneriano (e non venusiano) e recuperare la cassa nascosta dall’americano (o inglese): nel finale, c’è una nota sul tricolore piantato sul pianeta, che però, vale la pena ripeterlo, non è la prima bandiera ad essere giunta su Venere.
– Eugenio Prandi – La morte del re Salibù (1942)
Racconto metaforico nello stile della fiaba. L’orgoglioso re dei giganti viene sconfitto dai difetti dell’umanità: alla fine preferisce la morte piuttosto che spezzare la verità che gli tiene legate le mani. Visto l’anno di pubblicazione è intuibile anche la finalità edificante del racconto. Non male, ma come fiaba: certo non come racconto di fantascienza.
– Antonio Acierno – Dalla Luna alla Terra (1912)
Dopo aver dibattuto se esista la vita sulla terra, i seleniti, razza progredita, discendono sul nostro pianeta: atterrano nel deserto, ignorano l’umano che è presente e si avvicinano ad un gruppo di leoni, che si sentono minacciati e li attaccano. Fuggono in gran fretta e concludono che la terra è sì abitata ma i suoi abitanti sono selvaggi.
– Giorgio Cicogna – HRN (1931)
Da un mondo micidiale a sessantamila anni di distanza l’alieno HRN scruta la terra e la sogna: ma deve fare i conti con i Davis, nemici della sua razza. Gli uni sono esseri tentacolari, gli altri membranosi. Niente di particolare.
– Salvatore Gatto – Vita delle comete (1936)
Trasfigurati in comete, gli ex abitanti di un pianeta vagano per l’universo: ma, stanchi ed annoiati, decidono di fuggire per venire nel nostro sistema solare. Sorpresi nella fuga, vengono puniti da un regime che non permette nemmeno la frequentazione tra comete maschi e comete femmine.
– P. – Il chiesofono (1891)
Racconto ironico sul progresso e sulla tecnologia, che viene davvero dal diavolo: è la conclusione cui giunge il prete anziano, dopo aver sostenuto il contrario all’inizio della confessione del prete più giovane.
La tecnologia – in questo caso, il telefono – è sempre più invadente: infatti, sull’esempio del «teatrofono», che permette di seguire il teatro a distanza, è stato inventato anche il «chiesofono», che permette di confessarsi a distanza. Una contessa da poco sposata lo ha fatto installare in camera da letto ed ogni sera chiama il prete giovane per confessarsi: ma una sera il marito entra in camera prima del consueto e, vistala intenta a confessarsi all’apparecchio, prende la cornetta, usa brutte parole col prete e stacca la comunicazione. O crede di averlo fatto: la linea invece è rimasta attiva e così il prete è costretto a sentire tutto quello che succede in camera da letto. Udito ciò il prete anziano è costretto a ricredersi: la tecnologia è davvero uno strumento del diavolo. Molto delicato e carino.
– Egisto Roggero – Il mago (1901)
La superscienza c’entra poco qui, almeno secondo i canoni tipici: non ci sono macchinari ma solo ipnosi e facoltà forse mentali dello «scienziato», che appunto appare come un mago al profano («siete un mago voi!» «no, sono semplicemente uno scienziato»): ma in senso stretto il mago è uno scienziato, un uomo di scienza, anche se diverso dallo scienziato inventore che la fantascienza è solita presentarci. Torna così evidente il carattere leggermente più impegnato, intellettuale della fantascienza italiana rispetto a quello più pratico, d’azione della fantascienza americana.
In sostanza, il protagonista va a trovare lo scienziato che gli è stato presentato giorni prima e si sottopone volontariamente ad una serie di esperienze dirette, per saggiarne le capacità: lo scienziato lo fa volare; gli sposta gli organi ricettivi dei sensi, così che ad esempio sente gli odori col mento; lo sottopone ad un’esperienza di metempsicosi mandando il suo spirito nella corolla di un fiore, in un cubetto di zucchero e così via. L’unica vera macchina superscientifica che appaia nella storia è un microfono che, collegato ad un grammofono, permette di udire rumori impercettibili come lo scorrere del sangue nelle vene ed i passi di una mosca su un foglio di carta. Alla fine l’uomo si scopre prigioniero degli esperimenti e sviene per il terrore: al risveglio, scopre di essere stato soccorso dal mago e fugge.
