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H.P. Lovecraft – Il richiamo di Cthulhu

Ancora oggi la pagina più visitata di Libri Pulp è di gran lunga questa classifica dei migliori dieci racconti di Howard Phillips Lovecraft, che compare anche in cima ai risultati dei motori di ricerca: è un vecchio articolo del 2016, uno dei primi che avevo pubblicato sul blog appena inaugurato, scritto sfruttando appunti ancora più vecchi, presi addirittura a mano. Per quanto utili, si tratta di riassunti sintetici, che aiutano a ricordare la trama e i temi principali di ciascun racconto ma non rendono giustizia alle opere, per gustare le quali invece occorre proprio leggere i racconti nella loro interezza, perché Lovecraft sa costruire l’atmosfera e, passo dopo passo, far scendere progressivamente il lettore nell’orrore sino alla terribile rivelazione finale.
Pur così datata, quella classifica non è cambiata da allora e non credo cambierà mai: è già perfetta così com’è. Tuttavia ho deciso di integrarla scrivendo recensioni più approfondite per ciascuno di quei dieci racconti: oggi comincio proprio dal primo, «Il richiamo di Cthulhu» (The Call of Cthulhu, 1928), che serve da introduzione al Mito e ne compendia tutti i temi principali, poi ripresi e approfonditi da Lovecraft stesso e, più tardi, dalle decine di emulatori più o meno capaci.

Come un manuale base
Scritto nel 1926 e pubblicato da Weird Tales nel febbraio 1928, «Il richiamo di Cthulhu» è uno dei racconti più famosi di Lovecraft, tanto che persino il principale gioco di ruolo ispirato al Mito (del 1981) usa lo stesso titolo. La storia riprende alcuni elementi di precedenti racconti dello stesso Lovecraft – in particolare «Dagon» – e li arricchisce con ispirazioni da altri autori, come le opere di Abraham Merritt, Arthur Machen e Clark Ashton Smith, che vengono anche citati esplicitamente nel testo (Smith, col quale Lovecraft teneva una corrispondenza epistolare, ha scritto anche parecchi racconti di atmosfera in parte ricollegabili al Mito, sui quali ho già scritto parecchi articoli, come questa recensione della raccolta «Zothique» e la classifica dei suoi migliori dieci racconti).
Primo racconto in cui compaia Cthulhu o un riferimento al suo nome, «Il richiamo» è una sorta di manuale base per comprendere l’ambientazione: contiene le informazioni essenziali che poi ricorrono pure in altre storie, anche delle decine di emuli che partendo proprio da qui hanno ampliato e a volte anche razionalizzato (fin troppo) il Mito. Ci sono infatti riferimenti alle misteriose montagne della Cina, alla città di Irem nel deserto dell’Arabia, alle rovine megalitiche del Pacifico, ai culti segreti di antichissime divinità: e compaiono anche altri elementi divenuti caratteristici dell’ambientazione, come l’accenno obbligatorio al Necronomicon «dell’arabo pazzo Abdul Alhazred», alle stelle «che devono essere nella giusta posizione» e a quelle due/tre frasi emblematiche ormai indissolubili dal Mito, per non parlare del grande protagonista in persona, lo stesso Cthulhu che, pur morto, veglia in eterno nelle rovine della città di R’lyeh, sommersa nel Pacifico (con tanto di coordinate: è al largo del Cile).
La storia è suddivisa in tre capitoli, che a grandi linee coincidono con i tre grandi avvenimenti presentati dal narratore in un crescendo di rivelazioni e di orrore: nel primo il protagonista riceve l’eredità dello zio appena morto, che include informazioni su strani eventi avvenuti un paio di anni prima, dal primo marzo al 2 aprile 1925, ed inizia ad interessarsene. Nel secondo le conoscenze del protagonista si arricchiscono delle informazioni fornite da un ispettore della polizia di New Orleans, che una ventina di anni prima aveva condotto un’operazione contro gli adepti di un culto sanguinario nelle paludi della Louisiana. E nel terzo arriva la rivelazione che conclude questa storia ma non risolve affatto la minaccia che la accompagna: nel marzo del 1925 un marinaio norvegese, unico sopravvissuto di un intero equipaggio, è sbarcato sull’isola di R’lyeh, ha visto l’orrore che qui aspettava di essere liberato e poi è impazzito.
