Con i romanzi di Lyon Sprague De Camp è impossibile sbagliare: sono infatti storie leggere, divertenti e pure cariche di ironia pungente che mancano magari della profondità e caratterizzazione degli autori più accreditati ma a differenza di quelli non deludono mai. I suoi cicli, ed in particolare quelli delicatissimi di sword and sorcery, non hanno eguali quando si vuol leggere un libro per svago: sull’argomento – e sul sussiego dell’high fantasy – mi sono già dilungato un paio di anni fa, quando ho commentato il divertente ciclo di Jorian di Xylar, il Re riluttante (con la elle), così qui evito di riprenderlo per concentrarmi invece subito sull’argomento di questo articolo, l’altrettanto piacevole ciclo di Harold Shea, l’Incantatore incompleto.
Un mago della domenica
Scritto in collaborazione con Fletcher Pratt, il ciclo è in realtà il consueto «fixup» in voga un tempo, ossia la fusione in romanzo di una serie di racconti (cinque) pubblicati sulle riviste tra il 1940 ed il 1954, poi accorpati tra loro in tempi diversi ed infine riuniti in un volume unico nel 1975 sotto il titolo di «The Compleat Enchanter», tradotti in italiano sotto vari titoli tra cui «L’incantatore incompleto» e «Apprendisti stregoni». Negli anni Novanta è uscita una seconda raccolta, «The Enchanter Reborn» (1992), inferiore per qualità, che invece raccoglie le nuove avventure del protagonista, lo psicologo Harold Shea: ma solo uno di questi racconti è stato scritto da De Camp, gli altri sono opera di altri autori, tra i quali Christopher Stasheff.
Ciò che distingue queste storie da tutte le altre avventure fantasy è l’ambientazione: il punto di partenza è infatti il nostro mondo contemporaneo all’epoca in cui gli autori scrivevano, quindi gli anni Quaranta e successivi. Ma questo da solo non sarebbe una novità: anche se a quel tempo il sottogenere del «viaggio tra mondi paralleli» non era così affollato come lo è oggi, sono comunque innumerevoli le storie fantastiche che partono dal mondo reale per poi sbucare in un mondo di fantasia, come ad esempio capita a John Carter nel ciclo di Barsoom, al protagonista del «World of Tiers» di Farmer, al George che dà il nome a «The Dragon and the George» di Dickson e ai personaggi di altre decine di romanzi anche meno noti pubblicati negli anni Settanta e Ottanta.
A rendere particolare l’ambientazione dell’Incantatore incompleto è invece qualcos’altro: la cosiddetta «parafisica», ossia il tentativo di razionalizzare la magia e renderla una scienza come tutte le altre. Questo almeno sarebbe il solo modo perché un qualche tipo di magia possa esistere e funzionare nel nostro mondo, dove tutto è ormai ingabbiato nel sistema scientifico e, per essere creduto o credibile, deve potersi spiegare razionalmente, secondo i principi della fisica. Così, in virtù della parafisica, il passaggio tra i due mondi non avviene più per cause sorprendenti o soprannaturali come negli altri romanzi analoghi bensì volontariamente, seguendo regole chiare, precise e verificabili che, per la verità, devono essere ancora in gran parte definite e comprese: tuttavia Reed Chalmers, il superiore del protagonista, ne ha colto i principi generali ed ha appena formulato una sua ipotesi che ha bisogno solo di essere sperimentata.
Secondo queste premesse quindi non solo ci sarebbe il modo di viaggiare tra gli infiniti mondi possibili ma in questi mondi potrebbe persino già esistere la magia: a questo punto però può essere opportuno soffermarsi un momento sul concetto della parafisica.
La parafisica, ovvero la magia scientifica
Questa nuova scienza includerebbe tutte le leggi naturali dei differenti mondi: per questo, ciò che nella nostra realtà si chiama fisica non sarebbe altro che un caso particolare della parafisica; allo stesso modo, negli infiniti mondi paralleli potrebbero esistere leggi diverse dalle leggi della fisica che conosciamo: di conseguenza, se in quel mondo è credenza che la magia esista, la magia esiste davvero, con le sue leggi. Non è dato tuttavia di sapere quale sia la causa e quale la conseguenza, ovvero se la magia esista effettivamente ed allora tutti ci credono oppure se esista solo perché tutti credono che esista: esiste, e questo deve bastare.
L’errore da non compiere, avverte Chalmers, è di usare la parafisica con leggerezza, per evitare ciò che è successo con la metafisica, che secoli di uso scorretto del termine hanno trasformato quasi in un sinonimo di filosofia, «la quale è considerata da alcuni un genere di conoscenza scientifica, da altri un genere di conoscenza al di fuori della scienza e da altri ancora è considerata non scientifica, e dunque non conoscenza». L’ironia di De Camp è sempre in agguato e quando si presenta l’occasione per rifilare una stoccata non se la lascia certo sfuggire: nel leggere quella descrizione infatti mi sono subito tornate alla mente le parole della mia prof del ginnasio che, sempre molto pratica, definiva la filosofia come «quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale».