– Attilio Donatuti – Un esperimento del dott. Alset (1906)
Un famoso scienziato decide di investire tempo e denaro in un tentativo di comunicazione con Marte: un telegramma spaziale. Ma al momento dell’invio della comunicazione, davanti alla stampa e a migliaia di persone, l’esperimento non solo fallisce per colpa sua ma si trasforma anche in un disastro. Sia lui sia il capo operaio si erano infatti dimenticati di staccare la scala dal palco su cui era stata costruita l’enorme antenna, che in questo modo non è più isolata come dovrebbe essere: all’attivazione divampa in un’esplosione di luce, alla quale segue una grandinata con chicchi grandi come noci di cocco. Ci sono morti e feriti.
Tre anni dopo l’astronomo che lo aveva assistito nella progettazione (doveva determinare il momento migliore per lanciare il messaggio e poi avrebbe dovuto controllare se il messaggio avesse raggiunto il pianeta) lo chiama per avvisarlo che su Marte ha visto accendersi delle luci in una zona deserta, di una potenza tale che non si erano mai viste prima, segno che il pianeta è abitato e che il messaggio è stato ricevuto: questa deve essere la risposta.
Il finale lascia intendere che la storia fosse più lunga, probabilmente i seguiti sono stati pubblicati su altri numeri della rivista. Fin qui non è niente di eccezionale.
– Ettore Santi – L’esperienza di Donati (1906)
Uno dei racconti più maturi, solidi e fantascientifici della raccolta, di tono quasi paragonabile a quelli americani: solo il finale lo rovina. Parla dell’invenzione del teletrasporto (ma non è la sua prima apparizione: l’esordio è del 1877 in «The Man Without a Body» dell’inglese Edward Page Mitchell) da parte di un giovane inventore, che lo sperimenta mandando il proprio cane a casa dell’amico: poi, visto il successo, decide di tentare con un uomo e decide di tentare lui stesso.
Ma la notte dell’esperimento l’amico, temendo per l’incolumità dell’inventore, abbandona il suo posto alla stazione ricevente per correre in treno a casa dell’amico: il suo ruolo era importante, perché avrebbe dovuto aprire immediatamente il portellone della macchina non appena si fosse materializzato il corpo dell’amico, per evitare che morisse asfissiato (nella scatola si forma il vuoto). Così incarica la moglie di occuparsi della vigilanza senza spiegarle cosa doveva aspettarsi: ma in treno si addormenta e così manca la stazione; e quando arriva a casa dell’amico è ormai tardi, lo vede coricato nella stazione di partenza che si sta già dissolvendo lentamente.
Dall’altra parte, la moglie dell’uomo si accorge che qualcosa sta accadendo: così guarda nella macchina e vede che si stanno formando i lineamenti dello scienziato. Presa dal panico, apre il portellone della stazione ricevente troppo presto, bloccando la trasmissione a metà: infatti è arrivato lo spirito dell’inventore ma non il suo corpo. Lo spirito così si libra nell’aria e scompare; la moglie impazzisce. In seguito a ciò l’amico, fanatico della scienza, inizia ad interessarsi dello spiritismo: la storia si chiude con il suo annuncio che quella sera riuscirà a parlare con l’amico grazie all’intervento di un famoso medium.
Già a metà della storia, quando l’amico dice che serve qualcuno che apra lo sportello al posto suo e decide di farsi sostituire dalla moglie per correre ad interrompere il pericoloso esperimento, è chiaro che le cose si metteranno male: ma nell’insieme il racconto è comunque buono.