Come ci si può aspettare, non c’è un briciolo di azione in tutto il racconto, che è solo una narrazione, lenta e piena di mistero, di come il narratore sia venuto a capo di un segreto orribile che pende sull’umanità: è una storia intellettuale, ed infatti l’orrore cosmico di Lovecraft è prima di tutto un orrore dell’intelletto, senza quelle scene cruente o agghiaccianti che solitamente si associano al genere. È la presa di coscienza dell’uomo che comprende di essere solo nell’universo, un niente che non conta nulla, un mero strumento nelle mani di creature così antiche, così potenti, così aliene e così incomprensibili che persino nella morte sono in grado di sussurrare ordini ai seguaci e di far impazzire gli uomini comuni. Ma di questo parlo nella già citata classifica dei suoi migliori racconti e a quell’articolo rimando: ora intendo invece dedicarmi al racconto in sé.

Una morte improvvisa
Tutto ha inizio nell’inverno 1926/27, quando il narratore, Francis Wayland Thurston di Boston, riceve l’eredità dello zio novantaduenne appena morto, George Gammell Angell: la causa ufficiale è arresto cardiaco ma ci sono elementi a sufficienza per sospettare che invece sia stato ucciso da un agente del culto che sta per essere rivelato.
Tra gli averi del morto – che era professore di lingue semitiche – il protagonista rinviene una scatola che lo incuriosisce: quando la apre trova una serie di appunti, ritagli e note su un «culto di Cthulhu» che non gli dicono molto ma sono sufficienti ad accendere la sua curiosità. Soprattutto, lo attrae un piccolo bassorilievo di argilla che ritrae un mostro il cui aspetto è una via di mezzo tra una piovra, un drago ed una caricatura d’uomo: «Una testa molle e tentacolata sormontava un corpo grottesco, scaglioso, con ali rudimentali; ma era l’aspetto complessivo che lo rendeva orribile», dice. La visione è opera di un giovane artista locale, Henry Anthony Wilcox, della cui probità Thurston dubita immediatamente: pensa infatti che l’artista abbia approfittato della sprovvedutezza dello zio per fargli uno scherzo di cattivo gusto.
Secondo gli appunti presi da Angell, l’artista si sarebbe recato da lui il primo marzo 1925 col bassorilievo appena modellato: quella notte infatti qualcosa lo aveva fatto svegliare e lo aveva spinto a realizzare quella figurina. Sempre guidato da una volontà estranea, aveva anche inciso dei geroglifici sull’opera: ed è proprio per decifrare questa iscrizione che l’indomani Wilcox si sarebbe rivolto al professore. Ma si tratta di una lingua sconosciuta, che nemmeno Angell riesce a identificare.
I contatti tra i due proseguono per un altro mese, mentre continuano gli incubi dell’artista, che ogni notte sogna una città di megaliti neri con angoli impossibili ed una voce che modula parole incomprensibili, delle quali solo «Cthulhu» e «R’lyeh» riescono in qualche modo chiare. Nel diario ci sono però due date importanti di cui Angell ha preso nota: la notte del 22/23 marzo, quando Wilcox subisce un crollo mentale e riferisce di aver visto in sogno una creatura gigantesca, che ricorda quella del bassorilievo; ed il 2 aprile, quando ogni traccia dell’esaurimento dell’artista scompare e da quel momento smette di fare sogni spaventosi.
Dagli articoli inclusi nella scatola Thornton apprende che in quello stesso periodo l’inquietudine notturna aveva colpito anche altri nel New England, in particolare artisti e poeti: un architetto addirittura è impazzito e pochi mesi più tardi si è suicidato, per sfuggire ad un demone scappato dall’inferno.
E in quei giorni altri casi di follia inspiegabile hanno colpito il mondo intero.

