Parlare di Stanley Weinbaum significa toccare un nervo scoperto della fantascienza: Weinbaum infatti, che è morto nel 1936 a soli trentatré anni proprio quando si stava affermando sulle riviste, è il classico autore promettente di cui la critica prima si è innamorata, poi si è impadronita ed infine, dopo avergli appioppato un intellettualismo forzato che gli è estraneo, si è servita per tentare di superare quel complesso di inferiorità che la critica stessa – e lei sola – prova nei confronti della letteratura tradizionale.
Non che tale supponenza da parte dell’intellighenzia non esista, tutt’altro, ma non serve a niente mettersi in competizione con i generi letterari più consolidati per diventare «uno di loro»: il compito della fantascienza infatti non è tanto indagare l’intima natura dell’uomo o trasmettere idee bensì divertire e raccontare storie avvincenti che siano anche coerenti, al massimo credibili, non necessariamente verosimili e men che meno profetiche.
Il cocchino della critica
Così, tornando a Weinbaum, la critica ha trovato in questo autore il suo cocchino prediletto per giustificare quel periodo che solitamente costituisce motivo di vergogna per i fantascientisti colti e spocchiosi come Asimov: parlo degli anni Venti e Trenta, quando le idee, l’entusiasmo ed il senso del meraviglioso costituivano la miscela base di tutti i racconti, a costo dell’aderenza scientifica e dell’impegno sociale. E così oggi ogni volta che si prende in mano un’antologia ci si trova impantanati in un florilegio di racconti lenti, cerebrali, noiosi, che non pensano tanto a raccontare una bella storia quanto a lanciare un messaggio, quanto più impegnato tanto migliore: lo stesso avviene persino nelle raccolte del periodo a cavallo tra le due guerre, che significa snaturare l’essenza stessa di quei racconti e spulciare le riviste alla ricerca non tanto del meglio come vorrebbero farci credere i loro curatori (e nemmeno del peggio, come sarei tentato di scrivere) quanto del meno adatto a rappresentare l’epoca dell’ingenuità e del puro senso del meraviglioso.
Così in ogni antologia che sfoggi l’etichetta dei pulp almeno un racconto di Weinbaum ci casca dentro: solitamente è uno dei soliti quattro o cinque, ossia «Un’odissea marziana» («A Martian Odyssey», 1934), il non plus ultra per la critica, a volte accompagnata dal suo seguito, «La valle dei sogni» (Valley of Dreams», 1934); e poi «Il pianeta dei parassiti» («Parasite Planet», 1935), «I mondi del se» (The Worlds of If, 1935) e «La Peri Rossa» (The Red Peri, 1935), che costituisce l’oggetto di questo articolo.
Mentre «Il pianeta dei parassiti» è oggettivamente un buon racconto, creativo e tipicamente anni Trenta (Weinbaum ne scrisse anche due seguiti: «The Lotus Eaters» e «The Planet of Doubt», entrambi del 1935), lo stesso non si può dire della ben più celebre «Odissea marziana», che invece rientra nel filone filosofico ed è una sofferenza da leggere: la critica tuttavia non fa che incensarlo e celebrarlo solo perché è uno dei primi e pochi in cui vengano mostrati degli alieni buoni. «I mondi del se» invece si salva solo per l’umorismo che lo percorre dalla prima all’ultima frase, letteralmente, con quell’«ero arrivato in ritardo ancora una volta» finale che riassume la vita del protagonista, un ritardatario cronico.
Tra tutti i racconti citati però il meno noto è «La Peri Rossa», anche perché esso stesso non sa cosa voglia essere: avrebbe tutte le carte in regola per essere una space opera ma in definitiva riesce a mancare il bersaglio nonostante un prologo così grandioso, che promette tanto e non mantiene nulla. Probabilmente a causa del protagonista, così ottuso da essere imbarazzante.
Ma andiamo con ordine.
Chi o cos’è la Peri Rossa?
Tanto per cominciare, la Peri Rossa è o, meglio, dovrebbe essere un racconto di space opera, sia pure ancora confinato al sistema solare: purtroppo però non mantiene le promesse e, dopo un’apertura scoppiettante, si perde subito in un romanzetto rosa su sfondo spaziale che ben presto lo porta a languire per la trama piatta e l’assenza non solo di astronavi ma anche di qualsiasi spunto di interesse.