Ad ogni buon conto, solo l’esperienza diretta e la capacità di comprendere ed adattarsi alle diverse leggi che regolano la magia di mondo in mondo permette di formulare una teoria magica per così dire universale, che però universale non è, dal momento che ciascuna realtà ha poi sfumature o peculiarità proprie che è necessario conoscere prima di poter lanciare qualsiasi incantesimo in quel dato mondo: sbagliare un incantesimo perché se ne ignorano o trascurano i requisiti locali può o non avere alcun esito o addirittura sortire l’effetto opposto a quello sperato.
Si può tuttavia tentare di tratteggiare alcune regole generali, che inizialmente includono la legge della similarità e la legge del contagio. Secondo la prima, gli effetti assomigliano alle cause: «Per noi non ha senso – dice Chalmers nel primo capitolo del primo racconto – ma i popoli primitivi ci credono fermamente. Ad esempio, sono convinti che si possa far piovere versando dell’acqua sul terreno e recitando la formula magica appropriata». Secondo l’altra invece «due cose che siano state a contatto continuano a interagire anche a distanza, dopo essere separate». Si pensi ad esempio alle reliquie. Nel corso delle storie vengono poi aggiunti altri principi, come la magia simpatica (che è analoga alla legge della similarità), la necessità di cantare le formule magiche o esprimerle in versi, l’uso delle lingue arcaiche o, nel caso del nostro mondo, la logica simbolica: in pratica, fogli di carta riempiti di equazioni logiche e simboli matematici.
Così una sera un annoiato Harold Shea, lo psicologo protagonista di tutti i racconti, prova a mettere in pratica i principi enunciati da Chalmers e con l’ausilio di alcuni fogli disposti sul tavolo inizia ad enunciare le formule della logica simbolica che ritiene necessarie per esprimere i postulati di base del mondo nel quale desidera trasferirsi: «Se P è uguale a non-Q, Q implica non-P, il che equivale a dire o P o Q o nessuno dei due, ma non entrambi. Ma se non-P non è implicato da non-Q, la forma controimplicativa della proposizione… Se o P o Q sono entrambi veri o (Q o R) è vero, allora o Q è vero o (P o R) è falso…»
All’inizio però fa un po’ di confusione (a dire il vero non sarà mai perfettamente padrone della magia ma dovrà sempre ricorrere ai maghi dei diversi mondi per gli incantesimi più potenti), perché invece di finire nell’Irlanda leggendaria come voleva si trova catapultato nell’epica norrena. Da qui iniziano le sue avventure, che lo porteranno in altri mondi letterari: il Faerie Queene di Spenser, il Kubla Khan di Coleridge, l’Orlando furioso dell’Ariosto, il Kalevala finnico e finalmente il ciclo dell’Ulster irlandese.
L’incantatore incompleto, parte prima: The Roaring Trumpet
Il primo dei tre romanzi che compongono il ciclo fonde assieme i primi due racconti di Shea: «The Roaring Trumpet» (Unknown, maggio 1940), ambientato nella Scandinavia dell’Edda poetica, e «The Mathematics of Magic» (Unknown, agosto 1940), ambientato invece nel mondo del Faerie Queene di Spenser, un poema di fine Cinquecento ispirato all’Orlando furioso. Il fixup venne pubblicato in volume già l’anno successivo col titolo di «The Incomplete Enchanter» che ha poi dato anche il nome al ciclo.
Com’è nello stile di De Camp, la storia entra subito nel vivo: liquida in un solo capitolo, il primo, gli aspetti importanti ma meno interessanti dell’ambientazione, come definire i principi già illustrati della parafisica ed introdurre i personaggi. Che in questa prima metà del romanzo (quella composta da «The Roaring Trumpet») sono in realtà uno solo: Harold Shea, il protagonista di tutte le avventure, uno psicologo annoiato e godereccio del Garaden Hospital (poi Institute), che si trova da qualche parte nell’Ohio. Quando la storia si apre però Shea è in riunione con altri tre figuri, dei quali pure si fa la conoscenza: si tratta del suo superiore, Reed Chalmers, ideatore dei principi della parafisica, che inizierà ad assumere un ruolo nelle avventure a partire dalla seconda metà di questa storia (quella formata da «The Mathematics of Magic»); di Walter Bayard, un suo collega, che comparirà saltuariamente anche nei romanzi successivi; e di Gertrude Mugler, capo infermiera allo stesso ospedale, che in un primo momento sembrava dover ricoprire un ruolo molto più ampio ed invece scomparirà presto dal ciclo senza lasciare tracce.
