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Robert Silverberg – La civiltà degli Eccelsi

Da bambino volevo diventare archeologo: poi ho preso altre strade ma mi è rimasta l’attrazione per il passato, per la storia e per il mistero rappresentato da un gruppo di rovine e dai suoi antichi abitanti. Così, mentre si sviluppava parallela la mia passione per la fantascienza, mi sono presto trovato attratto anche da quel suo filone marginale che riguarda l’archeologia spaziale, con i resti di antiche razze aliene scomparse dalla notte dei tempi, le loro meraviglie tecnologiche incomprensibili ed ovviamente i BDO, quei manufatti colossali che paiono non avere altra utilità che incuriosire – «affascinare» sarebbe forse più corretto – quell’umanità alla quale non erano destinati: in sostanza il nucleo dello scorrevole romanzo «La civiltà degli Eccelsi» di Robert Silverberg (Across A Billion Years, 1969), una delle opere più significative di un sottogenere non troppo affollato.

Un romanzo epistolare
Opera minore di un autore maggiore che ha scritto molto e di qualità, «La civiltà degli Eccelsi» è uscito nel 1969, con diverse ristampe in inglese, l’ultima delle quali risale al 2013 ed è ancora facilmente reperibile: tradotto anche in italiano, da noi però ha ricevuto un’unica edizione, nel 1981, grazie alla scomparsa Editrice Nord (la vecchia Nord, intendo, quella che ha fatto tanto per gli appassionati).
Prima di parlare della trama merita tuttavia spendere alcune parole sulla struttura del libro, che è singolare per un romanzo di fantascienza: sono infatti le lettere che il protagonista, un apprendista archeologo ventiduenne di nome Tom, manda alla sorella gemella Lorie, paralitica sin dalla nascita ma telepatica, per aggiornarla sui progressi della spedizione di cui fa parte, la più importante mai condotta sugli Eccelsi del titolo, un’antica e avanzatissima razza aliena scomparsa da un miliardo di anni i cui primi resti sono stati scoperti solo una decina di anni prima.
Tom sa che Lorie non potrà leggere – meglio, ascoltare: sono «cubi di registrazione» – le lettere finché non avrà fatto ritorno a casa ma dettandole sente di tenere vivo il legame con la sorella, alla quale è affezionatissimo: e così intanto ci aggiorna sugli sviluppi della spedizione, che ottiene un successo inaspettato. Perché non solo scova nuovi manufatti nelle rovine che stava esplorando ma grazie a questi ritrovamenti può anche lanciarsi in un’eccitante esplorazione della galassia che in meno di un anno porterà alla scoperta del pianeta natale degli Eccelsi (ora trasformato in una sfera di Dyson, il BDO per eccellenza), delle macchine prodigiose e funzionanti che ancora contiene e che cambieranno la galassia, e persino degli ultimi alieni superstiti, poche migliaia di creature ridotte a vegetali che i loro robot servizievoli tengono cocciutamente in vita.