Chiarito ciò, merita osservare pure che la Peri Rossa del titolo non è né un frutto né una preposizione greca né un passato remoto (e nemmeno una birra, che è la prima cosa cui hanno pensato i miei amici) ma una nave pirata che per una coincidenza si chiama come un folletto o spiritello della mitologia persiana, effigiato pure sullo scafo: tuttavia Peri (Rossa) è anche il nome della giovane piratessa dai capelli rossi e dagli occhi verdi che comanda l’omonima nave, la quale a sua volta prende il nome dal padre della ragazza, «Perry il Rosso» in italiano e «Red Perry» nell’originale inglese. Una modesta storpiatura ortografica, praticamente inaudibile nel parlato, ha fatto il resto.
Pur avendo un nome che sembra fatto su misura per un corsaro, in origine questo Perry il Rosso non era tuttavia un pirata ma un inventore che si è dato alla filibusta solo in un secondo tempo, per la grettezza e la rapacità della malvagia Interplanetaria: questa megaditta senza scrupoli gli ha infatti soffiato il brevetto della «camera ad espansione termoide» – un qualche ritrovato tecnico che ha reso sicuri i razzi di accensione dei velivoli spaziali – e così ha fatto e continua a fare un sacco di quattrini. Perciò, ridotto sul lastrico, dopo aver giurato vendetta Perry il Rosso si è dedicato anima e corpo a progettare un nuovo tipo di razzo: la Peri Rossa, appunto. Novello capitano Nemo, una volta costruita l’astronave ha quindi reclutato gli uomini migliori tra le moltitudini di disgraziati rovinati dalla voracità dell’Interplanetaria e si è dato alla pirateria per lungo tempo, salvo essere ucciso tre anni prima dell’inizio del racconto: la figlia, allora quindicenne, lo ha prima vendicato e poi ne ha raccolto l’eredità.
Appurato quindi che «Peri Rossa» è il nome sia della nave sia del suo inventore (in inglese il genere è più sfumato) sia della sua attuale capitana, rimane solo da soddisfare l’umana curiosità e descrivere l’aspetto di questa nave straordinaria, che ha la forma di un triangolo dai cui angoli sporgono tre strutture metalliche che si congiungono in cima per formare un tetraedro: nello spigolo così creatosi trova posto un reattore che, puntato verso l’interno del solido, dà anche la propulsione alla rapida e maneggevole astronave.
Maledetto fu l’abbordaggio
La storia si apre con l’abbordaggio – incruento – del mercantile olandese Aardkin al suo rientro sulla terra, sul quale sta viaggiando anche l’ottuso protagonista, il fisico e radioastronomo americano Frank Keene: è subito chiaro che l’attaccante è la Peri Rossa. Saliti a bordo, i filibustieri portano via tutto quanto ci sia di valore ma senza fare del male a nessuno, a parte lo stesso Keene, che se la cerca facendo lo sbruffone col pirata rimasto di guardia al portellone (la stessa Peri Rossa in tuta spaziale, si scoprirà in seguito) e ci guadagna un naso rotto. Non pago della figuraccia fatta davanti agli altri passeggeri, mentre i pirati se ne vanno con le tasche piene giura che «un giorno ci incontreremo di nuovo».
Ed infatti così accade, un anno più tardi.
Keene ed un altro anziano superscienziato, Solomon Nestor, sono dunque i soli occupanti del Limbo, un antiquato razzo dell’Istituto Smithsoniano, per conto del quale stanno compiendo una qualche spedizione nel sistema solare: uno dei propulsori inizia a dare problemi però e così decidono di atterrare su Plutone per controllare ed eventualmente fare le necessarie riparazioni. Scesi sul gelido pianeta, nel giro di pochi minuti trovano una forma di vita che era sfuggita a tutte le precedenti spedizioni: masse di cristalli che si muovono contorcendosi e mangiano o consumano i metalli con cui entrano in contatto. Per un caso fortuito, nello stesso cratere, non molto distante da loro, è parcheggiata anche la Peri Rossa, in corrispondenza delle gallerie che servono da rifugio per i corsari e le loro famiglie, centocinque persone in tutto, senza includere gli animali. Ed infatti, poco dopo l’atterraggio i due vengono catturati dai pirati e condotti all’interno della loro tana, fino a quel momento sconosciuta a tutti.
