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John W. Campbell – La cosa da un altro mondo

«La cosa» di Carpenter è uno dei film horror più memorabili e meglio riusciti degli anni Ottanta: non tutti però sanno che l’ispirazione è venuta da un racconto degli anni Trenta, «La cosa da un altro mondo» (Who Goes There?, 1938; a volte reso anche come «Chi va là?») di Don A. Stuart, pseudonimo di John W. Campbell. Proprio quello stesso Campbell che da pochi mesi era divenuto direttore di Astounding Science Fiction e che nei successivi decenni avrebbe lasciato un’impronta indelebile nella fantascienza: così indelebile che può essere considerato il padre della fantascienza contemporanea.

La nascita dell’horror fantascientifico
La storia di Campbell, pubblicata da Astounding nell’agosto 1938, è la revisione di un altro racconto scritto l’anno precedente dallo stesso autore per Argosy, che lo rifiutò (l’originale, ritrovato pochi anni fa, è stato pubblicato col titolo di «Frozen Hell»: qui lo commento), e come quello è ambientata nell’Antartide, nelle baracche di una spedizione scientifica americana sul finire dell’inverno polare, quindi isolata dal mondo: come nel dopoguerra la luna e l’esplorazione del sistema solare hanno offerto lo spunto per tante opere di fantascienza prima di cadere nell’oblio con gli anni Ottanta, così nei primi decenni del Novecento l’esplorazione del Polo Sud – l’ultimo angolo inesplorato del pianeta – aveva acceso la fantasia di molti autori. Non solo era ancora vivo il ricordo delle grandi spedizioni – la conquista del Polo Sud risale infatti al 1911, meno di trent’anni prima della pubblicazione del racconto – ma il passato ed i misteri del continente ricoperto di ghiacci, che si sapeva aver conosciuto la vita in epoca preistorica, offrivano anche innumerevoli spunti per le storie fantastiche: per dare l’idea, appena due anni prima era uscito (sempre su Astounding) il lungo romanzo «Le montagne della follia» di Lovecraft che, ambientato sempre nell’Antartide e sempre collegato a civiltà superiori che hanno raggiunto la terra centinaia di migliaia di anni fa, se non addirittura milioni, portava il tema dell’orrore cosmico nella terra dei ghiacci.
A questo punto una digressione è necessaria: l’orrore cosmico non è l’horror fantascientifico.
L’orrore cosmico è la consapevolezza che l’uomo è un nulla nell’universo, le sue azioni non contano niente ed è anzi destinato a passare e scomparire come un granello di polvere: a paragone delle altre razze aliene che hanno giocato con la terra e l’umanità, l’uomo è come una formica, ignorato da tutte quelle creature, che gli sono infinitamente superiori. Per un approfondimento rimando a ciò che ho scritto al riguardo diversi anni fa nell’articolo sui dieci migliori racconti di Lovecraft.
L’horror fantascientifico invece è un tipo di horror più comune, la lotta per la sopravvivenza condotta da un uomo o un gruppo contro un nemico disumano e letale: morte, sangue e raccapriccio fanno parte della scenografia ma in definitiva il protagonista non parte sconfitto; deve solo capire che c’è un predatore e chi è questo predatore, comprenderne il comportamento ed i punti deboli e poi, facendo ricorso alla propria intelligenza, ideare il piano per mettere fine alla minaccia o morire nel tentativo. «Alien» e, appunto, «La cosa» sono classici esempi di film horror fantascientifici.