Quella sera dunque Shea, dopo essersi preparato uno zaino con tutti gli oggetti utili, si mette a recitare le formule della logica simbolica già viste in precedenza: vorrebbe trasferirsi nell’Irlanda leggendaria di Cuchulainn e della regina Maev ma, dato che non conosce ancora – e men che meno padroneggia – le leggi della magia, finisce invece nella Scandinavia mitologica proprio mentre incombe il Ragnarök, la fine del mondo; o, per dirla con la lingua del posto, finisce per trovarsi «alle ali del mondo, sul confine di Midgard». Non solo vi giunge impreparato (è maggio ma a causa del Fimbulwinter – l’inverno che è preludio alla fine del mondo – c’è la neve alta e lui non è coperto a sufficienza) ma scopre anche che tutti gli oggetti utili che aveva preso con sé – fiammiferi, torcia elettrica, pistola… – qui non funzionano, perché non fanno parte delle leggi fisiche di questo mondo o non sono stati ancora scoperti: per sua fortuna però almeno la lingua si adatta immediatamente a quella locale, che può capire e parlare senza alcuna difficoltà.
Nevica dunque e soffia un vento gelido: Shea rischierebbe di morire assiderato se in quella non passasse a cavallo un Viandante enorme, così enorme che «anche da seduto, i suoi piedi toccavano quasi il suolo»: questi è Odino, che accetta di farsi seguire dal protagonista e lo conduce alla locanda dov’è diretto. Qui si riunisce con altri quattro dei norreni – Thor, Heimdall, Frey e Loki, qui chiamato anche Zio Volpe – con i quali progetta un piano disperato: infatti, delle quattro armi di grande potere possedute dagli dei (Gungnir, la lancia di Odino; Mjöllnir, il martello di Thor; Hundingsbana, la spada di Frey; Head, la spada di Heimdall) due, quelle di Thor e Frey, sono scomparse; si pensa rubate dai giganti. Senza il set completo le possibilità di successo degli dei (e quindi degli uomini) nel Tempo, ossia la fine del mondo imminente, non sono buone: anzi, le probabilità sono tutte a favore dei loro nemici, i giganti.
Scambiato per «uno di quegli sciamani del sud», durante la notte in locanda Shea apprende tutte queste informazioni e si guadagna pure un nomignolo: Harald la rapa, che gli viene affibbiato da Thor quando il nostro si azzarda a chiedere delle verdure invece della carne grassissima che gli è appena stata servita. La prontezza di mente di Shea tuttavia conquista Loki, che l’indomani mattina invita il protagonista ad accompagnare lui e Thor nel loro viaggio nelle terre dei giganti, dove cercheranno Mjöllnir: gli altri andranno invece in cerca della spada di Frey.
Intermezzo: la magia funziona
Lungo il cammino Shea scopre quindi come tutto sia mutevole in un mondo dominato dalla magia: ad esempio, la spedizione trascorre una notte in uno strano edificio senza porta, per scoprire solo l’indomani che era il guanto di un gigante. Ma, sebbene siano molto più grandi di un uomo comune, i giganti non sono così giganteschi: semplicemente, per effetto di un’illusione l’oggetto – se reale – si era dilatato e poi contratto in base alle convinzioni di chi lo vedeva, dato che nella mentalità locale l’eventualità di un simile fatto è nell’ordine delle cose.
Quando la compagnia raggiunge finalmente il castello del gigante Utgardaloki, un rozzo edificio di tronchi grezzi dove si sa che è stato portato il martello rubato, Shea si dimostra utile per la prima volta: gli dei vengono ripetutamente umiliati dal padrone di casa, che usa inganni ed illusioni per batterli in varie competizioni, come la corsa, la lotta, il sollevamento pesi, l’abbuffata di cibo. Per caso però il nostro scopre di poter vedere al di là delle illusioni quando gli lacrimano gli occhi e così, usando un po’ di idromele per irritarsi la vista e procurarsi le preziose lacrime, finalmente individua il martello di Thor: informa quindi il dio della sua locazione, che chiama a sé l’arma e con quella fa scempio dei giganti, che fuggono trascinando Shea con sé. All’aperto, confuso e disorientato, il protagonista viene riconosciuto da alcuni superstiti e catturato: un gruppo di giganti del fuoco lo conduce poi nel Muspelheim, il loro mondo di origine.
Assieme a Shea viene condotto anche Heimdall, che si era travestito da gigante per intrufolarsi nel castello di Utgardaloki ma, al pari del nostro, è stato riconosciuto e preso prigioniero: i due vengono rinchiusi in una cella comune nel castello di Surt, una spelonca sotto un vulcano. Ha qui inizio una lunga parte del romanzo, nel quale Shea e Heimdall hanno modo di familiarizzare e di pianificare la fuga, che include l’inganno e la magia.