Qui fanno la conoscenza della Peri Rossa: Keene, che è un cretino patentato, mostra subito di che pasta è fatto e non perde l’occasione per ricordare che un anno prima era a bordo dell’Aardkin. La piratessa lo guarda divertita e lo dileggia, ben ricordando l’episodio ed il naso che ha rotto al nostro: ha così scarsa considerazione dell’ometto che, dopo essersene accesa una, prima gli rifiuta una sigaretta e poi lo canzona vagheggiando un’esecuzione sommaria, che lui ovviamente prende molto sul serio. Tuttavia i due prigionieri vengono sistemati in una delle tante camere vuote del nascondiglio un tempo segreto – che non viene nemmeno chiusa a chiave – e ricevono le regolari visite della figlia di un pirata, che porta loro i pasti ed altro di cui possano avere bisogno.
La base dei pirati
Prigionieri in apparenza, in realtà Keene e Nestor sono liberi di muoversi per la base, le cui principali attrazioni sono le grotte in cui viene coltivata l’ortofrutta ed il campo elettrostatico che impedisce all’aria di uscire dalle caverne nonostante l’assenza di qualsivoglia paratia che separi il confortevole interno dal gelido esterno plutoniano: nonostante l’assenza di una porta o cancello, la fuga è comunque impossibile, perché appena fuori la temperatura è di pochi gradi superiore allo zero assoluto e tutte le tute spaziali sono custodite in una stanza alla quale si può accedere solo attraverso l’appartamento della Peri Rossa, ovviamente sempre protetto dalle guardie armate.
Una terza meraviglia, la macchina che ricava aria dal ghiaccio che si trova nel sottosuolo del pianeta, offre l’occasione per una piccola scena d’azione con i due protagonisti. Durante la visita alla camera in cui si trova questo apparecchio, Keene salva infatti la Peri Rossa dall’aggressione di una varietà di cristalli che si nutrono di carbonio (e quindi di carne umana) prendendo in braccio la ragazza e allontanandosi con lei di corsa ma nella fuga un cristallo gli si aggrappa al piede: non appena sono al sicuro la piratessa prontamente estrae il pugnale e con un colpo netto taglia la scarpa e l’eccedenza dell’unghia di un ditino del quale il cristallo si stava nutrendo.
Ma, invece di creare un legame tra i due come ci si aspetterebbe, l’incidente fa scoppiare l’incompatibilità più che mai: e ancora una volta Keene fa la figura del fesso, quando la piratessa osserva che «non sei abbastanza scaltro per battermi, né sufficientemente franco per ammettere di essere innamorato di me». Al che Keene, come un ragazzino delle medie che è appena stato scoperto, riesce a ribattere solo così: «Anche se fosse vero, pensi che vorrei aver qualcosa a che fare con un tipo come te, pirata e assassina? Quali che siano i miei sentimenti, farò comunque di tutto per assicurarti alla giustizia».
E così, «per fargliela vedere a lei», l’insoffribile protagonista arriva finalmente a ideare il suo piano di fuga.
Una fuga memorabile
La descrizione e soprattutto la dinamica dell’evasione di Keene è la parte più memorabile di tutto il racconto: è anzi una di quelle scene che rimangono così impresse nella memoria che si ricordano anche a distanza di decenni, quando tutti gli altri elementi della trama si sono ormai scoloriti. Personalmente, ciò che più apprezzo della scena è la sua totale antiscientificità ed il tentativo di aggiungere con la forza bruta un dettaglio da space opera d’azione ad una storia che fino a quel momento era rimasta piatta come un tavolo da biliardo.
Grazie alla consulenza scientifica di Nestor, Keene ha infatti la sicurezza che anche al di fuori delle caverne, nel gelido vuoto della superficie plutoniana, non può accadergli nulla se ha l’accortezza di prendere due precauzioni: trattenere il respiro e non toccare nulla. La ragione della prima precauzione è ovvia, della seconda un po’ meno evidente: l’esposizione al vuoto rende infatti tutto così freddo che ghiaccerebbe qualsiasi cosa al solo contatto.
Il nostro quindi si allena per qualche tempo a correre in apnea nelle gallerie: arriva a trattenere il respiro per un cinque minuti quando si dice pronto alla fuga, che attua poco dopo, al termine dell’ennesima discussione con la Peri Rossa. Afferrata dunque la ragazza ed issatasela in spalla, Keene corre all’esterno così com’è, ossia vestito solo di una camicia leggera, di calzoncini corti e di un paio di stivaletti, l’abbigliamento tipico che si indossa sia sotto una tuta spaziale sia nella base dei fuorilegge: la sua astronave, che nel frattempo è stata riparata dai solerti pirati, è infatti parcheggiata a poche centinaia di metri dall’entrata della caverna. Quando arriva al portellone, con i polmoni in fiamme, si getta all’interno dello scafo con la sua prigioniera e subito decolla, prima che i pirati resi lenti dalla tuta spaziale possano raggiungerli.
