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James White – Stazione ospedale

Per qualche tempo ho confidato che la serie sull’ospedale galattico di James White potesse farmi ricredere sulle storie di medici e sanità varia, che trovo particolarmente stucchevoli e noiose: ed il primo volume della serie, «Stazione ospedale» (Hospital Station, 1962), ci stava anche riuscendo, perché nell’insieme è un buon libro, capace di tenere viva l’attenzione con trame che di medico hanno poco e sono prima di tutto esercizi di astrazione ed intuizione. Ma è stato solo un inganno di breve durata, perché quando ero ormai disposto a rivedere tutti i miei pregiudizi e sono passato al seguito, «Ospedale da combattimento» (Star Surgeon, 1963), la serie mi ha pugnalato alle spalle con una delle peggiori storie che mi sia mai ostinato a voler leggere fino in fondo.

Un pizzico di contesto
Prima di proseguire, ritengo sia necessario inquadrare brevemente le ragioni della mia diffidenza verso questo genere: ritengo che le storie di medicina parlino prima di tutto agli addetti ai lavori o ad un pubblico particolarmente devoto che, magari a livello inconscio, avrebbe desiderato una carriera in campo medico ma per una ragione o per un’altra ha preso altre strade. Infatti, oltre che ripetitive e prevedibili, le trame sono sempre straripanti di tecnicismi e bei sentimenti che le rendono indigeste persino quando i protagonisti sfoggiano un cinismo da primo premio: e quando c’è azione, è di un tipo che non riesce a comunicarmi neppure una scintilla di interesse.
Nemmeno Murray Leinster, un autore che solitamente apprezzo, ha potuto guarirmi da queste impressioni: e dire che ha dedicato un’intera serie, quella del Servizio Medico, al tema della medicina nello spazio. Ma, nonostante il simpatico alieno Murgatroyd, immune a qualsiasi malattia, la dozzina di racconti che compongono il ciclo reggono solo finché si mantengono nei confini della space opera: quando poi entra in gioco la parte medica, dalla rapida diagnosi alla cura immediata, le trame si indeboliscono e perdono ogni attrattiva. Va anche detto però che il presuntuoso protagonista, Calhoun, non aiuta certo a renderle più gradevoli: anzi, prendendo proprio lui come spunto, mi spingerei ad affermare che un altro difetto delle storie mediche sta anche nei loro personaggi, che solitamente sono supponenti e pieni di sé, probabilmente proprio perché sono modellati sull’archetipo dei medici reali.
Così forse si comprende perché, deciso finalmente a leggere almeno «Stazione ospedale», sia rimasto genuinamente sorpreso dalla qualità nel complesso buona della raccolta, al punto di credere persino che quest’esperienza potesse farmi rivedere il mio giudizio negativo sul genere: ed invece, non appena ho proseguito con la serie, già il volume successivo non ha fatto altro che confermare tutte le impressioni già radicate.
Decisamente le storie di medicina non sono per me.

Dodici volumi ma solo due in italiano
L’ospedale galattico rappresenta un po’ la summa delle idee del suo autore che, pacifista convinto, avrebbe desiderato fare il medico ma si è trovato a vendere aerei da guerra, perché le idee contano. La serie si compone di una dozzina di volumi, dei quali solo i primi due sono stati tradotti in italiano: ma, ambientazione a parte, «Stazione ospedale» e «Ospedale da combattimento» sono due opere completamente differenti.
La prima infatti è una raccolta di cinque racconti – quelli originari – già pubblicati sulla rivista inglese New Worlds tra il 1957 ed il 1960, poi riuniti (alcuni anche leggermente ritoccati per adattarli all’ordine diacronico del libro) in un volume unico nel 1962 sotto il titolo di «Hospital Station»; il secondo invece, «Star Surgeon», pubblicato l’anno successivo, è l’abbozzo di un romanzo che proprio non regge come opera unica. Dopo una lunga pausa, il terzo episodio della serie, «Major Operation», è uscito nel 1971 ed i successivi hanno continuato ad essere pubblicati sino al 1999, l’anno della morte di White: nessuno di questi libri però è stato tradotto in italiano.