Il culto viene rivelato
Il racconto si sposta quindi in Louisiana, una ventina di anni prima: nel 1908 ad un convegno della società archeologica americana si era presentato un ispettore della polizia di New Orleans, un certo Legrasse, con una statuina di un idolo dall’aspetto orribile e malvagio che ricorda nell’aspetto quello modellato da Wilcox: l’aveva sequestrata l’anno precedente in una retata che aveva interrotto un sanguinoso rito vudù nel profondo delle paludi. Anche di questi fatti, e della personale indagine dello zio, Thurston trova una relazione nella cassetta, accompagnata dalla descrizione dell’idolo: la statua, alta una ventina di centimetri e scolpita in una pietra sconosciuta di colore verde quasi nero con venature d’oro, raffigura «un mostro dalla forma vagamente antropomorfa ma con una testa di piovra il cui volto era costituito da una massa di tentacoli sensori», con due ali lunghe e strette e i soliti geroglifici incisi sulla base. Sembra ritrarre lo stesso soggetto del bassorilievo di Wilcox.
Legrasse spiega agli studiosi come ne è venuto in possesso: nel novembre del 1907 era stata segnalata la scomparsa di diversi abitanti delle paludi. Intervenuto con una ventina di agenti nel profondo delle paludi, l’ispettore aveva scoperto il luogo in cui un centinaio di indigeni e mezzosangue stavano celebrando un rito che Legrasse ritiene vudù: il punto focale della cerimonia era questa statuetta. Attorno alla radura vengono ritrovati anche tutti gli scomparsi: impiccati e squartati.
Nessuno degli archeologi al convegno riesce a classificare o collocare la statua, che trasuda antichità e malvagità, e tantomeno a decifrare i geroglifici. Tuttavia un certo professor Webb menziona un culto sanguinario che aveva scoperto e studiato quasi cinquant’anni prima in Groenlandia: questi eschimesi veneravano un feticcio che era una brutta copia dell’idolo raffigurato nella statua e nei loro riti cantilenavano una frase incomprensibile di cui però erano distinguibili le parole «Cthulhu», «R’lyeh» e «fhtagn», già udite in sogno da Wilcox.
Grazie alla collaborazione di un certo Castro, uno dei coribanti arrestati nella retata della Louisiana, Legrasse è in grado di far luce su alcuni aspetti del culto ma non su quelli segreti, solo per gli iniziati: la figura rappresenta un certo Cthulhu, il maggiore dei Grandi Antichi, esseri scesi dalle stelle sulla terra con i loro idoli quando ancora l’umanità non esisteva. Morti da milioni di anni, hanno sussurrato in sogno ai primi uomini certi segreti con lo scopo di risvegliarli quando le stelle si sarebbero allineate nella giusta posizione, perché per tornare in vita hanno bisogno di un intervento esterno: ancora oggi possono comunicare con gli uomini perché pur morti rimangono desti nelle loro tombe nella città sommersa di R’lyeh. Si è così formato il culto di Cthulhu, che ha il suo centro nel deserto d’Arabia, dove si trova la città segreta di Irem.
Non è difficile riconoscere il momento del risveglio, spiega Castro, «poiché per allora l’umanità si sarebbe comportata come i Grandi Antichi: libera e senza freni, al di là del bene e del male, con leggi e morale gettate da parte, avrebbe passato il suo tempo a bestemmiare, uccidere e ad abbandonarsi al piacere. I Grandi Antichi, liberati, avrebbero insegnato all’uomo nuove bestemmie, nuovi modi di uccidere e di provare piacere, e tutta la terra sarebbe bruciata in un olocausto di estasi e di licenza».
Thurston avvia un’indagine per conto suo: va a parlare con Wilcox e con Legrasse ma non con Castro, scomparso anni prima, ed inizia a credere che lo zio non sia morto per cause naturali ma sia stato ucciso da appartenenti al culto.

Un disastro evitato per caso
Il rinvenimento accidentale di un articolo sul recupero di una nave pubblicato in un giornale australiano riaccende l’interesse di Thurston, che dopo la sua piccola indagine aveva abbandonato le ricerche: si mette così sulle tracce di quell’unico superstite trovato a bordo mentre stringeva ancora una statua identica a quella prodotta dall’ispettore Legrasse, solo di dimensioni leggermente maggiori.
Corre in Australia, dove scopre che quest’uomo, un norvegese di nome Gustaf Johansen, ha abbandonato la navigazione dopo l’incidente ed è tornato in Norvegia: così lo raggiunge a Oslo, dove scopre che il marinaio è morto da alcuni mesi ma ha lasciato un memoriale che Thurston riesce a farsi consegnare dalla vedova.