– Manuele Oris – Il fascino del passato (1907)
Racconto che sfrutta le varie teorie sulla velocità della luce e le mescola alla superscienza: in sostanza un tedesco ha inventato una macchina che permette di vedere gli eventi del passato proiettati su un telone come al cinema. Può farlo perché sposta il suo punto di vista nella galassia e così, sfruttando il ritardo con cui la luce attraversa lo spazio, può vedere gli eventi che in quel momento sono visibili in quel determinato punto dello spazio.
Grazie all’invenzione il narratore può vedere in diretta una battaglia della Roma repubblicana e sulla base di questa esperienza riscrive la tesi di laurea, contraddicendo la storiografia ufficiale: con un pizzico di ironia, alla discussione viene bocciato.
Il finale è la lettera che il laureando, piccato, scrive al relatore per annunciare la rivelazione della macchina che il tedesco presto farà. Molto carino.
– Luigi Capuana – L’acciaio vivente (1913)
Un inventore inventa una sostanza, l’acciaina, che tempra il corpo delle persone e ne fissa la bellezza per sempre: è infatti spaventato dalla nevrastenia crescente, che minaccia la distruzione della razza umana. La moglie accetta di fare da cavia e dopo qualche tempo, già bella di suo, diventa ancora più bella: ma al tempo stesso diventa anche dapprima più fredda e distaccata dagli eventi, poi quasi superba o superiore rispetto agli altri, marito incluso.
Un giorno infine si risveglia ed è irriconoscibile, stremata e avvizzita, come se il corpo fosse esausto: così ripete l’avvertimento di un altro scienziato incontrato all’inizio, che certi esperimenti non dovrebbero riuscire mai.
– Armando Silvestri – Il rapitore della folgore (1905)
Un tedesco, assistente di un inventore italiano, cerca di rubargli la sua scoperta: il modo di estrarre la vita, il quid, l’elettricità, dalla materia privata di residui materiali, che l’inventore ha appena rinchiuso in una bottiglietta di vetro. Lo fa per «l’avido istinto della razza, che fa d’ogni tedesco lo sfruttatore rigido e senza scrupoli di ogni nuova conquista della scienza, frutto il più delle volte d’un ingegno estraneo al suo».
Il contenuto della provetta è detto essere di una «potenza illimitata»: nella colluttazione che segue al tentativo di furto, la bottiglietta cade e causa un’esplosione tremenda, nella quale muoiono entrambi.
– Edgardo Baldi – La macchina dei raggi blu (1929)
Un altro racconto dal sapore pulp: un tale, un americano, ha inventato una macchina che è in grado di utilizzare il magnetismo terrestre per mutare o creare la materia, semplicemente impressionando gli elettroni che la costituiscono. Il suo ragionamento è: se alla sua base tutta la materia è identica perché è costituita da elettroni, allora cosa determina le differenze tra le diverse sostanze? Risposta: il magnetismo.
Così ha inventato questa macchina dei raggi blu, che però sono mortali per l’uomo.
Perseguitato per decenni dai malvagi germanici, che hanno fatto scoppiare la guerra anche per mettere le mani sulla sua invenzione, lo scienziato si è ritirato in un laboratorio quasi segreto sulle Montagne Rocciose, che è assediato dai tedeschi e dagli indiani: quando è il momento di concludere l’esperimento riesce a farsi raggiungere dal suo vecchio amico dei tempi dell’università, un nobile inglese che è anche il narratore. L’esperimento non può fallire: per funzionare, i raggi hanno bisogno di una quantità spaventosa di energia magnetica, che lui sta accumulando da dieci anni. Non può permettersi di aspettare altri dieci anni,
Ma proprio quando sta abbassando la leva dell’interruttore, uno dei suoi aiutanti lo tradisce, apre le porte del laboratorio e permette di entrare agli indiani che lavorano per i tedeschi: così nell’attimo più drammatico l’esperimento forse fallisce ma sicuramente uccide tutti (tranne il narratore, che vestiva un abito protettivo) e distrugge il laboratorio. Tipico della vecchia fantascienza.