Sic transit gloria mundi
Proprio il contrasto tra la grandezza di un tempo e la miseria di oggi è la grande rivelazione della storia ed il cardine attorno al quale ruota tutta la trama, che trae spunto da un sonetto del poeta inglese Shelley (marito dell’autrice del «Frankenstein», tanto per restare in tema di fantascienza), ispirato a sua volta – pare – da una statua del faraone Ramsete II: o meglio, dai resti di una sua statua e dall’iscrizione oggi scomparsa che l’avrebbe accompagnata, tramandata dallo storiografo greco Diodoro Siculo. Nella poesia di Shelley c’è infatti un riferimento alla grandezza di cui il superbo «Ozymandias, re dei re» è consapevole e sulla quale il monarca richiama orgogliosamente l’attenzione del viandante: ma l’antica statua è ormai spezzata dal tempo e giace semisepolta nel deserto. Così l’imperioso «guarda la mia opera, o potente, e dispera!» ancora inciso sul moncherino del piedistallo finisce per suonare ironico: perché di quella magnificenza non rimane letteralmente altro che deserto e rovine, manifestazione concreta della «hybris» da tragedia greca.
Lo stesso contrappasso è accaduto agli Eccelsi del titolo (High Ones nell’originale inglese, Mirt Korp Ahm nella loro lingua fittizia), che sono stati grandissimi un miliardo di anni fa, che hanno avuto una società avanzatissima e stabilissima per altre centinaia di milioni di anni ma che oggi sono scomparsi, e con loro ne è scomparso persino il ricordo: quella loro grandezza adesso è ridotta a pochi gruppi di rovine sepolte da strati di terra accumulatisi nei millenni di abbandono e a oggetti disparati di cui nessuno riesce a comprendere la funzione. E qui al lettore italiano che abbia un’infarinatura scolastica di letteratura ottocentesca non può non venire in mente un’eco del Cinque maggio manzoniano, scritto pochi anni dopo l’Ozymandias, laddove l’autore pone al lettore una domanda retorica solo per condurlo alla conclusione che dietro ogni opera, per quanto grandiosa, c’è sempre l’intervento del «Massimo Fattor».
Nel libro di Silverberg tuttavia non viene detto se gli Eccelsi fossero orgogliosi o presuntuosi come il faraone del sonetto né tantomeno se fossero lo strumento adoperato da un’entità superiore per portare avanti il proprio progetto: la storia si limita a mostrare il grandioso passato ed il presente miserevole e lascia ogni considerazione al lettore.
Anche perché nel finale Silverberg ha ormai perso interesse per questo concetto ed è già passato ad un’altra idea.

Telepatia e irenismo galattico
Parallela alla storia archeologica principale scorre infatti una sottotrama legata alla telepatia, che da alcune centinaia di anni (siamo verso la fine del ventiquattresimo secolo) si manifesta sin dalla nascita in alcuni umani ma mai negli alieni: la telepatia è l’unico modo per trasmettere rapidamente le informazioni nella galassia, dal momento che entrambe le alternative – spedizione sul postale oppure messaggio radio – sono molto più lente e possono impiegare mesi o anche anni.
Così si è costituita una rete commerciale di comunicazione telepatica simile all’antico telegrafo, cioè con stazioni intermedie che ricevono i diversi messaggi e li instradano via via verso il destinatario, al quale giungono poche ore dopo l’invio: ovviamente è un servizio costosissimo al quale si ricorre solo quando la velocità è essenziale. Lorie, la sorella paralitica del protagonista, è telepatica e pur bloccata a letto fa parte della rete di comunicazione galattica, una sorta di stazione intermedia di smistamento della corrispondenza: tutti provano pietà per la ragazza che però, da quanto si ricava dalle lettere del fratello, non si sente una disabile, perché ha la possibilità di essere in contatto costante con migliaia di altri telepati e di condividere con loro le loro menti ed esperienze in una maniera che chi non è telepatico non può nemmeno immaginare. In altre parole, emergerà, i veri invalidi sono i non telepati.
Solo alla fine si capisce il significato di questa fusione delle menti, quando la storia tradisce l’epoca in cui è stata scritta (la fine degli anni Sessanta, con la psichedelia, l’energia cosmica e tutte quelle cose lì) e si srotola in un irenismo pangalattico così smielato da far venire la nausea.
L’epilogo infatti spiazza, perché prende tutta un’altra strada rispetto a quella che era stata la trama fino a quel momento: passa cioè dall’archeologia all’universalismo per concludere che la telepatia, ossia il modo di aprire completamente la mente all’altro e di condividere con gli altri ogni pensiero e ricordo, è l’unico modo per assicurare non solo la pace duratura nella galassia ma anche la comprensione reciproca e la comunione totale sia tra le specie sia tra i singoli individui.
Ciò che ispira questa trasformazione è la scoperta degli «amplificatori del pensiero» trovati in gran quantità su Mirt, il pianeta degli Eccelsi, che all’improvviso rendono la telepatia accessibile a tutti, alieni inclusi. Scrive infatti Silverberg nelle ultime pagine del libro: «Ed ecco la fine della segretezza e del sospetto, dell’incomprensione, dei litigi, dell’isolamento, della comunicazione approssimativa, della separazione. Quando gli amplificatori entreranno in funzione, ognuno potrà essere in contatto con gli altri, all’istante, oltre l’abisso di mezzo universo, se necessario, e raggiungeremo la comunione totale delle anime. Ciò che è stata la ristretta e speciale cerchia di poche migliaia di telepati si aprirà adesso a tutti, e nulla sarà mai più come una volta».
Decisamente un prodotto del suo tempo. Ed un finale che guasta un bel libro.

