Ah, la cara vecchia sword and sorcery!
«Che fine ha fatto?», qualcuno si chiederà, ricordando con nostalgia i bei romanzi e film che per più di sessant’anni hanno dominato le fantasticherie dell’uomo comune: ambientate in mondi anticheggianti dove esiste la magia, queste storie non erano fantasy nel senso moderno – che ormai sottintende l’«high» fantasy, come vedremo – ma ruotavano solitamente attorno ad un eroe ed alle sue imprese, che per lo più includevano scorrerie o scaramucce di impatto limitato sul mondo, che tra l’altro era abitato solo da umani ed al massimo qualche razza di subumani primitivi, oltre agli immancabili mostri, pochi, terribili e solitamente innaturali.
In questo genere di racconti è il protagonista che prende a due mani il proprio destino e, menando fendenti a destra e a manca o facendo semplicemente buon uso del proprio cervello, non solo si toglie dai guai ma al tempo stesso risolve anche la situazione: solitamente non è questione di salvare o migliorare il mondo (anche se indirettamente ogni azione dell’eroe è un piccolo passo in questa direzione) ma si tratta piuttosto di scorribande di portata limitata, come appunto saccheggiare un tempio abbandonato, salvare la principessa rapita, esigere la giusta vendetta dal traditore, togliersi dai guai in cui l’avidità, la sfortuna o un avversario invidioso hanno gettato i protagonisti.
Qui la magia stessa ha soprattutto una funzione di minaccia e di giustificazione di determinati eventi: sebbene se ne senta la presenza costante non è onnipresente, a differenza dell’high fantasy dove invece viene usata anche al posto del piezoelettrico in cucina. Nella sword and sorcery i maghi sono temuti proprio in quanto maghi, ossia individui che praticano le arti occulte, non perché lanciano palle di fuoco a ripetizione; gli stessi incantesimi infatti sono potentissimi e solitamente richiedono lunghi preparativi: per questo se ne vedono sempre gran pochi per storia, al punto che conta di più la minaccia che essi rappresentano che la magia in sé.
Poi è arrivato l’abominio cinematografico del Signore degli Anelli di Peter Jackson, che a colpi di effettoni speciali ha sdoganato il fantastico a tutti i livelli, elevandolo da sentina della creatività a materiale per il consumo di massa: ma proprio per farlo diventare «mainstream» ha anche dovuto amputarne le mille sfaccettature che un tempo, quand’era soggetto a minori requisiti ed aspettative più basse, era in grado di offrire.
La solennità dell’high fantasy
Mentre la sword and sorcery, si diceva, è interessata più all’avventura in sé e alle vicende personali dei suoi eroi, l’high fantasy – che nel ventunesimo secolo è divenuto la veste ormai consueta in cui viene servito il fantastico – porta tutto ad un livello più alto: la levità è anatema per l’high fantasy, che si prende sin troppo sul serio e non ha tempo per le frivolezze.
Così c’è sempre un conflitto che sobbolle in pentola ed è sempre tra Bene e Male, con un confine ben delineato che mette i protagonisti dalla parte del Bene: questo scontro non solo coinvolge vaste aree geografiche ma è in grado anche di cambiarle o sconvolgerle nei tempi a venire. Come se ciò non bastasse, la magia è affare di tutti i giorni, agli umani si affiancano diverse altre razze e solo dalla loro collaborazione può dipendere la sconfitta del Grande Male: in altre parole l’high fantasy spinge l’elemento fantastico a undici, per citare l’indimenticabile battuta degli Spinal Tap.
In sostanza, manca il carattere più semplice, disincantato, quasi da quotidianità – e spesso ironico – della sword and sorcery, i cui eroi non vanno in giro a voler cambiare il mondo come pretendono di fare i protagonisti dell’high fantasy ma fanno quello che gli va di fare al momento o che gli dà più vantaggio: certo, alle volte devono salvare o riscattare interi imperi, ma solo perché loro stessi ne sono i monarchi e vogliono quindi mettere al sicuro ciò che è già loro, senza motivarlo con motivazioni artificiali o filantropiche.