– Arnaldo Fraccaroli – L’autocasa (1913)
Racconto ironico sul bisogno della macchina, sul suo impatto sulla società, sui capricci che la circondano e, già che ci siamo, sul modernismo che qui è rappresentato dal futurismo: già all’epoca la macchina stava diventando così importante e vezzeggiata che, l’autore immagina, lei stessa aveva bisogno di una casa sua, l’autocasa appunto. Noi diremmo «garage».
È un bisogno creato dall’azienda che le costruisce: tutto nel colloquio del curioso protagonista con l’ingegnere progettista è fatto per far sorridere il lettore (e prendere in giro i concetti chiave del futurismo) grazie alle assurdità proposte, come la rimessa sotterranea (che però sembra una tomba), la rimessa sopraelevata collegata al suolo con l’ascensore o una rampa esterna così scomoda da percorrere che fa andar via la voglia di usare la macchina, e così per ottantamila lire (una fortuna) si risparmia sul carburante. Alla fine il protagonista non ne fa niente perché non possiede un’auto: e la rivelazione provoca un mezzo infarto all’entusiasta ingegnere.
Carine alcune osservazioni, come quelle per le bellissime ma scomodissime sedie tubolari della sala in cui viene fatto accomodare: «E ancora una volta mi sentii preso d’ammirazione per questa architettura e questo arredamento che mettono ad un fraterno livello di eguaglianza le case e gli appartamenti, abolendo la varietà, la quale è un segno di egoismo perché tende a differenziare una persona o una cosa dalle altre, e anche è un segno di sopraffazione perché non ammette di assoggettarsi ad una regola generale». (6)
– G. Massa – Fu un sogno?!! (1906)
In sogno un giovane scienziato viene scelto come successore da un altro scienziato eremita, l’ultimo di una lunga serie di inventori che si perpetua da Galileo: ma per ottenere il posto deve rinunciare a tutto, anche alla fidanzata.
Lo scienziato anziano vive in un magazzino zeppo di macchine fantastiche, eredità sua e dei suoi predecessori, in attesa che l’umanità sia abbastanza matura per ricevere questi doni straordinari: il grado di maturità viene determinato da criteri di ispirazione globalista e marxista, come ad esempio liberarsi «di una setta retrograda» (la Chiesa) ed unirsi in un’unica nazione mondiale.
Il prescelto però è diviso tra due amori: quello per la scienza e le meraviglie che gli vengono mostrate e quello per la sua fidanzata. Per aiutarlo nella scelta, l’eremita attiva un’altra di queste macchine e gli mostra una scena in diretta da Roma, dove vive la ragazza: è distesa sul proprio letto, morente, circondata da amici e parenti in lacrime. Preso dal fuoco interiore, il giovane vuole raggiungerla il prima possibile ma lo scienziato cerca di trattenerlo: nel tentativo di liberarsi il giovane inciampa in un tubo che in un attimo causa la distruzione del magazzino e dei suoi contenuti. Solo lui si salva perché era presente solo in spirito, richiamato da un altro macchinario prodigioso.
Risvegliatosi immediatamente, corre a Roma e trova la porta della casa della ragazza aperta: con un finale a sorpresa, la ragazza è morta quella mattina. Si sarebbe detto che l’avrebbe trovata guarita o l’avrebbe guarita lui stesso, con la sola sua presenza.
– Paolo Ghiringhelli – Svilucpator (1907)
Solita storia di uno scienziato che inventa una macchina capace non solo di alterare la vita (qui accelera il processo di crescita) ma, credendo di potersi sostituire a Dio, anche di crearla: ma così facendo impazzisce e muore nell’esperimento, che fallisce e causa un grande incendio, per cancellarne ogni traccia.