Uno dei loro carcerieri è infatti un troll chiamato Snögg, che ha due problemi: il primo è l’amore non corrisposto per una troll di nome Elvagevu; l’altro è la causa del rifiuto di costei: il suo naso sesquipedale, lungo un buon paio di spanne. Shea decide quindi di sfruttare la situazione a suo vantaggio per tentare la fuga: convince il carceriere che con la sua magia può rimpicciolirgli il naso, in cambio di un aiuto ad evadere; il troll ovviamente accetta. A questo punto il nostro deve solo ideare un incantesimo che suoni abbastanza convincente: opta quindi per la legge della similarità e, mentre declama pessimi versi a tema, scioglie sul fuoco un pezzo di cera modellato a forma di naso assieme ad altri ingredienti necessari per creare la suggestione. Per lo stupore di tutti – e suo per primo – il sortilegio riesce: il naso di Snögg diventa improvvisamente non più grande di quello di un uomo.
La gioia del troll è incontenibile, tanto che mantiene la sua parte del patto: non solo libera i due prigionieri ma li conduce anche all’esterno della fortezza. E prima di lasciarli consegna loro due spade: Head, l’arma di Heimdall, e Hundingsbana, la spada di Frey, l’ultima delle armi mancanti, che era custodita da Surt. Con queste i due eroi si difenderanno dagli attacchi dei giganti che si sono messi al loro inseguimento, finché Shea non ha l’idea di incantare una scopa per prendere il volo come le streghe: giunti a distanza di sicurezza, le ramazze vengono poi sostituite dal cavallo di Heimdall, Manto d’Oro, in groppa al quale raggiungono rapidamente Odino, che nel frattempo sta consultando la profetessa sepolta alle porte dell’Inferno, uno scheletro ricoperto di una tunica. Proprio in quel momento però scocca il Tempo (la battaglia della fine del mondo) e la profetessa, riconosciuti gli dei, li scaccia lanciando loro manciate di neve: così facendo, rimanda Shea nel nostro mondo, proprio quando Heimdall ha tratto la prima nota dal suo corno.
L’incantatore incompleto, parte seconda: The Mathematics of Magic
Improvvisamente l’eroe si ritrova nel suo appartamento, nel quale sono riuniti Chalmers, Bayard, Geltrude ed un investigatore privato che i tre avevano ingaggiato per rintracciare lo psicologo scomparso ormai da due settimane. Esaurita la sorpresa e soddisfatta la curiosità, Shea e Chalmers progettano l’avventura successiva che, su suggerimento dell’anziano professore, pochi giorni più tardi li porterà nel mondo del Faerie Queene, un poema inglese di fine Cinquecento ispirato all’Orlando furioso dell’Ariosto: inizia così la seconda parte dell’incantatore incompleto, quella formata dal racconto «The Mathematics of Magic».
Per non dare nell’occhio, prima di partire i due protagonisti si travestono l’uno (Shea) da Robin Hood, l’altro (Chalmers), da palmiere, ovvero pellegrino: Shea si è anche procurato un’arma, il suo fioretto da scherma, al quale ha tolto il salvapunta. Quando giungono nel mondo parallelo, i nostri trovano una situazione già critica: una combriccola di maghi sta minacciando il regno della regina Gloriana ed anche i suoi cavalieri – i Compagni di Gloriana – hanno difficoltà a contenere i progressi degli incantatori ribelli.
Per risolvere la situazione a favore dei buoni, i protagonisti progettano di farsi accettare dai maghi e di sabotarne la consorteria dall’interno: segue quindi l’immancabile viaggio verso l’ignoto (elemento fondamentale di qualsiasi storia d’avventura), lungo il quale Shea e Chalmers fanno diversi incontri, i più rilevanti dei quali sono quelli col «grande» Dolon, un mago effettivamente capace e pericoloso oltre che vicereggente del Capitolo degli Incantatori ribelli, e con una certa Belphebe, un’arciera abile e indipendente che abita nei boschi e cavalca un unicorno, della quale Shea subito si innamora. Per quanto irrilevante dal punto di vista della trama, anche il siparietto con la Bestia Ciarlatrice, «che era la peggiore di tutti e inoltre diffamava la gente», non è male, per il solito umorismo di patata che contraddistingue le opere di De Camp: questo mostro, un rettile di aspetto felino, fa collezione di ogni genere di espressione letteraria in prosa o poesia; come prevedibile, in cambio della vita estorce nuovi versi ai nostri protagonisti, che non trovano niente di meglio che declamare la «Ballata di Eskimo Nell», una canzonetta sconcia in voga ai tempi dell’uscita del racconto.