In sostanza, il primo marzo 1925 la Emma, la nave a vela su cui Johansen viaggiava, era stata portata fuori rotta da una terribile tempesta che l’aveva condotta molto a sud nel Pacifico. Tre settimane più tardi, il 22 marzo, la Emma aveva incrociato una nave a vapore, la Alert, che le aveva sparato a vista aprendo falle nello scafo: per evitare il naufragio, l’equipaggio della Emma era stato quindi costretto ad abbordare la Alert e nella battaglia che era seguita erano stati uccisi tutti i marinai della Alert, una congerie di mezzosangue ed altri individui poco raccomandabili. Nello scontro era morto il capitano della Emma e così Johansen, il primo ufficiale, aveva assunto il comando della nave catturata, a bordo della quale ha poi rinvenuto la statua di Cthulhu: il lettore è così portato a pensare che l’equipaggio della Alert stesse andando a liberare proprio Cthulhu, che si era risvegliato e aspettava che qualcuno dall’esterno completasse il rituale.
L’indomani, il 23 marzo, gli otto superstiti della Emma avvistano una colonna altissima che pare spuntare dal mare e ai suoi piedi scorgono un’isola non segnata sulle carte, costellata di edifici: scesi a terra tutti quanti, esplorano le rovine di una città megalitica dalla geometria anormale, non euclidea, dagli angoli sbagliati. In qualche modo riescono ad aprire il portale alla base della torre, dal quale esce un’oscurità che inghiotte la luce: ma esce anche una creatura enorme e orribile e malvagia, dal corpo verde viscido, gelatinoso, che subito uccide diversi marinai. I due superstiti – Johansen e un altro che, ormai impazzito, morirà nei giorni successivi – corrono alla nave e riescono ad allontanarsi dall’isola ma l’essere li insegue anche nell’acqua. Si tratta proprio di Cthulhu: il narratore dice infatti che «le stelle erano di nuovo nella giusta posizione e quel che una setta antichissima non era riuscita a fare di proposito, un gruppo di innocenti marinai aveva fatto per caso. Dopo milioni di anni il grande Cthulhu era di nuovo libero e assetato di piacere».
Per sfuggirgli, a Johansen non resta altro da fare che tentare di speronarlo: l’azzardo riesce in parte, al contatto infatti la testa della creatura esplode come una vescica ma subito dopo le diverse parti tornano a riunirsi. A quel punto però la nave ha ormai preso velocità e riesce ad allontanarsi.
Durante la navigazione il compagno di Johansen muore senza che il norvegese, lui pure divenuto folle per aver veduto Cthulhu, se ne accorga: e quando vengono recuperati da una terza nave, la Vigilant, Johansen è ormai uscito di senno e sta abbracciando la statua di Cthulhu. Tornato a casa, Johansen muore poco tempo dopo: colpito da un fascio di carte cadute da una finestra, viene aiutato a rialzarsi da due marinai di colore ma muore prima dell’arrivo dell’ambulanza. Sono circostanze che ricordano quelle in cui era morto lo zio Angell.
Dal contesto si ricava che l’isola era affiorata nella notte tra il 28 febbraio ed il primo marzo, causando la tempesta che ha portato fuori rotta la Emma, ed è tornata ad inabissarsi il 2 aprile (il giorno in cui Wilcox è tornato savio) e che quindi da quel giorno le stelle non sono più nella giusta posizione, ma non è escluso che in futuro torneranno ad esserlo. Non viene detto nemmeno se quella creatura fosse davvero Cthulhu, anche se tutto lo lascia credere: anche se all’apparenza è stato battuto facilmente occorre considerare che era stato sì liberato ma probabilmente il rituale non era stato ancora terminato e, pur sconfitto nella circostanza, ha subito iniziato a rigenerarsi. Se non ha ancora devastato il mondo è solo perché probabilmente è dovuto tornare a R’lyeh a guarire le ferite o ad attendere la conclusione del rituale: e la città è sprofondata nuovamente prima che qualcun altro potesse farlo.
