Oltre ad essersi scelto uno pseudonimo così allitterante, Harry Harrison ha scritto anche parecchi libri piuttosto famosi, come la bella distopia del prossimo futuro di «Largo, largo!» (mai sentito parlare del Soylent?) e le serie del «Ratto d’Acciaio», di «Bill, l’Eroe Galattico», degli «Yilanè» e, un po’ meno nota delle precedenti, del «Mondo maledetto» (Deathworld, 1960; il titolo di un’altra edizione italiana lo rende con «Pianeta impossibile»): il primo volume, qui commentato, offre un’ambientazione assai affascinante, una storia piuttosto accattivante ed un finale quasi imbarazzante.
Tutta questione di telepatia
Il mondo «micidiale» del titolo originale non è un’esagerazione: Pyrrus, il pianeta ricco di materie rare su cui si svolge gran parte della storia, è davvero un mondo ostile alla vita, quantomeno a quella umana. Basta una disattenzione – a volte nemmeno quella – e si è spacciati: nel migliore dei casi, si vive una vita di fatica e pericoli costanti, aggravati dalla gravità doppia di quella terrestre, dalle condizioni ambientali estreme, dai terremoti frequenti e da altre simili amenità, che includono flora e fauna aggressive, velenose e per lo più letali.
Per questo i trentamila coloni si considerano – a ragione – dei superuomini: ciononostante, l’unica città (pure fortificata) del pianeta è per metà in rovina e per l’altra in lento declino. Ma abbandonarla significherebbe ammettere la sconfitta ed i pyrriani sono gente orgogliosa, fieri di sopravvivere in un ambiente sfavorevole e pazienza se ogni tanto qualcuno ci lascia le penne.
Le azioni del protagonista, un telepate che si è messo nei guai ed è costretto a cercare rifugio sul pianeta, permetteranno però di comprendere e poi risolvere la situazione con un finale semplicistico che mette tutto a posto.
Non solo: si intuisce anche che il pianeta, da mortale che era, sta per diventare quasi paradisiaco.
Vedi Pyrrus e poi muori
Jason dinAlt, telepate, è un baro di professione: usa i suoi lievi poteri mentali per vincere al gioco. E proprio in seguito ad una supervincita illecita è costretto a tagliare la corda in fretta ed accettare l’offerta di accoglienza dell’ambasciatore del pianeta Pyrrus, il mondo più pericoloso della galassia.
I suoi ripensamenti però iniziano non appena tocca terra: già solo per sbarcare dall’astronave, l’unica del pianeta, deve accettare di farsi rinchiudere in una lattina come tutti gli altri passeggeri per essere trasportato in un luogo sicuro, procedura standard per chi torna su Pyrrus dopo un’assenza prolungata. Le forme di vita indigene infatti non solo sono letali per gli umani ma sono anche in continua evoluzione ed escogitano sempre nuovi trucchi, tecniche o tossine per uccidere: per questo è necessario un soggiorno alla «clinica di aggiornamento» prima di poter tornare a muoversi per le strade dell’unica colonia umana, le cui alte mura stentano a proteggere la piccola comunità dai continui attacchi dei grossi animali feroci, dei piccoli insetti malevoli che pungono ed avvelenano e persino della ricca vegetazione, che scava e spacca le fortificazioni.
Nel caso di dinAlt, la permanenza nella clinica dura parecchi mesi, forse anche un anno: al sicuro tra le mura dell’istituto deve infatti seguire lo stesso corso base di sopravvivenza riservato ai bambini, che soprattutto nei primi tempi ottengono risultati di gran lunga migliori dei suoi.
Pur svantaggiato rispetto agli indigeni, che sono più forti e robusti, non soffrono per l’alta gravità e sono a proprio agio nell’ambiente ostile in virtù dell’assuefazione al pericolo, alla fine dinAlt viene tuttavia giudicato abbastanza competente da poter lasciare la scuola (ma sempre accompagnato da una guardia del corpo: un bambino di otto anni, già molto più adatto alla sopravvivenza di quanto il nostro potrà mai diventare) e libero di trovarsi un’occupazione che, data la sua evidente inferiorità fisica rispetto agli indigeni, lui stesso propone e riesce a farsi approvare, pur con qualche difficoltà: vuole capire cos’abbia spinto Pyrrus a dichiarare guerra agli uomini.
Non a tutti, a dire il vero, solo a quelli urbanizzati: perché infatti i «grubber» (arraffatori o sgobboni, si scelga la traduzione che si preferisce) non paiono avere problemi con la natura.
Dopo l’inferno, l’Arcadia
Chi siano costoro si scopre solo nella seconda metà del libro: umani in tutto e per tutto, i grubber – disprezzati dai superuomini della città, che li tollerano solo perché sono necessari alla loro sopravvivenza (ma l’odio è reciproco) – sono composti tanto dagli esiliati della colonia quanto dagli eredi dei primi contadini planetari. Questi uomini vivono in mezzo alla natura quasi come selvaggi: coltivano la terra, allevano animali e di quando in quando fanno scambi con i coloni, cibo in cambio di cose. Ma, cosa inspiegabile, non vengono attaccati da quegli stessi animali, insetti e piante che, ad alcuni chilometri di distanza, fanno invece scempio dei pyrriani.