Intanto in Spagna è apparso un monaco che ha appena ideato la stessa macchina dell’amico.
– Gastone Rossi D. – L’uomo di legno (1907)
Qui lo scienziato ha ideato una macchina che trasferisce la vita da una creatura viva ad una statua di legno: ci è riuscito con un cane, adesso vuole provare con un uomo. E ha scelto come volontario involontario il suo più caro amico, che con l’inganno attira nel laboratorio ed invita a mettersi comodo sulla poltrona su cui pende il casco necessario al processo. Ma l’amico ha già mangiato la foglia e nella colluttazione che segue attiva involontariamente la macchina, che trasferisce la vita dell’inventore nel burattino di legno che aveva preparato, il quale poi prende fuoco ed incendia tutta la casa.
– Luigi Motta – L’annientatore (1907)
A New York scompaiono due attori, marito e moglie: il narratore scopre che sono stati rapiti da un conoscente che, innamorato di lei, ha inventato una macchina capace di trasformare la carne in metallo. Ha già convertito in statua l’attore ed ora cerca di far cedere la donna, che ama pazzamente: il narratore assiste alla scena, poi interviene e nella colluttazione che segue il rapitore finisce nella macchina, che si attiva e lo trasforma in una statua di metallo. Poi – sorpresa – prende fuoco.
– Mario Panizza – La scomparsa dell’Australia (1922)
Esperimento di ipnosi collettiva: il relatore fa credere ai presenti di vivere un incubo in cui l’intera popolazione dell’Australia – dov’è ambientato – viene uccisa col cloro liberato da uno scienziato pazzo, che così vuole risolvere il problema della sovrappopolazione. Quando i presenti vengono risvegliati, l’uomo spiega che si era trattato solo di un’illusione: la vera soluzione alla sovrappopolazione è lì sul tavolo accanto a lui. In quella un brivido corre per le schiene di tutti, perché è una bombola identica a quella da cui, nell’illusione, lo scienziato aveva liberato il cloro. Ma l’etichetta rassicura subito tutti: è un nuovo superfertilizzante.
– Gastone Simoni – Il segreto della vita (1926)
Altro racconto in stile pulp, scritto abbastanza bene: a New York vengono trovati morti per le strade, tutti per lebbra. In realtà sono vittime di uno scienziato pazzo che sta sperimentando sugli uomini una sua macchina capace di riportare in vita i morti: ma non è ancora perfezionata, perché le sue cavie rimuoiono, coperti di pustole. Quando l’investigatore va a casa dell’inventore e lo spinge a tradirsi scoppia la solita colluttazione nella quale l’inventore rimane vittima della sua stessa macchina.
– Ciro Khan – Il fabbricante di diamanti (1931)
Racconto strappalacrime nella peggior tradizione melodrammatica italiana: l’amico del narratore è rimasto vedovo e ha un figlio ancora giovane. Si mette con un altro inventore che ha trovato il modo di ricavare diamanti dai corpi dei viventi (sinora solo animali) somministrando loro un miscuglio di sali ma sinora non è riuscito nessun esperimento: dopo l’ennesimo fallimento i due comprendono che si deve tentare con un uomo, che deve sacrificarsi per spiegare ai superstiti come dosare i sali. In quella entrambi si scoprono potenziali assassini e pensano che l’altro dovrebbe offrirsi volontario per il supplizio, poi vanno a dormire sereni.
Ma nella notte l’amico del narratore si mette in azione e si dispone a far ingerire i sali al socio, volente o nolente: solo che quello è stato più veloce di lui e li ha già somministrati al figlio dell’altro, di cui il padre si era dimenticato. Poi, preso dai rimorsi, il socio si suicida nello stesso modo, ingerendo i sali. Così muoiono entrambi: nel corpo del bambino si sono formati i diamanti, ma come può un padre aprire il corpo del figlio morto per estrarli? Quando all’inizio si cita l’esistenza di un bambino è già chiaro che farà una brutta fine a causa degli esperimenti del padre.