Raggiunto infine il castello invisibile dell’arcimago Busyrane, capo della consorteria magica, i nostri riescono a farsi accogliere dal Capitolo degli Incantatori riuniti per un convegno, Chalmers come mago, Shea come apprendista: seguono nuove disavventure che hanno il loro culmine alcune notti più tardi, quando quest’ultimo, con l’aiuto di Belphebe dall’esterno, trova il modo di far entrare di nascosto nella fortezza alcuni Compagni di Gloriana, che intrappolano i maghi nella sala delle feste e ne fanno scempio. Nella lotta però scompare l’arciera, catturata da Dolon, l’unico stregone scampato alla carneficina: Shea ne segue le tracce che conducono nelle segrete del castello e, quando lancia l’incantesimo antimaghi che annienta l’antagonista, succede il patatrac.
Lo psicologo aveva infatti già accumulato una forte carica «magicostatica» che il potente sortilegio appena lanciato fa diventare eccessiva, tale da riaprire il sentiero nello spaziotempo extradimensionale che aveva percorso all’andata: in sostanza, viene come espulso da questo mondo o risucchiato nel nostro. Così, mentre Dolon si dissolve in una massa di puzzolente fiamma gialla la cui vampa rischia di travolgere anche Belphebe, Shea allunga la mano per allontanare l’arciera dal pericolo proprio nel momento in cui scatta l’effetto della carica magicostatica, che rigetta Shea nel nostro mondo assieme a Belphebe, perché in quel momento lei era in contatto con la sua mano.
I due si ritrovano nell’appartamento di Shea, dove Bayard e Gertrude stanno leggendo le note lasciate dallo psicologo: Belphebe accetta la proposta di matrimonio dello psicologo e sostiene tutta l’ostilità dell’infermiera, che infatti scomparirà già a cominciare dalla prossima avventura. Chalmers invece aveva già deciso di restare nel mondo del Faerie Queene: per la prima volta in vita sua infatti il sedentario professore cinquantaseienne si è innamorato. La dama con cui adesso fa coppia è una certa Lady Florimel: non proprio lei ma la sua copia perfetta, fatta con la neve da uno stregone, che un ringiovanito Chalmers vuole trovare il modo di trasformare in una donna in carne ed ossa.
Ma questo sarà materiale per il prossimo romanzo.
Il castello d’acciaio
Pubblicato meno di un anno più tardi, il secondo libro del ciclo chiude il trittico di racconti originale: «The Castle of Iron» (Unknown, aprile 1941), pubblicato dapprima su rivista e poi espanso in romanzo nel 1950, nel 1975 è infine confluito nel volume «The Compleat Enchanter» già visto ed è così diventato il secondo romanzo della trilogia.
L’avventura ha luogo qualche tempo dopo la conclusione della precedente: Shea e Belphebe sono felicemente sposati quando quest’ultima scompare durante un picnic aziendale; il marito viene sospettato di averla assassinata nel bosco. Il racconto si apre con l’interrogatorio di Shea da parte di due poliziotti non troppo svegli, Jake («quello con la faccia rossa») e Pete («quello dal naso chiuso»), che hanno già deciso la colpevolezza del protagonista: alla scena sono presenti anche Walter Bayard e Vaclav Polacek, detto «Votsy», il pivello degli psicologi del Garaden Institute, quando le luci della stanza prendono a roteare vorticosamente.
I tre medici e Pete il piedipiatti si trovano così nel cortile di una ricca dimora di aspetto arabeggiante, serviti e coccolati da donne stupende: si tratta di Xanadu, il palazzo del piacere sognato sulla fine del Settecento dal poeta inglese Coleridge mentre era sotto gli effetti dell’oppio, che lo ha poi descritto in una poesia incompleta, il «Kubla Khan». Tutti tranne Pete il poliziotto si lasciano vincere di buon grado dalla lascivia imperante finché poco dopo Shea e Polacek non vengono nuovamente prelevati e trasportati in un’ulteriore altra dimensione, per trovarsi di fronte a Reed Chalmers, vestito di caffettano e turbante, che li ha evocati: sono infatti piombati nel mondo dell’Orlando furioso dell’Ariosto e si trovano nel castello del mago Atlante, quindi dalla parte dei saraceni.
Ha così inizio l’avventura più divertente delle tre che compongono il ciclo: Chalmers confessa subito di essere stato lui ad evocare per errore Belphebe; il suo bersaglio era in realtà Shea, perché ha bisogno del suo aiuto per tentare di trasformare Florimel in donna vera. Anche il successivo trasferimento dei quattro a Xanadu e poi dei soli Shea e Polacek nell’Orlando furioso sono stati causati dalla sua imperizia con la magia. Chalmers spiega quindi di essere ospite del mago Atlante, potente stregone che sta dalla parte dei saraceni, nel suo castello di Carena sui Pirenei: in virtù dell’affinità del mondo del Faerie Queene con quello dell’Orlando furioso (che, come visto, è servito di ispirazione all’opera di Spenser), il professore aveva pensato di avvalersi dell’aiuto di quegli per tentare la trasformazione di Florimel ma, al di là di una cortesia tanto stucchevole quanto fasulla, in realtà Atlante vuole solo apprendere nuovi incantesimi dal professore e soffiargli la bella dama.