Questo dà da pensare a dinAlt che una notte, mentre dorme in una capanna ospite di un grubber, viene folgorato da un’illuminazione: tutte le forme di vita sul pianeta sono telepatiche; lui stesso ne era stato colpito ma ad un livello così basso che non se ne era accorto fino a quel momento. Perciò l’aggressività della natura non è tanto un rifiuto degli uomini della città quanto una reazione alla loro mente, occupata solo ad odiare ed uccidere, nella classica immagine del gatto che si morde la coda. Di conseguenza, suscitate e al tempo stesso influenzate da questa nuova minaccia, flora e fauna si sono unite per eliminarne la fonte: odio contro odio, morte contro morte. I grubber invece, che vivono in armonia con l’ambiente e non condividono i pensieri aggressivi degli uomini di città, sono stati accettati dal pianeta e non corrono particolari pericoli.
In buona sostanza, l’origine del conflitto deriva da un piccolo incidente avvenuto trecento anni prima, all’inizio della colonizzazione, e dall’odio che da allora le forme di vita autoctone, tutte telepatiche, provano per gli umani: questa ostilità, nata come forma di autodifesa, si è trasmessa dagli insetti – tra i quali si era sviluppata in origine – agli animali ed alle piante (pure telepatiche) e di mutazione in mutazione si è esacerbata per tre secoli.
Così, dopo aver seguito un paio di false piste – che includono la nuclearizzazione di un’isola in cui dinAlt, facendo finalmente uso dei suoi poteri telepatici, crede di aver scovato l’intelligenza aliena che starebbe guidando gli attacchi alla città: il fallimento costa parecchi morti e la sua messa al bando – si arriva al lieto fine: una tregua tra le due fazioni di pyrriani che prevede una stretta collaborazione da subito e, a partire già dalla prossima generazione, la fusione in un unico popolo che unisca il meglio dei due ceppi, ma lontano dalla città, che invece ha i giorni contati. Qui infatti resteranno solo quei superuomini che rifiutano il cambiamento, condannati ad essere sopraffatti dal loro stesso odio.
In sostanza, tutti i pyrriani diventeranno grubber fricchettoni, solo un po’ più civilizzati e un po’ meno selvaggi.
Un’ambientazione suggestiva
Fatta eccezione per qualche pennellata New Age qua e là ed il finale ecologista un po’ troppo semplicistico (e pure New Age, per la promessa di una nuova età dell’oro a contatto con la natura), «Mondo maledetto» è un ottimo libro, soprattutto consideratane la brevità: la trama è solida, l’ambientazione suggestiva, le descrizioni essenziali; lo stesso stile crudo è adattissimo a descrivere un pianeta così micidiale, dove per necessità non c’è posto per il superfluo.
Il verso della medaglia è che in così poche pagine non rimane molto spazio anche solo per tratteggiare un’evoluzione dei personaggi, che rimangono appena stilizzati, strumenti necessari a veicolare la storia e poco più: non me ne lamento (meglio personaggi minimali che troppo dettagliati) ma qualcuno potrebbe restare deluso da un protagonista come Jason dinAlt, che dall’inizio alla fine ha tutta la boria di un antieroe saputello e sin troppo presuntuoso.
Detto ciò, ritengo doveroso aggiungere due righe di confronto tra questo racconto ed «I superstiti di Ragnarok» (The Survivors, 1958) di Tom Goodwin, di cui ho scritto proprio un anno fa: entrambi i libri trattano la sopravvivenza dell’uomo su pianeti ostili alla vita, qui per scelta, lì per necessità. Sono stati scritti a soli due anni di distanza l’uno dall’altro – prima l’altro – ma per il cambio radicale di prospettiva e mentalità tra le due storie sembra essere passata un’eternità: «Ragnarok» è un’epica avventurosa che declama la forza dell’uomo, la sua volontà di ferro e la sua capacità non solo di sopravvivere e proliferare persino in un ambiente ostile ma anche di piegare la natura stessa e le avversità alle proprie necessità. «Deathworld» è invece già influenzato dall’ambientalismo ed è più pessimistico nel giudizio dell’indole umana e della sua capacità di convivere con la natura: da questo punto di vista è molto più vicino alla mentalità moderna, che cerca sempre di incolpare l’uomo per ogni catastrofe naturale e, nelle sue forme più acute, non disdegnerebbe nemmeno un ritorno alle caverne pur di salvaguardare l’ambiente.
Epilogo: dal mondo micidiale alla noia mortale
Di questo libro esistono due seguiti: «L’ingegnere etico» (The Ethical Engineer, 1963) e «Deathworld 3» (1968), dei quali ho letto solo il primo, che è di una noia mortale. Poche idee, e pure tirate per le lunghe: dinAlt viene rapito, fa naufragio su un pianeta i cui abitanti umani si sono involuti a selvaggi nomadi, con alcuni clan appena più civilizzati che fanno uso di motori primitivi. Il nostro trova il modo per farsi accettare da questi ultimi ed intanto cambiare lo status quo, sempre approcciandosi a tutto e tutti con la stessa superiorità presuntuosa dell’intellettuale da salotto.
Vista la delusione dell’«Ingegnere etico» e letto un sommario poco invitante dell’ultimo volume, ho evitato accuratamente di leggere «Deathworld 3», presagendo un nuovo motivo di disappunto.