Una breve introduzione alla sword and sorcery
L’eroe sword and sorcery da manuale è Conan di Howard (che prima del cimmero aveva già tratteggiato altre figure leggendarie, come Kull di Valusia e Solomon Kane) ma non è il solo che meriti di essere letto: ci sono ad esempio Fafhrd ed il Gray Mouser di Fritz Leiber, coppia di personaggi diversissimi ma complementari le cui avventure includono sempre un pizzico di umorismo (come nel classico «Tempi magri a Lankhmar», la metropoli in cui è ambientata buona parte delle loro avventure, con la distinzione tra gli dei di Lankhmar e gli dei in Lankhmar).
Anche Clark Ashton Smith ha scritto parecchi racconti di sword and sorcery, in particolare nelle ambientazioni di Hyperborea (già recensita) e dell’ancor più affascinante Zothique (pure recensita); persino Kuttner, per il quale non vado matto, ha scritto della sword and sorcery (non memorabile ma decente rispetto alla sua produzione consueta) con Elak di Atlantide, contenuto nella raccolta sul meglio di Weird Tales.
L’elenco è molto lungo: salto perciò subito a Lyon Sprague De Camp, che ha scritto diversi cicli e personaggi di sword and sorcery, tra cui la piacevole serie di Jorian di Xylar, il «re riluttante», che mescola ironia ai temi classici del genere.
Come rileva persino un barbaro nelle prima riga del primo libro, la città stato di Xylar ha la «curiosa consuetudine» di decapitare il suo re ogni cinque anni: al suo posto viene acclamato sovrano chiunque prenda al volo la testa mozzata del suo predecessore. Cinque anni fa questa era appunto finita tra le mani di Jorian, figlio di un orologiaio della città di Kortoli, il cui lustro di governo è appena scaduto: non che questi non abbia provato ripetutamente a mettersi in salvo in passato ma sinora ogni suo tentativo di defezione è stato frustrato dalla guardia reale, che infatti non ha tanto il compito di impedire che venga fatto del male al re quanto piuttosto di prevenirne la fuga.
La torre di goblin (The Goblin Tower, 1968)
Il primo libro della serie – nota anche come «ciclo di Novaria», dal nome del continente in cui si svolgono le avventure – si apre dunque con l’epilogo del quinquennio regale di Jorian, proprio mentre l’eroe viene condotto al patibolo per essere decapitato, come prevede il rituale di corte. Dopo diversi tentativi di fuga falliti, il nostro finge di essersi ormai rassegnato alla morte imminente ma in realtà nasconde ancora un asso nella manica: in cambio della promessa di recuperare un antico manoscritto, si è infatti assicurato l’aiuto del dottor Karadur, un vecchio mago, un po’ meno cialtrone dei suoi colleghi.
Questi riesce a favorire la fuga dell’eroe mediante una corda magica che lo porta brevemente nell’inferno dell’aldilà: non senza una certa ironia, questo inferno è in realtà il nostro mondo, reso ancora più terribile agli occhi di Jorian dal punto in cui vi è sbucato, proprio in mezzo ad un’autostrada percorsa dalle auto lanciate a folle velocità. Tuttavia il protagonista riesce a mettersi al sicuro e a raggiungere il punto da cui, sempre grazie alla corda, può nuovamente calarsi nel proprio mondo – in mezzo ad una palude – e ricongiungersi al dott. Karadur: qui comincia la vera avventura, che in pratica è al tempo stesso la fuga dagli inseguitori che vogliono assicurarsi la testa dell’ex sovrano e la ricerca del manoscritto.