A complicare la situazione, Belphebe ha perso la testa: in questa dimensione infatti esiste una certa Belphegor, un personaggio dagli attributi simili a quelli di Belphebe (in pratica, un’arciera che vive nel bosco); perciò quando Belphebe si è materializzata davanti a Chalmers ha dimenticato il suo nome e la sua identità precedenti – inclusi Shea ed il suo matrimonio – ed è scomparsa da qualche parte nei Pirenei, convinta di essere Belphegor.
Come nel poema originale, il castello d’acciaio di Atlante è soprattutto una prigione per trattenere un annoiato Ruggero – la «Perla dell’Oriente», «il perfetto cavaliere e paladino» oltre che il migliore dei guerrieri saraceni (qui presentato come un bullo prepotente tutto muscoli e niente cervello) – e proteggerlo così dalla solita profezia secondo la quale finirebbe per defezionare e passare dalla parte dei Franchi qualora abbandonasse Carena senza che ci sia una qualche guerra da combattere. Superfluo a dirsi, Polacek (che ha un sesto senso per ficcarsi nei guai), suo malgrado mette Ruggero nella condizione di lasciare di soppiatto il castello, destando così l’ira di Atlante, che però offre ai protagonisti la possibilità di redimersi: o gli portano indietro Ruggero oppure Chalmers e Florimel non potranno più lasciare la fortezza. E alle parole fa seguire i fatti: evoca una barriera di fiamme magiche che circonda Carena, attraverso la quale Florimel, «che donna è, e insieme non è», non può ovviamente passare; se ci provasse infatti «non lascerebbe altri ricordi di sé che quello del vapore su di una tazzina di caffè», sottolinea divertito il mago.
La parte che segue (il solito viaggio) è la più articolata della storia: Shea e Polacek partono assieme ma presto decidono di dividersi e così mentre Votsy si caccerà nei guai da sé, Shea invece li troverà. Dapprima infatti si imbatte in un gruppo di paladini guidati dal duca Astolfo che si sono messi sulle tracce di Orlando, già folle (per la famosa storia d’amore tra Angelica e Medoro), e li aiuterà a farlo rinsavire con l’aiuto della psicologia. Poi viene sorpreso da Belphebe/Belphegor, che ovviamente non lo riconosce, e si unisce a lei per andare in cerca di Ruggero: discende così nella Spagna occupata dai Mori e viene subito catturato ma, facendo ricorso alla magia e al sacro terrore degli arabi per gli spiriti (i «jinn»), riesce non solo a fuggire dall’accampamento saraceno su un tappeto volante assieme a Belphebe e al molle poeta guerriero Medoro – che li aiuta perché ha messo gli occhi su quest’ultima – ma anche a rapire l’enorme Ruggero, stordito e poi avvolto in un altro tappeto per tenerlo fermo al risveglio.
Tuttavia nel viaggio di ritorno il nostro si lascia truffare da un eremita e così il gruppetto è costretto a muoversi a piedi. Lungo il cammino i tre si imbattono in un gruppo di cavalieri del quale fanno parte Orlando e Bradamante, che – come da poema – è innamorata Ruggero e lo reclama per sé: prima che la situazione degeneri, su consiglio di Orlando la paladina accetta di scambiare il saraceno con un’impresa eroica (salvare Chalmers e Florimel dal castello di Atlante), che compirà con l’aiuto dell’anello che «sconfigge ogni incantesimo».
Prima del ricongiungimento Shea trae nuovamente da guai Polacek (aveva assunto la forma di un lupo e non era più capace di tornare alla forma umana) e poi combatte con un distaccamento di saraceni guidati da un malevolo Medoro: nella battaglia Belphebe viene ferita a morte ma, mentre giace tra le braccia di Shea, le torna almeno coscienza della sua vera identità e riconosce suo marito. Per loro fortuna, in quella sopraggiunge Astolfo che, da bravo paladino, conosce un po’ di magia curativa (che però parrebbe includere l’intervento di qualche demone) e risana l’arciera: poco dopo arrivano anche Chalmers e Florimel, inseguiti da Atlante, che non solo vuole riprendersi Ruggero ma anche ammazzare tutti i protagonisti per vendicarsi dei guai che gli hanno causato.
Nell’esplosivo finale, per aiutare i nostri Astolfo evoca Merlino («l’onorevole Ambrogio Sylvester Merlino», seguito da una sfilza di titoli accademici) che, vestito di un’impeccabile marsina con cilindro, senza alcuna difficoltà trasforma finalmente Florimel in donna vera e poi scompare in tutta fretta, per tornare al suo club: in quella Atlante perde finalmente la pazienza e attacca Astolfo, visto che le leggi della magia gli impediscono di recar danno a chi fu suo ospite. Così, mentre infuria la battaglia magica tra i due, i nostri – Polacek incluso – si defilano, per tornare nel nostro mondo.