– Mario Contarini – L’avventura del capitano Wilson (1906)
Primo di una serie di racconti più in stile Weird Tales che Amazing Stories. Al polo Sud alcuni marinai cercano il capitano smarritosi in una tempesta di neve e trovano un mondo preistorico. Poi tornano indietro e trovano il capitano che li sta aspettando presso le slitte: ma sulla strada del ritorno trovano il corpo del capitano. Un racconto pieno di mistero.
– Ercole Luigi Morselli – La donna-ragno (1915)
Altro racconto melodrammatico: la donna ragno è un fenomeno da baraccone. È una donna senza braccia né gambe alla quale hanno attaccato finte zampe da ragno: ed è pure un’amica d’infanzia dei protagonisti – un soldato e la sua bella fidanzata – che da bambina si era ammalata e nella guarigione aveva perso gli arti. La fidanzata è crudele e prende in giro la donna ragno, che si mette a piangere: così il soldato, intenerito, fa la predica alla fidanzata; ma lei, offesa, alla fine lo lascia con un palmo di naso.
– Luigi Ugolini – L’uomo vegetale (1917)
Continuano i racconti in stile Weird Tales: un tale, un botanico brasiliano, racconta al narratore la sua esperienza nell’Amazzonia, dove aveva trovato una pianta sconosciuta – una specie a sé – e nel raccoglierne un campione si era punto con una spina, simile ai denti di una vipera.
Così è iniziata la sua trasformazione in un altro esemplare di quella pianta, giustamente temuta dagli indios: è passato del tempo da allora ed ormai la metamorfosi è completa, la pelle dell’uomo è verde, le mani (nascoste da guanti di seta) sono foglie, ricoperte dello stesso motivo simile ad un occhio umano malvagio che in principio aveva colpito il botanico. E Questi non è paraplegico ma si serve della sedia a rotelle perché le gambe, pure trasformate in rami, sono ormai inutilizzabili.
Suggestivo ma più adatto a Weird Tales che, mettiamo, Amazing.
– Umberto Gozzano – L’ultimo fauno (1920)
A metà del Settecento in Belgio viene catturato un fauno, l’ultimo al mondo: scambiato inizialmente per il demonio, si rivela una creatura benevola e di grande intelligenza, capace di parlare il latino classico, la lingua in cui era solito conversare con i suoi simili. Il prete del posto però aizza gli abitanti del paese e li manda contro la casa del sindaco, dove il fauno è ospitato e, nei limiti, protetto. Viene allestito un rogo ed il fauno, ormai rassegnato, arso vivo. La brutalità e l’ignoranza distruggono così le ultime vestigia della classicità, che qui sta a simboleggiare il bello e la cultura. Poca fantascienza: è soprattutto bizzarro e pseudostorico, da Weird Tales.
– Paolo Buzzi – Jungla di Barba Blu (1933)
Il giardino dell’amico del narratore è pieno di alberi strani: uno di essi è pure carnivoro. Dopo un lungo pistolotto, l’uomo apre il giardino alle donne della città, con l’intento proprio di lasciarle catturare dall’albero. Un altro racconto che per argomento avrebbe potuto figurare su Weird Tales.
– Mario Saviolo – Un viaggio nel 2000 (1918)
Si è soliti pensare che il futuro sarà radioso ma in realtà porterà solo problemi: per raggiungere da Venezia lo zio morente in America, i due protagonisti meravigliano il lettore con i prodigi del mondo del 1999. Ma quando per un guasto al motore l’aereo da crociera su cui stanno viaggiando precipita, non si può non concludere che erano molto meglio la società semplice e la tecnologia primitiva di ottant’anni prima, che almeno era più sicura: quando il motore della nave si fermava infatti non c’era il pericolo che precipitasse.