Giunto infine nell’estremo oriente assieme al dott. Karadur, Jorian riuscirà a sedurre una donna serpente e trafugarle così l’ambito manoscritto, che i due consegneranno per tempo alla Torre di goblin eponima, dove si sta tenendo un convegno mondiale della magia (condotto in stile molto moderno, con seminari, tavole rotonde, assemblee generali…) che finirà in un disastro.
La storia è leggera e piuttosto lineare ma godibilissima, anche per merito di Jorian, che è un personaggio competente e gradevole: si definisce il secondo migliore in tutto e perciò ritiene di essere in grado di battere chiunque tranne i suoi maestri nei loro campi specifici, perché essi sono sì i migliori in assoluto nella loro disciplina di elezione ma non lo sono nelle altre. Il suo talento più evidente e a tratti anche invadente è però la verbosità: ogni capitolo è zeppo delle sue poesie improvvisate e dei suoi racconti sulle leggende o sulla storia antica del mondo, con le vicende tutt’altro che epiche di re, mostri e condottieri. Da questo punto di vista è un eroe anticonvenzionale: è sicuramente buono, ardito e coraggioso come si conviene ma non è il classico eroe assetato di sangue o ricchezze o giustizia che ambisce all’azione e al combattimento; ama invece parlare (tanto), comporre poesie e nell’insieme godersi la vita.
L’ironia sempre presente di De Camp non risparmia nessuno, nemmeno la magia: in tutta la serie, ed in particolare in questo primo volume, i maghi sono caricature, macchiette, si atteggiano a paladini dell’umanità e della bontà ma in realtà per doppiezza ed ipocrisia sono anche peggiori degli uomini più gretti. Divisi in due fazioni che già di nome suonano ironiche, i Benefattori e gli Altruisti, i maghi sostengono di astenersi da qualsiasi comportamento o atteggiamento meno che morale, perché altrimenti guasterebbero la loro padronanza della magia: in pratica però ne fanno di tutti i colori, come uccidere per creare oggetti magici più potenti e truffare chiunque capiti a tiro, compresi gli amici e gli altri incantatori.
L’iconoclastia di De Camp travolge anche le divinità: nelle rovine di un’antica città Jorian trova infatti la statuina di un dio rimasto senza fedeli che in cambio di preghiere e fiori, dichiara di potergli essere utile. In realtà però fa poco per aiutarlo, se non cacciare costantemente nei guai il protagonista e addirittura scomparire quando si avvicinano i seguaci di un dio più potente di lui.
Jorian di Iraz (The Clocks of Iraz, 1971)
Il secondo libro della serie è leggermente inferiore al precedente ma solo perché è molto più statico: infatti, mentre il primo volume aveva portato i protagonisti in giro per il mondo, questo seguito è ambientato quasi interamente nella città arabeggiante di Iraz.
Da un anno – cioè dalla fine del primo libro – Jorian si è stabilito nella città stato di Ir sotto falso nome e lavora come capomastro; il dottor Karadur, che invece si è sistemato ad Iraz, dove gode pure di una certa considerazione, lo fa convocare con un’esca alla quale abbocca: incarica infatti un aristocratico di riferire all’eroe che ha trovato il modo di ricongiungerlo alla quinta moglie, quella alla quale è più affezionato ma che ha dovuto abbandonare assieme alle altre nella fuga da Xylar. Suo malgrado, l’inviato attira però le attenzioni dei cacciatori di taglie che stanno cercando il re disertore: Jorian è così costretto ad un’altra rocambolesca fuga assieme all’inviato.
Giunto finalmente ad Iraz, Jorian – che è figlio di un orologiaio ed avrebbe dovuto ereditarne il mestiere – riceve dal re l’incarico di riparare l’orologio della torre cittadina da cui dipenderebbe, per una delle solite profezie infallibili, la salvezza della città: divenuto quindi amico del re e nominato da questi comandante delle forze armate, Jorian salva effettivamente la città dall’assedio combinato di ben quattro eserciti alleati che giungono dai quattro punti cardinali (i pirati dal mare, i mercenari dal nord, i beduini dal deserto ed i contadini rivoltosi dal sud).