Ma restano ancora da recuperare Walter Bayard e Pete il poliziotto.
Il muro dei serpenti, parte prima: The Wall of Serpents
Anche il terzo ed ultimo romanzo del ciclo è in realtà la fusione di due racconti distinti, nemmeno troppo attinenti l’uno con l’altro, pubblicati una dozzina d’anni dopo l’uscita del nucleo originale: si tratta di «The Wall of Serpents» (Fantasy Fiction, giugno 1953), ambientato nell’epica finnica del Kalevala, e «The Green Magician» (Beyond Fantasy Fiction, novembre 1954), ambientato invece nell’Irlanda leggendaria del cosiddetto «Ciclo dell’Ulster», poi riuniti in volume unico sotto il titolo di «Wall of Serpents» nel 1960 ed infine raccolti nel solito «The Compleat Enchanter» nel 1975.
Questo episodio è anche il più debole dei tre: la parte del Kalevala ricorda piuttosto una sitcom ma nell’insieme si salva e a tratti riesce anche divertente; l’avventura in Irlanda invece è confusionaria e mortalmente noiosa perché è quasi priva della consueta ironia di De Camp. Merita però ricordare che nel primo racconto la destinazione d’elezione di Shea sarebbe stata proprio l’Irlanda: solo per inesperienza infatti si era ritrovato scaraventato in Scandinavia. Con questo nuovo episodio la coppia di autori pare quindi voler recuperare l’ambientazione perduta ma il risultato sa di forzato e formulaico.
Nell’apertura del libro si apprende che Shea e Belphebe sono tornati da una settimana mentre Chalmers e Polacek hanno preferito restare nel mondo dell’Orlando furioso: Walter Bayard e Pete il piedipiatti invece non hanno ancora fatto ritorno dal Kubla Khan. Proprio a causa della scomparsa di quest’ultimo, la coppia è pedinata dalla polizia: Belphebe se n’è accorta e lo ha confidato al marito, che si mette a pensare al modo di far tornare i due esuli dello Xanadu. Escogita così un’escursione nel mondo del Kalevala, epica finlandese che raccoglie canti vecchi anche tremila anni, dove la magia è potente: «Praticamente tutti i tizi importanti del posto sono maghi e poeti», spiega con una certa faciloneria. Così, quando quella sera la polizia fa irruzione in casa, i nostri sono pronti a fuggire nella Finlandia leggendaria.
Qui si imbattono subito in Lemminkäinen, uno dei personaggi più eminenti della saga: questi è un eroe spaccone che, proprio come sospettava Shea, si intende anche di magia. Per convincerlo ad aiutarli a riportare indietro Bayard ed il poliziotto (il cui nome completo, si apprenderà, è Peter Brodsky), i due protagonisti devono accettare di battersi con lui: entrambi lo sconfiggono due volte – Shea in duello con la spada, Belphebe nel tiro con l’arco – e così il «vigoroso Lemminkäinen» si offre di aiutarli, pur proclamando con prosopopea che è sempre lui «l’eroe più grande, perché sono stato il migliore in due contese e ciascuno di voi in una sola».
Ha qui inizio la sitcom in casa Lemminkäinen: come nel Kalevala, anche la madre dell’eroe ha un ruolo importante ed una certa pratica con la magia, che in questa dimensione richiede il canto e l’inclusione di elementi biografici del bersaglio dell’incantesimo. La magia dell’eroe finnico funziona meglio di quanto Shea si aspettasse: infatti evoca Bayard senza alcun problema e, pur con qualche difficoltà in più causata dalle lacune negli elementi biografici del poliziotto, riesce a trasferire anche Brodsky; dopodiché cade a terra esausto ed ha bisogno di riposare per un’intera giornata. Entrambi i nuovi giunti avranno un ruolo nella storia: Brodsky perché è un buon lottatore e si guadagna il rispetto di tutti; Bayard perché rimane incredulo per tutto il tempo e perciò è in grado di vedere al di là delle illusioni, i cui effetti sono reali finché non vengono riconosciute come tali e quindi dissipate.
I nostri si sentono in obbligo di ripagare Lemminkäinen per la sua assistenza ed accettano così di accompagnarlo in un breve viaggio: l’eroe locale vuole infatti vendicarsi del Signore della vicina Pohjola che non lo ha invitato al matrimonio di sua figlia, un brano tratto direttamente dal Kalevala. Lungo la strada Brodsky mostra la sua utilità sconfiggendo nella lotta un campione dei Pohjolani che, come da usanza, diventa suo servo mentre Bayard dissipa l’illusione che dà il titolo al libro: quel muro che taglia loro la strada e sembra fatto di serpenti è in realtà un filare di cespugli di mirtilli selvatici.