La stazione ospedale
Collocata nel «settore dodici», che si trova da qualche parte nello spazio controllato da una Federazione multirazziale in continua espansione (ma sicuramente nella nostra galassia), la stazione ospedale è il simbolo della fratellanza universale oltre che un gioiello di tecnologia e «filadelfìa», nel senso greco di amore fraterno per il prossimo: nei suoi quasi quattrocento livelli ospita infatti oltre diecimila operatori tra medici ed infermieri in rappresentanza di ben settantasette razze differenti; completamente differenti. Senza entrare nei dettagli delle forme più svariate che si possono incontrare, ci sono infatti alieni che respirano acqua, altri cloro, altri che si nutrono di radiazioni tossiche o che sono così resistenti da poter uscire nel vuoto dello spazio senza indossare alcun indumento protettivo: ogni specie è identificata da un codice di quattro lettere che ne indica le caratteristiche biologiche essenziali, ottimo esempio di questo linguaggio per iniziati tipico delle storie mediche che serve solo ad alienare i lettori meno motivati. Gli umani ad esempio sono DBDG, che non sta per «due braccia, due gambe» come potrebbe pensare un profano ma per respiratore di ossigeno (la D) ed altre caratteristiche fisiologiche utili ad un sanitario per comprendere al volo dove sistemare il paziente, com’è fatto dentro e di quali disturbi potrebbe soffrire. Pare che White abbia mutuato questa nomenclatura da una storia dei Lensmen di Doc Smith, che non si può certo definire un’autorità in fatto di accuratezza scientifica.
In questa babele di razze e lingue tutti si prendono cura di tutti, nel senso che un medico umano (come nel caso dell’antipaticissimo protagonista, il dottor Benjamin Conway) può avere in cura alieni di qualsiasi razza e li assiste con lo stesso amore e la stessa tenacia con cui si occuperebbe di un altro paziente umano. In altre parole, sono spacciati: ma è fantascienza, quindi il lettore viene portato a credere che tutto il personale sanitario della stazione sia davvero motivato dagli alti ideali dell’altruismo, dell’abnegazione e della totale dedizione alla convivenza e al progresso. La comprensione reciproca è garantita da un traduttore istantaneo che ognuno porta all’orecchio: collegato ad un computer centrale, il sistema permette di comunicare in modo chiaro ed efficiente con chiunque, al di là di ogni differenza linguistica e culturale; l’unico difetto del traduttore universale è la sua incapacità di dare inflessioni e intonazioni alle frasi, che così risultano in una parlata piatta ed impersonale.
Dato il contesto, è impensabile che tutti conoscano l’anatomia di ogni specie e sappiano diagnosticare morbi sconosciuti: per questo in caso di bisogno i medici – e soltanto loro – possono scaricarsi nel cervello (non è necessario un impianto cibernetico, almeno da questo siamo salvi) dei nastri che contengono tutto il sapere di esimi professoroni di questa o quella razza, che però hanno anche delle controindicazioni. Infatti è impossibile separare le conoscenze mediche della fonte dalla sua personalità e identità razziale, perciò questi nastri tendono a creare schizofrenia negli utilizzatori, che vedono, pensano ed operano come se fossero anche quell’altro: così magari un umano si trova all’improvviso a detestare pratiche o cibi abituali per l’uomo o a faticare a camminare solo su due gambe o ancora a ritenere comico se non addirittura sgradevole l’aspetto degli altri umani. Lo stesso vale ovviamente anche per le altre razze, anche se non se ne vede mai l’atto pratico perché in tutte le storie l’unico punto di osservazione è quello di Conway.
Solo i diagnostici, l’elite dei medici della stazione, sono giudicati abbastanza stabili di mente da poter tenere sempre archiviati nella testa i nastri di due o tre specie: tutti gli altri invece devono farsi rimuovere questi ricordi al termine dell’emergenza, per evitare che lo sdoppiamento della personalità possa spingerli alla follia.