Un epilogo senza senso
Il finale poi è così deludente da essere anticlimatico: in breve, anche la Peri Rossa (l’astronave) decolla e, più veloce e maneggevole, in breve li raggiunge. Ma i pirati esitano ad attaccare, per timore che succeda qualcosa alla loro capitana.
È questo il momento delle confessioni: Keene dichiara finalmente tutto il suo amore alla Peri Rossa ma al tempo stesso esprime anche il suo dovere di assicurarla alla giustizia. Così facendo però dimostra solo di essere debole di mente: da un lato infatti vuole che la piratessa venga giudicata da un tribunale, perché lui ha fatto solenne giuramento di far rispettare la legge e «il mio codice morale è quello giusto»; dall’altro però, quando la Peri gli fa notare che potrebbe essere condannata a morte per pirateria ed assassinio, il nostro risponde con franchezza che non ci aveva pensato ma la rassicura dicendole che lotterà contro tutti i tribunali della terra per impedire le condanne più gravi. Nella sua ingenuità è infatti convinto che basti restituire tutta la refurtiva e promettere di non rifarlo più perché i giudici siano clementi: «Dovranno esserlo!», esclama con la stessa sicurezza di un bambino dell’asilo. Poi però, tra sé e sé, si rende conto che forse dare la Peri in pasto ai tribunali non è un’idea così brillante e certo non aiuta a renderlo più desiderabile agli occhi di lei: così si risolve a portarla in gran segreto sulla terra e poi a sposarla lì con un’improvvisata, senza però comunicarle il repentino cambio di idee.
Degli altri pirati, che pure rischiano grosso, invece non gli importa gran che: e nemmeno dello stesso Nestor, abbandonato e dimenticato nelle caverne di Plutone assieme ai fuorilegge dello spazio.
Passa il tempo e Keene – che è il capostipite di tutti furbi – lega infine con una catena la sua prigioniera ad una sedia e così può permettersi anche di andare a dormire: ma al risveglio ha la sorpresa di trovare la sedia vuota. Al suo posto un biglietto che gli illustra le modalità della fuga: la piratessa porta sempre con sé un esemplare dei cristalli mangiametallo plutoniani, proprio per casi del genere. Le è quindi bastato aspettare che il nostro si addormentasse per liberarsi e poi, uscendo nel vuoto, lasciarsi andare sino alla sua nave.
Deluso, Keene non perde tempo e ha un’altra delle sue pensate: appena giunto sulla terra si dimetterà dall’Istituto Smithsoniano per farsi assumere su un mercantile dell’Interplanetaria. E a quel punto sarà solo questione di tempo prima di ritrovare la sua amata.
Un racconto trascurabilissimo
Se non fosse per il protagonista fastidioso e stupido, per la trama da romanzetto Harmony e per la finta ambientazione spaziale, «La Peri Rossa» forse potrebbe anche essere un racconto decente ma, proprio per ruolo chiave di questi tre elementi, non riesce particolarmente brillante né attraente. Eppure lo si trova spesso citato come buon esempio di space opera da manuale, intelligente e creativa: basta però una sola lettura per mettere in dubbio tale affermazione e confermare anzi la tesi secondo cui la popolarità (postuma) di questo ed altri racconti di Weinbaum sia stata piuttosto confezionata ad arte dalla critica, ansiosa di trovare autori «spendibili» e tentare così di redimere il genere fantascientifico agli occhi del grande pubblico.
Così com’è però non c’è davvero niente da salvare nella «Peri Rossa», a parte forse la scena già descritta della corsa nel vuoto di Keene in abbigliamento estivo: e, conoscendo l’affettazione della critica, ritengo che questo non sia proprio uno degli episodi preferiti dai nostri commentatori; anzi, direi che al contrario esemplifica tutto ciò che i critici più detestano e temono dell’entusiasmo ingenuo dei pionieri della fantascienza, interessati – come non mi stanco di ripetere – più a raccontare una bella storia che alla perfetta aderenza scientifica.
Alla fine quindi il vero motore del racconto è la storia di amore e odio tra i due personaggi principali, che segue la migliore tradizione dei gialli hardboiled in voga all’epoca: i protagonisti maschile e femminile sono simili perché hanno entrambi un carattere forte (in questo caso lei molto più di lui, che è solo ottuso), sanno di esserlo e sono anche consapevoli di essere attratti l’uno dall’altra ma non vogliono ammetterlo e così finiscono in un rapporto di continuo scontro o bisticcio, qui ulteriormente alimentato dalle diverse motivazioni, l’onestà per lui, l’onore (e la vendetta nel nome del padre) per lei.
