Se «Il pianeta degli orsi» di Gordon Dickson era piaciuto non dovrebbe esserci motivo per cui anche il suo seguito, «L’artiglio dello spazio» (Spacepaw, 1969), non debba piacere: eppure non è così, perché questo secondo episodio della serie sugli scorbutici orsi umanoidi del pianeta Dilbia arriva sgonfio, spento. Non che sia una cattiva storia, tutt’altro: è solo che manca di un’identità propria, perché segue paro paro la trama del precedente episodio, cambiandone solo i dettagli e i protagonisti. E così al piacere della lettura si sostituisce invece la delusione per l’assenza di idee nuove.
Cambia la scena ma la storia è la stessa
Pubblicato in volume nel 1969 e tradotto in italiano già nel 1972, «L’artiglio dello spazio» è ambientato alcuni anni (due, stando a quanto dice il terzo episodio della serie, «Azzeccagarbugli il piccoletto», di cui scriverò) dopo le vicende dell’avventura originale, alla quale rimando per le informazioni di base: l’ambientazione tuttavia è cambiata, perché dalle montagne si è passati alle terre basse, dove le consuetudini e quindi le mutevoli leggi dei dilbiani sono molto diverse. Qui ad esempio non esiste la struttura dei clan ma gli indigeni, di diversa provenienza, vivono in cittadine senza alcun collante sociale tra di loro: questa assenza di coesione permette quindi l’esistenza di bande di fuorilegge, che in perfetto stile dilbiano si limitano a depredare gli agricoltori del sovrappiù ma lasciano loro il necessario per vivere. Così gli sforzi dei terrestri di importare tecniche avanzate di coltivazione sul pianeta sono naufragati, perché ai dilbiani delle terre basse – i soli che coltivino la terra: i dilbiani delle montagne evidentemente vivono di sola caccia – non interessa migliorare i raccolti, che tanto verrebbero sequestrati dai banditi.
Cambia dunque la scena ma per il resto tutto sa di già visto: perché come il suo predecessore anche il nuovo protagonista, Bill Waltham, studente di ingegneria, si trova arruolato all’improvviso e controvoglia dal servizio galattico (lo «Spacepaw» del titolo inglese) e gettato senza preparazione nel mezzo di un grosso guaio diplomatico che dovrà risolvere da sé, puntando soltanto sul proprio ingegno. Solo alla fine verrà rivelato che il successo della missione non era mai stato messo in dubbio: il computer infatti aveva scelto Bill tra milioni di candidati proprio perché «ha la personalità dell’eroe dilbiano».
Anche qui infatti, come nel libro precedente, il problema riguarda problemi di cuore tra l’indigeno più grosso del circondario e la sua fidanzata, include il rapimento della scienziata terrestre, e prevede come modalità di risoluzione un combattimento tra Bill ed il dilbiano, ovviamente impari date le dimensioni degli alieni, che per giunta nelle terre basse sono soliti servirsi di spade e scudi proporzionati alla loro forza e altezza. Inoltre, anche qui c’è di mezzo un intrigo degli emnoidi, l’altra razza di umanoidi che ambisce all’alleanza con i dilbiani, che include il rapimento del protagonista per sottoporlo a lunghe torture psicologiche e poi ucciderlo. Ed infine, anche qui l’eroe riuscirà a risolvere tutto grazie al proprio ingegno e ad un po’ di fortuna, che poi è il marchio degli eroi.
Tutto gradevole, per carità, ma anche tutta roba già vista.
Piccoli aggiustamenti, anche dei nomi
Nonostante la trama fotocopiata, rispetto alla storia precedente spuntano ora parecchi aggiustamenti nell’ambientazione: adesso infatti Dilbia ha una gravità inferiore rispetto a quella terrestre, il cibo locale non rischia più di provocare irritazioni cutanee agli umani, ed i dilbiani non sono più solo simili ad orsi ma vengono descritti come una via di mezzo tra gli orsi e i gorilla. Viene inoltre mostrato con esempi il loro distorto riguardo per la giurisprudenza, in virtù del quale interpretano ogni legge alla lettera, ignorandone completamente e volutamente lo spirito, a costo di stravolgerne il senso: ma questo era nell’aria già nel precedente volume e verrà ulteriormente approfondito nel successivo, «Azzeccagarbugli il piccoletto».