Libro primo: Stazione ospedale
Il primo volume della serie, «Stazione ospedale» (Hospital Station, 1962), è dunque una raccolta di cinque racconti che hanno per oggetto l’immensa stazione ospedale in cui vengono curati i pazienti di centinaia di razze diverse, ciascuna con le sue necessità ambientali. Nell’insieme è una lettura gradevole, anche se trasuda quel senso di superiorità intellettuale tipico di chi vive in un ambiente protetto, lontano dalla lotta per la sopravvivenza: Conway, il protagonista, infatti è così dogmaticamente sicuro della preminenza delle proprie convinzioni antimilitariste da disprezzare tutti i monitori (la polizia federale che fa anche le veci delle forze armate) quando li vede, senza rendersi conto che i monitori sono anche coloro che col loro servizio e, spesso, sacrificio rendono possibile l’esistenza di quell’ambiente privilegiato in cui lui prospera e da cui ricava questo senso di superiorità.
Dei cinque racconti, il migliore è senza dubbio il secondo, «Stato di emergenza», che è anche il racconto originario, quello dal quale ha poi avuto inizio l’intera serie: oltre a segnare l’esordio di Conway, la storia mantiene un ritmo sostenuto perché continua a gettare il protagonista in nuove situazioni di pericolo. In virtù di questa ordalia, Conway finisce per abbassare un po’ la spocchia e rivedere leggermente le sue posizioni, da estreme a controllate: nell’insieme il personaggio rimane insopportabile ma almeno riesce un po’ più tollerabile.
Tutti gli altri racconti oscillano tra il leggibile ed il trascurabile ma nell’insieme riescono letture gradevoli.
Il pargoletto (O’Mara’s Orphan, 1960) – Durante i lavori di costruzione della stazione, O’Mara (qui un tecnico ma a partire dal racconto successivo sarà promosso a maggiore dei monitori, responsabile della sicurezza e capo psicologo) viene ingiustamente accusato di aver provocato la morte di due operai hudlariani, una razza particolarmente resistente (ma non abbastanza): per punizione deve prendersi cura del loro figlio neonato finché non sarà possibile affidarlo a qualcuno della sua specie. Nessuno sa come si allevino questi alieni: dopo settimane d’inferno per O’Mara, che non sa che pesci pigliare e deve continuamente improvvisare in risposta a vagiti che paiono sirene d’allarme, il pargolo si prende una malattia infantile leggera che può essere curata solo nelle condizioni del pianeta natale (a quattro gravità). Alla fine tutto si risolve per il meglio: arriva un medico della sua specie che si prende cura dell’orfanello e redarguisce O’Mara non tanto perché si è ammalato ma perché lo ha viziato. A colpi di bastonate, che per quella razza dalla pelle coriacea sono l’equivalente delle coccole.
Stato di emergenza (Sector General, 1957) – Una giornata d’inferno del giovane dottor Conway, pacifista convinto ed ipocrita modello delle classi privilegiate: ma la storia lo cambia. Tra le emergenze che deve affrontare, una nave fuori controllo di provenienza sconosciuta si schianta contro la stazione, causando danni e morti a non finire: il medico viene mandato nel relitto, incastrato nel corpo principale, a spegnere il generatore di gravità della nave, le cui interferenze rischiano di far esplodere la stazione. Alla fine Conway cambia idea su molte cose, a cominciare dal suo pregiudizio verso chi porta una divisa.
Emily (Trouble with Emily, 1958) – Conway aiuta un medico di una specie telepatica a trasformare un regolare brontosauro in un brontosauro volante: questa razza simile ai dinosauri non è intelligente ma il popolo del telepatico vuole comunque salvarla dal pericolo di estinzione che un’improvvisa glaciazione del loro pianeta potrebbe causare nel remoto futuro. E per riuscirci deve forzarne l’evoluzione e risvegliarne l’intelligenza.
Il cambiaforma (Visitor at Large, 1959) – Un visitatore della stazione, l’ultimogenito di un paziente che nessuno sa come curare, impazzisce e fugge dopo aver visto il padre: appartiene ad una razza di mutaforma, così continua a cambiare aspetto mentre vagola per i corridoi dell’ospedale, rendendo vane tutte le ricerche. Alla fine Conway escogita non solo il modo di bloccarlo e curarlo ma, sulla base di quest’esperienza, anche di salvare il genitore.
Un paziente di razza sconosciuta (Out-Patient, 1960) – Conway, contro le raccomandazioni e pure gli ordini di colleghi e superiori, decide di non fare niente per curare un paziente di razza sconosciuta appena rinvenuto nel relitto di un’astronave di provenienza altrettanto sconosciuta: ha infatti intuito che l’alieno si sta trasformando come una crisalide ed alla fine i fatti gli danno ragione. Il racconto è deboluccio perché Conway si ostina a non voler rivelare a nessuno la sua intuizione, anche se un briciolo di comunicazione gli allontanerebbe un sacco di pressione di dosso: è chiaramente un espediente narrativo con l’unico scopo di tenere il lettore col fiato in sospeso sino all’epilogo.