Quindi il mondo deve a Johansen e all’equipaggio della Emma la sua riconoscenza perché, senza saperlo, lo hanno salvato da Cthulhu: ma la prossima volta potremmo non essere così fortunati.
Nel finale non è scritto ma lo dice la nota introduttiva del racconto: lo stesso Thurston è morto e l’intero racconto è stato trovato tra le sue carte. Non è difficile immaginare che anche lui, come lo zio e Johansen, sia stato ucciso dai cultisti perché sa troppo e ha ostacolato i loro piani.

Un mistero nascosto nella quotidianità
Il fascino del «Richiamo di Cthulhu» sta nella sua semplicità, nel presentare una situazione comune, che potrebbe accadere a chiunque, come ricevere l’eredità di un parente, dietro la quale però si cela un segreto terribile: il mistero infatti è nascosto nella quotidianità, lo abbiamo davanti agli occhi ogni giorno ma non lo vediamo perché, come ripeteva un mio vecchio professore di università quando ci mostrava i piccoli tesori sconosciuti dell’arte rinascimentale, vediamo solo quello che conosciamo.
Il narratore stesso scopre l’esistenza di Cthulhu e del suo culto solo per caso e all’inizio nemmeno vuole crederci: è solo dopo una serie di coincidenze e di notizie all’apparenza scollegate che però si spiegano a vicenda che inizia ad aprire gli occhi, a interessarsene e ad indagare, sino a finirci dentro così a fondo che ci lascia anche le penne. L’aspetto curioso è che lo stesso schema si adatta alla perfezione ai nostri tempi moderni: infatti molti di quelli che con una certa condiscendenza vengono liquidati come complotti acquistano consistenza quando si approfondiscono e si mettono in relazione l’uno con l’altro. Basta vedere quello che stanno facendo col covid e gli strati di menzogne che si inventano ogni giorno per metterci gli uni contro gli altri e così giustificare l’instaurazione di una tirannia: eppure basterebbe un po’ di ricerca personale e un pizzico di buon senso per aprire gli occhi e squarciare il velo della propaganda.
Tornando all’argomento dell’articolo, il meccanismo della quotidianità e degli eventi senza apparente significato che però sono carichi di informazioni per l’iniziato – o anche solo l’informato – ha anche un altro effetto: attrae l’attenzione del lettore, che è incuriosito e solleticato dal senso di mistero che pian piano si rivela, e così lo tiene incollato alla lettura. Lovecraft infatti collega la storia e quindi il Mito al mondo reale ed in questo modo li fa diventare uno dei tanti misteri della nostra storia o, nel nostro caso, della preistoria, di un passato di cui abbiamo forse dei fossili ma soprattutto ipotesi: e così può giocare col lettore tenendosi in equilibrio tra realtà e fantasia, che si mescolano, ed intanto scrivere una storia che è sicuramente di fantasia ma, chissà, potrebbe anche esserci del vero…
Certo Lovecraft si attiene ad una delle regole fondamentali dell’orrore: mai mostrare il mostro, anche se lo mette in campo giusto nel finale, quando il lettore ormai non ce la fa più ad incamerare informazioni e ha bisogno di dare finalmente un’occhiata a questo Cthulhu. Un’occhiata rapidissima che però ottiene il risultato voluto: spaventare il lettore e riempirlo di orrore. Ma è un orrore diverso da quello al quale ci ha abituati il cinema, più violento e sanguinoso: l’orrore del racconto è infatti prima di tutto intellettuale, gioca con la mente del lettore e lo mette, come si è già detto, in situazioni comuni che sono però cariche di terrore, di minaccia, di conseguenze inimmaginabili. L’uomo, che si ritiene l’apice della creazione, si scopre all’improvviso più piccolo e insignificante di una formica, uno strumento dominato da creature più grandi e potenti di lui, così aliene che non potrà mai capirle ma dovrà sempre eseguirne i desideri, nella speranza che non si risveglino mai.
E questa minaccia incombente, questi eterni cinque minuti alla mezzanotte, sono l’orrore ultimo, ciò che dovrebbe atterrire l’uomo, perché con la rivelazione dell’esistenza di Cthulhu e compagni ha appena scoperto di non essere altro che una pedina.

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