Più grave è invece il cambio nella traduzione italiana dei nomi di alcuni protagonisti della prima avventura, che tradisce la scarsa considerazione del nostro paese per la fantascienza, dal momento che la traduttrice (pure una delle migliori in circolazione) non si è nemmeno presa la briga di andare a vedere come fossero già stati adattati: così il Fregatore delle Colline (Hill Bluffer), il postino, che qui ha un ruolo più rilevante di quello che già aveva avuto, diventa il «Montanaro»; John Tardy, il vecchio protagonista, da Mezza Pinta (Half Pint), che già di suo dà l’idea del piccoletto, diventa il più piatto «Mezzo Litro», proprio come una bottiglietta d’acqua; Uomo Solo (One Man), il vecchio saggio rispettato da tutti per le sue straordinarie imprese in solitaria, diventa «Unico Maschio», che manca di cogliere l’origine di quello strano nome; ed il Terrore del Fiume (Streamside Terror), che era l’antagonista, diventa giusto il «Terrore del Ruscello», che per carità è leggermente più corretto dal punto di vista lessicale e suona anche semiserio e quindi più dilbiano del precedente ma così pare quasi un altro personaggio e sembra semmai suggerire che i locali, per prenderlo in giro com’è loro costume, in seguito alla sconfitta subita da Tardy gli abbiano affibbiato un altro nome, secondo la loro consuetudine.
E, come se non bastasse, nel citato terzo episodio gli adattamenti italiani dei nomi indigeni già noti cambieranno ancora, in peggio.
Dopotutto, si sa che tradurre è tradire.
E il tradimento vale senz’altro per le aspettative dei lettori.
Una storia già vista
La storia dunque segue il canovaccio del precedente libro: una scienziata terrestre è stata presa in ostaggio da un dilbiano dal nome spaventoso – qui si chiama Spaccaossa ed è il capo dei banditi – e deve essere liberata dal protagonista appena spedito sul pianeta, che non solo è digiuno di conoscenze su Dilbia, sui suoi abitanti e sui loro costumi a parte quel tanto che ha appreso durante il viaggio con l’addestramento ipnotico ma si trova anche già segnato in agenda un appuntamento con la morte. Infatti, a causa della negligenza dei rappresentanti terrestri sul pianeta, gli alieni si aspettano un duello tra il nuovo arrivato e Spaccaossa, perché è così che vanno le cose tra i dilbiani: e per via della mentalità locale Bill non può semplicemente tirarsi indietro, perché questo significherebbe perdere la faccia e quindi anche il rispetto da parte di tutti e, in definitiva, sarebbe una rovinosa batosta al prestigio dei terrestri su Dilbia.
Appena giunto sul pianeta, Bill Waltham si trova però subito abbandonato a se stesso, perché entrambi i rappresentanti terrestri nel villaggio di Naso Fangoso sono scomparsi: il rappresentante del governo ha finto di essersi rotto una gamba e si trova su una nave ospedale per le cure, mentre l’antropologa è ostaggio (volontario, si scoprirà più tardi) di Spaccaossa, il capo dei fuorilegge. La storia segue le vicende di Bill a Naso Fangoso e dintorni ed include il suo fare amicizia con i locali, scoprire aspetti del costume dilbiano che ignorava, esplorare il campo dei banditi e persino scambiare amenità con Spaccaossa, che risulta un individuo molto più ragionevole di quanto si sarebbe portati a credere.
La situazione si sblocca nel giro di pochi giorni: presa confidenza con le usanze del posto, a Bill basta raccontare la storia dei tre porcellini, un po’ ritoccata, per chiamare all’azione gli abitanti di Naso Fangoso, che finalmente si sollevano tutti insieme contro i banditi. E una volta giunti al loro campo, Bill comprende che il suo compito non è tanto suscitare l’insurrezione quanto portare ad un cambio radicale della mentalità locale, e quindi sgominare i banditi una volta per tutte: e l’unico modo per riuscirci è vincere il duello con Spaccaossa, che sinora aveva sempre rinviato.
Un duello che serve da paravento
Ma anche Spaccaossa ha i suoi buoni motivi per combattere: vuole perdere e così ritirarsi onoratamente dal brigantaggio perché, sconfitto da un terrestre, rimarrebbe comunque imbattuto con i dilbiani e quindi manterrebbe il titolo di dilbiano più forte del quartiere. Ma per il senso dell’onore e della legge dilbiano non può né dire né attuare apertamente il suo piano: deve prima passare attraverso un evento come il duello, che però può distorcere a piacere, purché non riveli le sue vere intenzioni. Spaccaossa infatti è innamorato di Zuccherino, la figlia e cuoca di Ancora Marmellata, il taverniere; e sarebbe contento di diventare lui stesso il taverniere: ma per farlo deve prima perdere il combattimento con Bill.