Appresa la strategia degli attaccanti e l’ora di inizio dell’assalto grazie ad un incantesimo di Karadur, nella notte che precede l’attacco Jorian cambia l’ora mostrata da ciascun quadrante della torre (usata come riferimento anche dagli aggressori), scompaginando così l’assalto coordinato: in questo modo può concentrare tutte le forze dei difensori, inferiori di numero, su un solo versante della città per fronteggiare una sola ondata alla volta, invece che disperderle su tutte le mura per tentare di respingere i quattro eserciti contemporaneamente.
Salvata così la città, Jorian salva anche il grasso re (soddisfacendo la somma sacerdotessa), che per questo lo adotta ed abdica in suo favore. Ma questa scelta scatena la ribellione in città: Jorian, che non desidera il potere ma la moglie perduta, cede prontamente la corona ad un colonnello, chiedendo in cambio solo l’enorme vasca da bagno del re abdicatario, che con l’aiuto di Karadur (e di un demone che doveva ancora un favore a quest’ultimo) trasforma in una vasca da bagno volante, con la quale lascia la città e corre a recuperare la moglie.
Il re non decapitato (The Unbeheaded King, 1983)
La storia di questo terzo libro riprende proprio laddove si era interrotta nel volume precedente: Jorian e Karadur hanno preso il volo nella vasca da bagno del re di Iraz e stanno volando alla volta di Xylar per rapire la moglie prediletta di Jorian.
L’idea dell’eroe è di raggiungere nottetempo dal cielo l’appartamento del palazzo reale in cui vive la donna, rapirla e darsi alla fuga prima che le guardie si accorgano della sua scorreria: il progetto però fallisce malamente – con una serie di situazioni comiche come le classiche ginocchiate al buio contro i mobili in mezzo alla stanza dove non dovrebbero essere o i cani che annusano un intruso ed iniziano ad abbaiare – e Jorian è già fortunato a mettersi in salvo.
Fallisce anche il successivo tentativo di rapimento su commissione: Jorian ingaggia un mago per evocare un demone che però rapisce la persona sbagliata, la dama di compagnia della moglie, che da quel momento lo seguirà nelle sue imprese e in almeno un’occasione gli salverà la vita.
Finalmente, mediante corruzione, Jorian riesce ad incontrare la consorte, che però lo rifiuta: infatti, credendosi abbandonata dal marito, si è ormai impegnata con un altro. Jorian, sempre pratico e leale, ne accetta la scelta e si consola con la donna che era stata rapita inizialmente dal demone. Con lei inizia una nuova vita nella natia Kortoli: anni dopo, messa in piedi una nuova famiglia ed affermatosi come orologiaio, rifiuta l’offerta di tornare a fare il re di Xylar, dove una rivolta ha cambiato la struttura politica e non solo il sovrano non viene più decapitato al termine del suo mandato ma è anche limitato da una sorta di costituzione.
L’onorevole barbaro (The Honorable Barbarian, 1989)
Scritto e ambientato diversi anni dopo il ritorno di Jorian nella natia Kortoli, The Honorable Barbarian (1989, non mi risultano traduzioni italiane) ha per protagonista il fratello minore di Jorian stesso, Kerin, che si è messo nei guai con la figlia un po’ troppo allegra di un vicino ed è perciò costretto a fuggire prima di essere costretto al matrimonio riparatore.