In definitiva, da appassionato della space opera degli anni Venti e Trenta non me la sentirei proprio di consigliare questo racconto al lettore casuale perché a mio avviso non è tanto un assaggio della space opera delle origini quanto invece un romanzo rosa a sfondo spaziale: certo, ha alcuni spunti notevoli – la scena della fuga merita davvero di essere letta per la sua assurdità – ma manca completamente di quel senso del meraviglioso che invece mi aspetto in un racconto fantastico che sia davvero rappresentativo dell’epoca.
Gli altri racconti classici di Weinbaum, in breve
Come ho già accennato, qua e là mi sono spesso imbattuto negli altri racconti tipici di Weinbaum che vengono solitamente scelti dalle varie antologie per illustrare la fantascienza degli anni Trenta: ho quindi recuperato gli scampoli di appunti che ho disseminato un po’ dappertutto nei miei scaffali per dare almeno una panoramica della trama essenziale di questi racconti, come sono solito fare nelle mie recensioni.
– Un’odissea marziana (A Martian Odyssey, 1934)
Su Marte, un astronauta racconta ai suoi compagni appena ritrovati gli strani incontri con i diversi tipi di alieni che ha fatto sul pianeta dopo essere precipitato col suo razzo a ottocento miglia dal campo base: lungo la strada del ritorno – tutta a piedi – ha incontrato uno strano marziano le cui fattezze ricordano quelle di un uccello, che poi lo ha accompagnato ed aiutato nel lungo cammino. Tutto è molto alieno e troppo filosofico.
– La valle dei sogni (Valley of Dreams, 1934)
Seguito del precedente: l’astronauta ed un compagno tornano al relitto dell’astronave per recuperare qualcosa e vivono nuove esperienze. Lungo il viaggio si imbattono in una città degli alieni uccelliformi, cui regalano un motore atomico. Da un dipinto custodito in città intuiscono che nell’antichità questi marziani hanno anche visitato la terra: sarebbero l’ispirazione del dio egizio Thoth. Ancora più cerebrale del precedente.
– I mondi del se (The Worlds of If, 1935)
La parte divertente del racconto – che ha un taglio ironico – sono i ritardi cronici del protagonista, che sostiene che persino gli orologi vanno più piano quando li mette al polso. Un suo ritardo gli fa perdere un razzo intercontinentale che poi si schianta con un altro: muoiono i quattro quinti dei passeggeri. Con l’aiuto di un’invenzione del suo ex professore universitario, prova a vedere cosa sarebbe accaduto se avesse preso quel razzo: sarebbe morto, dopo aver conosciuto a bordo una splendida ragazza. Consultati i giornali dei giorni successivi all’incidente, scopre che in realtà la ragazza si è salvata ma ha anche sposato l’ufficiale che l’ha salvata dal disastro: il protagonista è arrivato ancora una volta in ritardo.
– Il pianeta dei parassiti (The Parasite Planet, 1935)
Il pianeta in questione è Venere, dove tutto è un parassita: spore che diventano muffe in pochi minuti, piante che si moltiplicano in un batter d’occhi, creature voraci che divorano tutto. Il protagonista è un cacciatore di una sostanza preziosissima che serve per ringiovanire: persa la capanna pressurizzata in una valanga di fango, prova a tornare nella zona americana e civilizzata del pianeta. Durante il cammino incontra la figlia di un noto esploratore inglese del pianeta e prosegue il viaggio con lei, dopo che pure la capanna della ragazza è stata distrutta da una delle creature venusiane: solito rapporto di odio (qui rivalità) e amore. La storia mostra alcuni scorci del pianeta, tra cui le terribili creature, sconosciute fino a quel momento, che vivono nell’emisfero buio di Venere, crudeli per divertimento. Molto creativo, bellino.
Di questo racconto esistono due seguiti: «I Lotofagi» (The Lotus Eaters, 1935) e «Il pianeta del dubbio» (The Planet of Doubt, 1935). Il primo è il seguito diretto del precedente ed è ambientato nel lato oscuro di Venere, dove i due protagonisti trovano nuove forme di vita altrettanto singolari; il secondo si svolge tempo dopo su Urano ed include altre forme di vita sempre più fantasiose.