Entrati finalmente in Pohjola, Lemminkäinen evoca decine di copie di Shea, Belphebe e Brodsky per farsi accompagnare da un esercito: dopo gli insulti di rito col Signore, lo sfida a duello e lo decapita proprio durante il banchetto di nozze. In quella però l’incredulo Bayard tenta un incantesimo che fallisce malamente e riesce solo a dissipare l’illusione dell’esercito di Lemminkäinen. L’eroe locale si offende e abbandona a se stessi i quattro protagonisti, che così vengono subito catturati dai Pohjolani, giustamente alterati per la morte del loro Signore proprio durante il matrimonio della figlia.
Chiusi in una cella per essere giustiziati al più presto, i nostri riescono a cavarsela grazie al talento lirico di Brodsky: per fuggire dalla prigionia infatti Shea ordina al poliziotto di cantare qualcosa mentre lui stesso compie i necessari gesti magici e Belphebe li accompagna con un’arpa realizzata dalle lische di pesce (un espediente copiato proprio dal Kalevala). Brodsky, il cui cognome tradisce l’origine polacca, è divenuto un esperto di folclore irlandese per farsi accettare dai «ragazzi» (i suoi colleghi: tutti i poliziotti, spiegherà, sono o si fingono irlandesi) e così la prima canzone che gli viene in mente è una ballata irlandese, che di conseguenza li fa piombare tutti nella verde isola del ciclo dell’Ulster.
Il muro dei serpenti, parte seconda: The Green Magician
I tre protagonisti si ritrovano così in Irlanda in un’epoca attorno all’ottavo secolo o forse anche precedente: le basi del ciclo infatti paiono essere molto antiche e potrebbero risalire anche al primo secolo. I protagonisti sono scesi a tre perché Walter Bayard è scomparso nuovamente: non si sa che fine abbia fatto e per l’intero racconto non si fa nemmeno menzione dell’assente. Sarà infatti materiale per uno dei seguiti, «Sir Harold and the Gnome King», pubblicato nel 1990 e poi confluito nel 1992 nella seconda raccolta del ciclo, «The Enchanter Reborn».
Il titolo di quest’ultimo racconto, «The Green Magician», è un gioco di parole: «verde» infatti è l’Irlanda ma «verde» è anche il colore che la lingua inglese associa ai principianti e agli inesperti, proprio come Shea in fatto di magia.
La storia è abbastanza lineare: i nostri incontrano diversi personaggi rilevanti dell’epica, tra cui Cuchulainn, l’eroe principale del ciclo, che aiutano nella disputa con Ailill e Maev, il re e la regina di Connacht. Le conoscenze di Brodsky su tutto ciò che riguarda il folclore locale sono utilissime e tolgono più volte i nostri dai guai: Brodksy infatti non solo conosce le leggende irlandesi ma, come visto nel racconto precedente, è anche un abile lottatore ed un cantante dotato, per cui non tarda a guadagnarsi la stima ed il rispetto di molti capi locali, tanto che verso la fine Cuchulainn lo promuove a «shamus», ossia capo dei suoi guerrieri. Qui Brodsky, «l’irlandese artificiale», è felice: perciò solo a fatica Shea lo convince a tornare e lo fa solo perché ha bisogno della presenza fisica del piedipiatti per scagionarsi di fronte ai suoi colleghi della polizia. Nel finale però, appena rientrato nel nostro mondo, Brodksy confiderà inaspettatamente di non poterne più dell’Irlanda: d’ora in poi asseconderà invece le sue radici polacche.
Prima di fare ritorno a casa però Shea avrà avuto modo di confrontarsi con la magia locale, che si esprime per lo più in «geas» (sorta di tabù, compulsioni, obblighi o proibizioni che però potrebbero essere solo suggestioni mentali) e impone che le formule vengano recitate in una lingua arcaica, e di fare un’escursione nel mondo sotterraneo dei Sidhe, per conto dei quali ammazzerà un mostro acquatico, il sinech, una sorta di Nessie: in cambio del servizio ottiene in prestito dal popolo fatato la spada di Nuada, un’arma magica che nel finale consegna a Cuchulainn perché si difenda dall’imminente attacco dei malvagi Connachta.
Non viene detto come vada a finire la battaglia: ma il riferimento alla profezia alla quale Cuchulainn pensa di poter adesso sfuggire (nell’epica all’eroe era stata profetizzata una vita piena di grandi imprese ma breve) lascia intendere che l’intervento dei nostri abbia in qualche modo evitato che si avverasse.
E così si conclude la trilogia originale dell’Incantatore incompleto, che consiglio di cuore non solo a tutti gli appassionati del genere ma anche a chi cerca una lettura di evasione leggera e divertente: non si può davvero restare delusi.