Altolà, chi va là?
A causa dell’ambientazione, la trama del racconto è piuttosto statica: ma questa staticità – o piuttosto unità di luogo – è anche la sua forza, perché permette di costruire l’atmosfera, creando quel senso di ansia e paranoia per cui nessuno è al di sopra del sospetto. Campbell prende infatti un genere tipico dei gialli – la «cerchia ristretta dei sospetti» alla Agatha Christie – e lo rielabora in chiave fantascientifica: nasce così l’horror fantascientifico.
Chi conosce il film (e chi non lo conosce?) ha già un’idea della trama: per una volta infatti l’adattamento cinematografico è stato abbastanza fedele, sia pure con alcune licenze e adattamenti, non ultimo il finale aperto, che invece nel racconto non lascia dubbi.
Qui non ci sono i norvegesi però: fanno tutti gli americani. Attratti da un polo magnetico secondario non troppo distante dal polo primario, alcuni membri della spedizione – tra cui McReady, che qui è vicecomandante e meteorologo – trovano i resti di un’astronave sepolti sotto decine di metri di ghiaccio: per aprirsi la strada nel vascello usano una bomba alla termite, che però innesca una reazione incendiaria e distrugge tutto. Tutto tranne una creatura orribile a vedersi: lunga sul metro e venti, con tre occhi rossi, capelli blu che sembrano vermi striscianti, la bocca contratta in una smorfia di odio ed una dentatura da serpente; la cosa è pure telepatica e, persino da «morta», è capace di leggere e influenzare le menti degli uomini.
Quando il romanzo si apre, l’alieno, ancora avvolto nel ghiaccio, è già stato portato nelle baracche del campo base: i trentasette membri della spedizione sono raccolti attorno al corpo, per vederlo e decidere cosa farne. Convinti dal biologo (Blair), che sostiene che nessuna forma di vita organizzata può sopravvivere al congelamento, i più decidono di ignorare gli avvertimenti del fisico (Norris), che giustamente diffida di ciò che non conosce e propone invece di distruggere subito la «cosa»: la maggioranza però la crede innocua e decide di lasciarla scongelare perché il biologo possa studiarla.
Superfluo a dirsi, avranno motivo di rimpiangere questa decisione.

La cosa è tra noi
Non ci sono scene cruente: la storia infatti è costruita attorno al sospetto e alla paranoia, con un pizzico di rassegnazione da parte degli uomini che non solo sanno di non potersi fidare di nessuno ma non sono nemmeno troppo convinti della propria autenticità, al punto che pian piano sembra insinuarsi nei protagonisti la convinzione che il martirio – immolarsi perché la cosa non raggiunga le zone popolate del pianeta – sia l’unica alternativa.
Quella notte dunque la creatura finisce di scongelare e si leva: nottetempo fa subito la prima vittima, un certo Connant, che è uno dei personaggi chiave per costruire quel senso di paranoia. La cosa infatti non uccide: assorbe o assimila, dopodiché è in grado di prendere la forma voluta ed imitarne gli atteggiamenti, la voce, persino le idee e gli schemi di pensiero.
Quella notte una creatura semitrasformata in husky viene scoperta ed uccisa dagli scienziati mentre attacca i cani da slitta: nonostante l’uccisione del mostro, Connant viene comunque sospettato di essere la creatura ancora per molti giorni, finché non viene scagionato da ulteriori esami, che poi però si scopriranno essere stati falsificati dall’astuzia dell’alieno.
Gli umani infatti ancora non conoscono tutte le peculiarità della cosa ma le apprenderanno rapidamente: come ad esempio che ogni sua parte è da subito un’altra creatura perfettamente formata, con una volontà ed un istinto di sopravvivenza propri, già capace di assimilare e copiare altri esseri viventi.

Paranoia e sospetto
Il clima si fa sempre più pesante finché, giorni dopo, Kinner, il cuoco dal volto sfregiato che era impazzito per la paura ed era stato rinchiuso in una stanza dalla quale arrivava un fiume ininterrotto di preghiere, lodi ed inni, non tace improvvisamente: insospettiti, gli altri – che ormai passano le giornate a stretto contatto gli uni degli altri, per controllarsi a vicenda – vanno a vedere cosa sia successo e lo trovano morto, con un coltello da cucina piantato nella gola. Come quel coltello abbia fatto ad arrivare lì e come qualcuno abbia potuto introdursi non visto nella camera è un mistero.
Che però presto si spiega, quando il fu Kinner prende improvvisamente vita e, nel trasformarsi in qualcosa di scaglioso e miagolante, attacca Van Wall (altro membro della spedizione) prima di essere fatto a pezzi da McReady e poi fulminato con un’arma improvvisata ma assai efficace già sperimentata in precedenza con la creatura dei cani: un cavo dell’alta tensione fissato ad un’asta.
Probabilmente proprio per spiegare l’intera scena, poche pagine prima era stato lasciato intendere che gli alieni sono in grado di passare attraverso le fessure allo stesso modo in cui i globuli bianchi attraversano la parete di un vaso sanguigno: semplicemente protendendo uno pseudopodo.