– Emanuele Correa D’Oliveira – Una visita al museo di Centropoli (1923)
Alla vigilia dell’anno tremila l’umanità vive irreggimentata. Le poche opere d’arte che sono state reputate meritevoli di essere salvate (le altre sono state fotografate e poi distrutte) sono conservate nel museo di Centropoli, il cui direttore dà ai visitatori alcuni cenni della storia passata: e soprattutto della situazione particolare dell’Italia, l’ultimo paese ad aver ceduto alla spinta progressista e tecnologizzante (è sempre una storia di fantascienza) del mondo a venire, che ora è unito sotto un governo mondiale dispotico ma condiscendente; come dire, socialdemocratico. La ragione della sua resistenza sta nella natura dell’Italia stessa, più legata alla cultura di qualsiasi altra nazione: fantascienza, appunto.
– Luigi Colombo – La vita di domani (1925)
Ambientazione alienante alla Metropolis: niente nomi di persona ma sigle, niente famiglie, l’uomo è trasformato in un ingranaggio della macchina, impersonale, anonimo. Lo stato si occupa di tutto: dà da mangiare, procura le abitazioni, rapisce i figli appena nati per indottrinarli. A rendere ancora più alienante l’ambientazione, il racconto è scritto quasi senza punteggiatura, in uno stile quasi futuristico, e senza uso delle maiuscole laddove l’ortografia le vorrebbe.
– Donato Martucci, Ugoccione Ranieri – Non votò la famiglia De Paolis (1948)
Racconto epistolare a sfondo propagandistico: è una distopia politica perché mostra cosa succederebbe all’Italia se alle prossime elezioni vincessero i comunisti. Abbandonati dall’America, passeremmo in pochi mesi dalle carestie all’inflazione fuori controllo e poi, meno di anno dopo, alla dittatura che accompagna tutte le espressioni del comunismo: alla fine, per uno «psicoreato», il protagonista (quello che scrive le lettere all’amico emigrato in Venezuela che leggiamo) viene incarcerato e fucilato; la famiglia pure incarcerata. Solo il figlio scapestrato, che è la causa di tutti i problemi, si salva e si rifugia in montagna dove ora combatte contro il governo.
– Yambo – Il «radium» (1904)
Raccontaccio: nel 1950 l’Inghilterra invade l’America. Il protagonista è un ufficiale americano che, ferito, viene catturato e curato in casa dal comandante inglese. Il protagonista riceve ordine di trafugare i piani segreti del generale dapprima si rifiuta di farlo, per riconoscenza verso l’ospitalità del suo catturatore; poi, sentitosi definire un vile dal servitore nero ed allontanato dai «corpi delle praterie» che lui stesso aveva fondato, accetta di trafugarli. Si serve del radio e degli studi sul radio condotti dallo stesso comandante inglese, che in questo modo è riuscito a guarire la figlia malata di tubercolosi.
Con la luce del radio il capitano americano riesce infatti a rendere trasparente la cassaforte in cui sono custoditi i piani e a copiarli: ma quando gli americani stanno per vincere la battaglia decisiva, proprio grazie alla spiata del capitano, viene firmata la pace tra le due nazioni e la guerra termina.
Il protagonista si sente un po’ meno colpevole ma, per una questione di fiducia tradita, rifiuta l’amicizia proposta dal comandante inglese. Poi, per espiare, fugge al polo Sud. Melodrammatico.
– Pier Giuseppe Colombi – Cronache di una città futura (1934)
È il volantino pubblicitario di Antiaerea, la città (antiaerea) del futuro; la città che metterà fine alle guerre perché, costruita per resistere alle bombe, renderà inutili anche i bombardamenti.
– Umberto Bertuccioli – La fine di Venezia (1952)
Più un resoconto, pesantissimo, che un racconto del disastro provocato da un improvviso bombardamento delle raffinerie di Marghera: tutti gli stabilimenti prendono fuoco, il petrolio incendiato si riversa in mare e lo trasforma in un muro di fiamme che pian piano raggiungono Venezia e la distruggono. La storia descrive l’avanzare di quest’onda di fuoco e la conseguente perdita del tesoro storico ed artistico.