Libro secondo: Ospedale da combattimento
Pubblicato meno di un anno dopo il precedente (marzo 1963 contro maggio 1962), «Star Surgeon» abbandona la formula della raccolta per tentare la strada del romanzo completo, anche se la sua struttura non è dissimile da un’antologia: il libro infatti è suddiviso in almeno quattro storie principali presentate in successione e collegate tra loro da una maxitrama abbastanza labile, che ha la sola funzione di fare da collante tra le storie. Presi singolarmente, i racconti sarebbero abbastanza innocui: ma così come sono, tenuti assieme col nastro adesivo solo per dare l’impressione di un romanzo unico, non fanno altro che mettere in luce tutti i difetti di una trama senza senso.
Si parte con l’antefatto, la cura prestata ad un alieno di razza sconosciuta, modellato sull’ultimo racconto del volume precedente; la risoluzione di questa storia sblocca la successiva, l’intervento sollecitato da questo alieno – guarito – su un pianeta che ha un’emergenza sanitaria: a sua volta questa storia sblocca le due successive, presentate in ordine, dapprima i problemi di logistica legati all’evacuazione della stazione (di una noia mortale), poi l’ospedale da campo che dà il titolo al libro. Lo stacco tra una storia e l’altra è netto: ogni sottotrama si conclude prima dell’inizio della successiva e nessun evento ha conseguenze a distanza, a parte quelli necessari a tenere in piedi la maxitrama, che comunque prosegue a tappe forzate.
E anche questa maxitrama è decisamente stupida – nel senso del più classico «idiot plot» – perché è causata proprio dalla cecità e da quel senso di superiorità intellettuale già osservato di cui soffrono tutti i protagonisti: la Federazione manda navi da guerra per portare assistenza agli abitanti (tutti umani) di un pianeta in emergenza sanitaria. Ma questo pianeta appartiene ad un impero, che non gradisce l’intrusione dei federalisti: tanto più che la Federazione non ha chiesto né il permesso di varcare i suoi confini né tanto meno di impicciarsi della sua politica interna. E poi però tutti si indignano per la reazione dell’impero (militarista), che attacca la stazione ospedale da cui era partita quella che a conti fatti era un’invasione.
Ma andiamo con ordine.