Così, quando alla fine i due si trovano faccia a faccia durante l’insurrezione di Naso Fangoso e Bill sfida apertamente Spaccaossa, il dilbiano può finalmente dare inizio al suo piano. Conduce il protagonista al magazzino che ha scelto come luogo per il duello, un edificio lungo e buio, ingombro di materiali: il primo che riuscirà ad uscire dal lato opposto a quello da cui è entrato (in sostanza, chi esce dalla porta d’ingresso dell’avversario) avrà vinto il combattimento. Spaccaossa infatti vuole lasciar vincere Bill: il buio e l’assenza di testimoni nell’arena lo favoriscono nell’attuazione del suo piano; tuttavia nel magazzino si infiltra anche l’agente emnoide, che non solo se le prende dal dilbiano ma in questo modo dà anche una parvenza di combattimento autentico al finto duello.
Così alla fine tutti sono contenti, tranne il sobillatore emnoide: libera dai banditi, Naso Fangoso può sperimentare le tecniche agricole importate dalla terra; il rappresentante terrestre può tornare al villaggio (la gamba rotta era stata solo una scusa per lasciare Bill libero di agire); Spaccaossa può sposare Zuccherino; e Bill stesso può tornare al suo precedente lavoro di terraformazione.
Meglio di così rimane solo il terzo episodio, «Azzeccagarbugli il Piccoletto» (The Law-Twister Shorty, 1971), che offrirà un’altra variazione dello stesso copione.
I veri protagonisti sono i dilbiani
Una storia ambientata su Dilbia è sempre gradevole, perché sono i dilbiani ad essere divertenti: giganti di muscoli e pelo che dietro la disorganizzazione e la cultura primitiva nascondono una certa civiltà ed intelligenza, e le dissimulano molto bene. L’ottusità con cui si attaccano a costumi assurdi e poi trovano scappatoie legalissime per ignorarli con l’approvazione di tutti è deliziosa e contrasta ad esempio con l’analogo costume di Jack Vance, che invece nelle sue opere si ferma alla prima parte: mostra solo l’ottusa aderenza alle assurde tradizioni delle comunità con cui i suoi protagonisti interagiscono, senza mai offrire fantasiose interpretazioni alternative di questi stessi costumi.
I veri protagonisti di queste storie sono quindi proprio i dilbiani, anche se per ragioni di semplicità e chiarezza il personaggio principale diventa un terrestre, ma solo perché è più facile descrivere le scene quando si vedono dal punto di vista di un terrestre, del quale condividiamo la mentalità: a dimostrazione del loro ruolo chiave nell’economia della storia, in questo secondo episodio gli indigeni hanno ancora più spazio di quanto ne avessero avuto nel primo libro. Così Dickson è libero di approfondire la cultura dei dilbiani: ecco quindi che vengono aggiunti elementi come il loro senso della giurisprudenza, il ruolo dei Nonni (in sostanza gli anziani delle comunità), il modo in cui gli «influencer» della comunità agiscono sulla pubblica opinione, il loro strano senso dell’onore, e tante altre situazioni di vita quotidiana che non aggiungono uno iota alla trama ma arricchiscono l’ambientazione e divertono il lettore, come una galleria di scenette comiche.
Il libro infatti non è male, proprio per questi approfondimenti sulla «dilbianità»: il suo unico problema è semplicemente di non avere un’identità propria. Perché vanno benissimo le scenette di vita quotidiana ma devono essere inserite in un canovaccio che abbia un senso e, possibilmente, una storia che non sia la copia spudorata della storia precedente. Ed invece questo secondo episodio segue a grandi linee gli stessi eventi del primo, cambiando solo i dettagli ed i protagonisti: e così il libro finisce per diventare noioso, perché già si sa cosa aspettarsi dalla storia. Ma questi sviluppi attesi sembrano non arrivare mai, rallentati come sono dai siparietti comici che hanno per protagonisti i dilbiani: e così nonostante i dilbiani, nonostante la leggerezza della trama, nonostante alcune scene decisamente esilaranti non è facile restare saldi nella lettura.
È un vero peccato che l’ambientazione venga sfruttata tanto male, perché Dilbia e i suoi abitanti sono davvero tra gli alieni più azzeccati e divertenti della fantascienza: non è difficile simpatizzare con loro, e per loro.
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