Ricevuta un’istruzione basilare dal fratello nelle discipline che gli serviranno nel viaggio – ossia l’uso della spada, lo scasso e l’adulazione, «che ti porta sempre lontano» – Kerin viene quindi spedito dalla famiglia nel lontano Kuromon (sorta di Cina imperiale, dove riceverà l’attributo di «onorevole barbaro» che dà il titolo al libro) al tempo stesso per scoprire i segreti dell’arte orologiaia di quella misteriosa contrada ed intanto tenersi lontano dai guai, che però ovviamente abbonderanno: essenza stessa del viaggio, nell’anno o giù di lì di assenza diventa adulto, grazie sia alle raccomandazioni del fratello sia alle proprie capacità sia, va detto, ai colpi di fortuna. Così, quando a missione compiuta torna a casa, si presenta anche con la giovane moglie, una ex principessa salimoriana (che qui sta per l’Indonesia) che prima ha salvato dai pirati e poi dal sacrificio umano cui era destinata.
Nell’insieme la storia è sì gradevole ma è anche inferiore a quelle di Jorian, sebbene il protagonista riesca altrettanto simpatico dell’ex re: sono l’ambientazione e le imprese a non riuscire così fantasiose come le precedenti e persino l’umorismo, pur presente, qui è meno incisivo.
Non è quindi una sorpresa che le battute più divertenti riguardino ancora i (pochi) maghi e l’uso della magia, come quando un orribile demone del quinto livello, evocato dal prete stregone per riportargli la principessa rapita e messo alle strette da Kerin, osserva quanto siano crudeli gli abitanti del primo piano (il nostro), che «ci strappano dal nostro piano, ci obbligano a servirli senza nemmeno pagarci e poi ci costringono a commettere azioni che a casa nostra nemmeno ci sogneremmo».
Purtroppo però simili situazioni e battute al limite del demenziale sono gran poche in tutto il libro, che probabilmente deve proprio a ciò la sua debolezza: non riesce infatti ad ironizzare sui luoghi comuni del fantasy e delle storie d’avventura come facevano abbondantemente i libri di Jorian ma tenta invece di prendere di mira soprattutto le somiglianze tra il mondo di Novaria ed il nostro, tra le follie della burocrazia trionfante, gli strumenti magici che scimmiottano apparecchi tecnologici e le forzature varie dei pattini a rotelle o delle cause infinite in tribunale.
Certo questo Honorable Barbarian non è uno dei migliori libri del ciclo di Novaria ma, in quanto volume per così dire conclusivo della serie, non è nemmeno del tutto da buttar via.
Demone fallito (The Fallible Fiend, 1973)
Scollegato dal ciclo di Jorian ma sempre ambientato nel continente di Novaria, questo libro è zeppo della tipica ironia di De Camp: la trama stessa si regge su due binari, il sovvertimento degli stereotipi dei racconti eroici e la presa in giro dei costumi umani, visti ed interpretati dal demone Zdim.
Questi viene scelto dai suoi superiori per onorare un contratto che hanno stipulato con un mago del primo livello (il mondo parallelo al nostro): dovrà servirlo per un anno intero. Zdim, che è di indole buona ma, come tutti i demoni, non conosce né l’umorismo né lo «spirito» di un ordine e perciò interpreta tutto alla lettera, combina una serie di guai che portano alla rovina del mago, che lo cede ad un circo, che a sua volta lo cede ad una nobile della città sotterranea di Ir, che poco dopo viene assediata dai cannibali.
Mandato in cerca di aiuti, Zdim tornerà con un esercito di barbari del nord, che assieme ad altri corpi di spedizione salverà la città dagli assedianti: gli avidi governanti di Ir però non vogliono pagare il premio promesso ai liberatori e solo per miracolo si evita che la festa per i salvatori si trasformi nell’occupazione della città. Per ringraziarlo dei servigi resi, il demone viene affrancato sei mesi prima della scadenza e può così fare ritorno a casa.
La prima parte del libro – fino a quando il demone non viene ceduto alla nobile di Ir – è più avvincente della seconda, l’assedio di Ir da parte dei cannibali: la ricerca di aiuti di cui è incaricato il demone è anzi la parte più noiosa dell’intero libro. Nell’insieme è leggibile ma non è paragonabile alle storie di Jorian, più frizzanti e senz’altro più divertenti.
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