Una razza misteriosa
Per ingannare la noia di un lungo viaggio in iperspazio e mantenere vivo un senso di contatto con la sorella gemella, paralitica e telepatica, il giovane apprendista archeologo Tom Rice inizia a dettare lunghe lettere indirizzate alla ragazza, che però potrà ascoltarle (sono «cubi di registrazione», sorta di messaggi vocali) solo al suo ritorno sulla terra, un paio di anni più tardi. Così Tom ha tutto il tempo di dilungarsi sullo scopo della spedizione di cui fa parte e di presentare frammenti di notizie sui suoi dieci compagni di viaggio, tutti archeologi: la loro destinazione è Higby V, un pianeta senza importanza sul quale però da pochi anni (siamo nel 2375) è stato rinvenuto il più importante sito archeologico degli scomparsi Eccelsi, una razza avanzatissima che aveva dominato la galassia un miliardo di anni fa e poi all’improvviso è scomparsa senza lasciare traccia. Tanto che solo recentemente se ne è scoperta l’esistenza, in seguito al rinvenimento di gruppi di rovine su una manciata di pianeti, a cominciare da Marte: la missione di questa spedizione è proprio scavare il sito che pare più promettente per scoprire qualcosa di più concreto su questo popolo misterioso.
I compagni di viaggio di Tom sono altri quattro umani (tra cui Jan, un’apprendista archeologa come lui per metà svedese e per metà di una razza aliena compatibile), cinque alieni in rappresentanza di altrettante razze (dal contesto si intuisce che non esistono né sospetti né ostilità né altri problemi di coesistenza tra le varie specie della galassia) ed un’androide, donna di aspetto (da qui il femminile) ma asessuata come tutti gli uomini sintetici.
La spedizione si traduce presto in un successo persino superiore alle migliori aspettative: durante gli scavi infatti Tom rinviene una specie di sfera che, una volta attivata, proietta diverse scene di vita quotidiana degli Eccelsi, sei alla volta. Soprattutto, mostra uno spezzone che sarà fondamentale per il progresso della trama: su vede un gruppo di alieni che, appena atterrato su un asteroide, ordina ad un gruppo di robot di scavare una caverna e di riempirla poi di macchinari favolosi. Uno dei robot viene quindi lasciato a guardia della caverna, che infine viene sigillata. Dalle immagini sono riconoscibili stelle e costellazioni, sia pure di centinaia di milioni di anni fa: così con l’aiuto di un osservatorio contattato mediante il locale ufficio di comunicazione telepatica (un’operazione che prosciuga rapidamente i fondi già stanziati per i due anni di scavi) i nostri scovano il sistema in cui si trova quell’asteroide. È l’occasione che stavano cercando, anche se non è proprio la missione di cui erano stati incaricati: così, dilapidando anche gli ultimi spiccioli, gli archeologi noleggiano un’astronave e si lanciano sulle tracce degli Eccelsi.