Gli esami del sangue
L’evento mette tutti in allarme: McReady, che finora non ha comunicato a nessuno l’esame che ha in mente da un po’ per evitare che le creature, telepatiche, lo conoscano in anticipo e possano escogitare una contromossa, obbliga tutti a sottoporsi al test del sangue visto nel film.
In altre parole, le creature non sono realmente ciò che fingono di essere ma, appunto, delle imitazioni: di per sé non sanguinerebbero ma dato che un taglio da cui non esca sangue risulterebbe sospetto sono costrette a lasciarne gocciolare un po’, proprio come farebbe un taglio della pelle su una persona normale.
Ma, dal momento che anche un pezzo della «cosa» è già una creatura fatta e completa, indipendente, anche poche gocce di finto sangue sono in realtà una nuova creatura, con l’istinto di conservazione già bello e sviluppato. Così, per scoprirne la vera natura, basta avvicinare un pezzo di platino incandescente al sangue: se «soffrigge» e non cerca di sfuggire il calore, è sangue umano ed umano è anche il donatore; se invece tenta di scansarlo, è una creatura e così anche la sua origine.
Mediante l’esame vengono scoperte quattordici creature – tra cui Connant ed il comandante della spedizione, Garry – prontamente fatte a pezzi dagli altri membri della spedizione e poi fulminate dal cavo all’alta tensione.
Ma non c’è nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo che McReady si ricorda di Blair, il biologo che, fingendosi pazzo per il rimorso, all’inizio dell’emergenza di cui è stato la causa aveva ottenuto di farsi rinchiudere in una baracca isolata: McReady ed altri due corrono da lui già temendo il peggio, perché la primavera è appena cominciata ed un albatros (al quale sparano tanto per essere sicuri) sta già sorvolando la zona. Arrivano alla casetta giusto in tempo, perché la cosa che ha preso il posto del biologo ha appena finito di costruirsi un generatore di energia atomica ed uno zaino antigravità con i quali sta per abbandonare il Polo Sud diretto alla civiltà. Dopo una lotta selvaggia lo fanno a pezzi, che poi bruciano: pochi minuti ancora e sarebbe fuggito ad infettare il resto del mondo.

Un gioiello d’altri tempi
Nessun commento e nessun riassunto possono fare giustizia al racconto: per quanto accurata, farne una sintesi significa infatti eliminare quell’atmosfera di paranoia, minaccia e sospetto costanti che sono anche il nucleo del racconto, quindi in un certo senso si finisce per snaturarlo. Ma un articolo come questo può anche far venire la voglia di prendere in mano un libro che, in quanto «vecchio», corre facilmente il rischio di essere sottovalutato o ignorato: ed invece si tratta di un autentico gioiello, che merita di essere letto. Alla fine poi è solo un racconto lungo, lo si manda giù in un paio di ore abbondanti.
La caratterizzazione dei personaggi è molto vaga: si tratta di una storia corale, dove non contano tanto i singoli quanto il gruppo e le dinamiche di gruppo. Certo, McReady appare come il protagonista ma solo nel senso di un primo tra pari, colui che si fa carico della situazione e per così dire guida gli eventi: incarna piuttosto la mano dell’autore, quel personaggio che serve per dare il ritmo alla storia ed evitare che la trama ristagni. Per il resto, non esiste un vero protagonista, quantomeno non tra gli umani.
Infine, merita spendere due parole sul film di Carpenter che, come detto in apertura, fa un buon lavoro di adattamento e lascia sostanzialmente intatto il senso di minaccia del racconto, aggiungendo magari qualche scena horror in più: a differenza del romanzo però il finale del film è aperto. Il racconto non lascia alcun dubbio: con la morte del fu Blair e la distruzione mediante fuoco di ogni frammento delle creature l’invasione delle cose è stata fermata. Nel film invece si rimane nell’incertezza sull’identità degli ultimi due superstiti: uno di loro potrebbe essere la cosa (e questa è l’opinione prevalente tra i fan) ma potrebbero anche esserlo entrambi; in ogni caso, distrutte le baracche nell’esplosione finale, i due superstiti – se umani – sono destinati a morire assiderati, non appena gli incendi si saranno spenti ed il calore dissipato.

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