– Secondo Lorenzini – Ciò che accadde a noi tutti il 9 settembre 190. (1906)
Il 9 settembre 190x la luna va in pezzi a causa di una tempesta solare ed i frammenti che piombano sulla terra arrestano la rotazione del nostro pianeta: sono trenta pagine di narrazione lentissima per dire in sostanza questo e mostrare le conseguenze del disastro. L’Europa si trova nell’emisfero in ombra: nel giro di poche settimane le temperature scendono sotto lo zero; si rende così necessaria l’emigrazione forzata delle popolazioni ed un cambio radicale delle abitudini.
Dal punto di vista del disastro è tutto abbastanza verosimile e coerente: ciò che non tiene, almeno per il lettore contemporaneo, è il mantenimento dell’ordine e della civiltà nonostante il disastro: i governi non solo reggono alla crisi ma sono anche capaci, sanno fronteggiare l’emergenza con prontezza ed efficacia, affidandosi alla guida illuminata di scienziati che sanno il fatto loro (è proprio fantascienza). L’esercito presidia i punti caldi ma non interviene se non per aiutare la popolazione, che rimane mansueta, senza scene di panico o rivolta. Questo è l’aspetto che colpisce di più nella storia: non c’è il crollo dei governi, non c’è ribellione aperta ma la fiducia che qualsiasi cosa verrà sarà comunque la migliore possibile.
È una tesi che oggi appare così anacronistica, ancor più dello stile fiorito in cui il racconto è scritto.
– Massimo Bontempelli – Cataclisma (1924)
In un’altra città del futuro – sconfinata, fredda, anonima e disumanizzante – il rumore incessante non dà più fastidio perché si vive la notte, che lo trasforma in un sottofondo simile al canto degli uccellini: ma all’improvviso succede un disastro che sommerge la città. Illeggibile, non si capisce dove voglia andare a parare.
– Emilio Salgari – Il mio terribile segreto (1904)
Storia di una dislocazione da Londra a Roma: il protagonista passeggia di notte per una strada di Londra e all’improvviso si trova in un’altra città che non riconosce; ciononostante interviene subito per aiutare una ragazza ed il padre assaliti da due malintenzionati, uccidendone uno con la spada. Ferito lui stesso, sviene: quando si riprende è già stato soccorso ma nessuno si spiega come si sia ferito, perché non ci sono segni di lotta (né corpi) lì attorno.
Tempo dopo, a Roma, sempre passeggiando si imbatte in un angolo identico a quello della zuffa; c’è anche una macchia di sangue per terra. Si informa, sente una storia che combacia con la sua esperienza, si presenta a casa della famiglia che ha salvato e viene accolto da eroe, tanto che poco dopo sposa la ragazza.
– Guido Gozzano – Dopo il voto tragico (1914)
Altro racconto alla Weird Tales: in un tempio indiano il protagonista accetta quasi per gioco di fare un’offerta al prete in cambio di una lista di nomi di persone che vuole vedere morte. Ne elenca tre: una, uno zio prete cancro della famiglia, muore poco dopo; un’altra, un critico feroce, finisce mezzo scemo per un ictus. E ora ha paura di chiedere che fine abbia fatto quel certo signore di cui nemmeno conosce il nome che vedeva ogni mattina ma aveva aggiunto alla lista perché lo infastidiva il solo vederlo.
Cesarina Lupati – Avventura notturna (1918)
Ancora un tema da Weird Tales: la notte il dipinto di un’antica donna inglese prende vita e torna a tentare di uccidere col pugnale che portava sempre con sé. Banale.
– Pier Maria Rosso Di Sansecondo – Trasfigurazione (1942)
Uno scrittore riesce a sublimare la propria arte per effetto dell’amore e, divenuto spirito, volare in cielo. Noiosissimo e niente di eccezionale.