Il complesso della superiorità intellettuale
«Ospedale da combattimento» si apre dunque con un’altra storia breve, che però qui serve da preambolo agli eventi che verranno: all’ospedale viene ricoverato un alieno enorme, di una razza sconosciuta, probabilmente da un’altra galassia; di lui si occupa Conway. Secondo due medici in visita provenienti pure da quest’altra galassia, pare che questa specie sia immortale: individualisti, solitamente si stabiliscono su un pianeta arretrato e pian piano ne prendono il controllo, fino a quando non decidono di abbandonarlo. Ma sempre il pianeta ed i suoi abitanti beneficiano del dominio di questi esseri, perché alla loro partenza le condizioni di vita degli indigeni sono sempre migliorate.
Il problema dell’alieno è duplice: pare che abbia divorato il suo medico personale; e non c’è modo di farlo uscire da una sorta di coma. Conway come sempre risolve il problema con un’intuizione: l’alieno (che, si scoprirà chiamarsi Lonvellin) ha sì divorato il suo medico ma solo perché quest’ultimo è una sorta di ameba simbionte che opera dall’interno del corpo. Quando Lonvellin è entrato nel suo periodo di rigenerazione delle cellule corporee, il medico – che ignorava questa caratteristica del padrone – ha attivato una serie di procedure per bloccare il processo, credendo che si trattasse di un tumore. Così Conway con un abile sotterfugio riesce ad estrarre l’ameba dal corpo, che ora può rigenerarsi: a processo ultimato, il medico – nel frattempo informato della peculiarità della razza ospite – viene nuovamente ingerito da Lonvellin, che è entusiasta dell’operato di Conway.
Tempo dopo Lonvellin si mette in contatto con l’ospedale per sollecitare l’invio di una missione umanitaria al pianeta Etla – dove ha deciso di stabilirsi nonostante la cattiva accoglienza – che si trova in continua emergenza sanitaria: la missione, posta agli ordini di Conway come richiesto da Lonvellin, viene imbarcata su diverse navi da guerra (tra cui l’ammiraglia della flotta dei monitori) e parte immediatamente. Solo che Etla appartiene ad un piccolo ed aggressivo impero di soli umani che conta una quarantina abbondante di sistemi solari: e nessuno ha mai chiesto al monarca il permesso di atterrare sul pianeta e di ficcare il naso nei suoi affari interni. Giustamente, l’impero se ne risente un pochino.
Più avanti infatti si scopre che Etla è un po’ l’Africa dell’impero, tenuto cioè in una situazione di costante emergenza per far leva sui buoni sentimenti dei cittadini imperiali ed estorcere così un flusso continuo di donazioni, che non vanno ad aiutare gli etlani ma ad arricchire la classe dirigente dell’impero, monarca in testa. Solo una volta ogni dieci anni arriva una nave governativa con qualche medicinale e, soprattutto, nuove epidemie da diffondere.
Quando la missione di Conway è a buon punto con la somministrazione delle cure, la nave di Lonvellin viene improvvisamente nuclearizzata: è un fulmine a ciel sereno, perché tutto lasciava intendere che l’alieno, presentato come un burattinaio che agisce dietro le quinte, avrebbe avuto un ruolo più attivo nella storia. Ed invece, fuori scena, esce proprio di scena. Intuita la situazione di pericolo, le navi dei monitori decollano immediatamente perché la flotta imperiale sta arrivando con cattive intenzioni: ma, il lettore viene rassicurato, ci vorranno anni prima che l’impero scopra la posizione dei pianeti federalisti.
L’impero però trova rapidamente le coordinate della stazione ospedale, che decide di conquistare.

I veri problemi della vita: la logistica
Inizia così la parte più pesante del libro: vengono enunciati tutta una serie di problemi di logistica collegati allo sfollamento urgente dei pazienti dell’ospedale, che devono essere fatti transitare da un reparto all’altro, alcuni dei quali con atmosfere mortifere, per raggiungere le astronavi pronte a trasportarli. Zero azione, zero interesse, solo una sfilza di tetragrammi che indicano questa o quella specie, che vengono scarrozzati qua e là tra tute protettive, bolle d’aria ed altri problemucci da spedizioniere, tutti brillantemente affrontati e superati da Conway.
Poi, mentre fuori infuria la battaglia, emergono altri problemi amministrativi quando il computer del traduttore universale viene centrato da un missile: seguono altre pagine su pagine che mostrano l’abilità di Conway ad improvvisare un sistema di comunicazione approssimativo ma funzionale con i sanitari delle altre razze.
Infine, il nostro eroe trova una soluzione anche ai problemi di gestione dei feriti, nemici inclusi, che serve per speronare una conclusione affrettata e semplicistica nella storia: tra di essi infatti c’è il terzo ufficiale per importanza nella catena gerarchica imperiale. Quando vede l’umanità di Conway, quegli ottiene l’aiuto degli altri feriti per prendere possesso del quartier generale dei monitori (che si trova nella stazione) e comunicare il cessate il fuoco immediato alla flotta imperiale, che era a tanto così dal conquistare l’ospedale: un gesto illogico, non solo perché la battaglia era costata tanto ai suoi (e stava comunque per concludersi) ma soprattutto perché il controllo dell’ospedale avrebbe dato alla sua fazione – l’impero – un peso ed una forza maggiori nelle successive trattative.
Ma l’intero libro è carente di logica, già a cominciare dal casus belli: nessuno dei protagonisti è mai sfiorato dall’idea che la guerra sia scoppiata proprio per le azioni sconsiderate della Federazione, che in definitiva ha sconfinato nel territorio imperiale senza averne l’autorizzazione.
E con la fine di questo libro sono finiti anche i miei tentativi di farmi piacere il genere delle storie di argomento medico.

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