Come una caccia al tesoro
Dopo alcuni falsi allarmi, finalmente i nostri scendono sull’asteroide corretto, individuano la caverna e ne abbattono la porta: ma il laser posto a guardia della sala disintegra uno di loro, uno degli alieni, che per l’eccitazione (era proprio lo specialista in «paleotecnologia») si era lanciato all’interno della caverna non appena la porta era caduta.
Assieme al laser si attiva anche il robot posto a guardia dell’installazione (quel robot, quello già visto nel filmato): temendone le intenzioni, gli archeologi decidono di consegnargli la sfera degli Eccelsi, che l’automa leva in aria e contempla immobile per giorni. Finalmente torna a svolgere le sue attività e qualche tempo dopo riesce anche a comunicare con la spedizione in un anglico essenziale: ma sollecita l’immissione di sempre nuove parole, finché non sviluppa un vocabolario che giudica sufficiente per conversare con i nostri. Così, cadute le barriere linguistiche, la missione diventa una scampagnata.
Il robot (che dice di chiamarsi Dihn Ruuu, «macchina per servire») spiega che non ha notizie recenti degli Eccelsi, il cui pianeta natale sembra essere pure scomparso dalla galassia: tuttavia si offre di guidare la spedizione su un altro pianeta degli Eccelsi, che sa essere ancora abitato e tenuto in efficienza dai robot.
Già l’arrivo della spedizione nella città indicata da Dihn Ruuu sul quarto pianeta del sistema di McBurney è un evento mozzafiato per gli archeologi, perché qui tutto è ancora perfettamente operativo grazie alla continua manutenzione da parte dei robot, ai quali gli Eccelsi prima di andarsene – appena tredici milioni di anni fa – avevano ordinato di tenere tutto efficiente nel caso di un loro ritorno. Con le nuove informazioni raccolte sul posto, Dihn Ruuu è in grado di informare i nostri che gli Eccelsi sono ancora vivi e che Mirt, il loro pianeta natale, non è scomparso: è solo invisibile, perché è stato racchiuso in un’enorme sfera di Dyson, un guscio enorme che racchiude le orbite di interi pianeti e raccoglie tutta l’energia prodotta dal loro sole, evitando sprechi, nonché uno dei feticci prediletti della fantascienza.
Il robot sa dove si trova e si offre di guidarli sul posto.

Incontro con gli Eccelsi
La loro nave non è attrezzata per un viaggio di quasi ottanta anni luce ma per loro fortuna dopo alcune settimane di permanenza nella città disabitata arriva una nave militare, mandata dalla Centrale galattica per arrestare gli archeologi, giudicati colpevoli di malversazione: tuttavia il capospedizione riesce a dimostrare che l’arresto sarebbe illegittimo e convince il comandante della nave a condurli al sistema di Mirt.
Ormai il lettore sa che ad ogni pagina deve aspettarsi qualcosa di ancora più grandioso di quello che ha letto fino a quel punto ed infatti l’arrivo della nave al guscio che racchiude gli ultimi Eccelsi toglie il fiato, quando viene detto che la sfera «a una distanza di dieci minuti luce dà l’impressione di riempire metà del cielo: è un enorme disco buio dal diametro più grande dell’intera orbita terrestre».
Ottenuti i permessi di ingresso, la nave viene fatta entrare attraverso un portellone che «doveva avere le dimensioni dell’intero Ohio». Al suo interno, «al centro di tutto c’era il sole, bianco, non più grande di quello della Terra, i cui raggi danzavano e si rifrangevano sulla fantastica distesa della superficie interna della sfera. Un’unica città gigantesca ricopriva tale superficie».
Grazie all’intercessione di Dihn Ruuu, anche su Mirt gli archeologi vengono accolti e serviti dai robot: su richiesta esplicita, vengono anche condotti al cospetto degli ultimi Eccelsi. Con una rivelazione sorprendente.
A questo punto il lettore dovrebbe aver ormai intuito che c’è qualcosa che non va con gli alieni, dal momento che sinora non se ne è visto nemmeno uno in carne ed ossa. Ed infatti gli ultimi quattromila Eccelsi ancora vivi lo sono solo tecnicamente: sono vecchi, vecchissimi, ridotti ormai a vegetali tenuti in vita con le macchine; e anche un sondaggio mentale condotto su alcuni di loro dal telepate dell’astronave militare conferma che le menti degli Eccelsi sono piatte, morte. Risuonano così ancora una volta le parole dell’Ozymandias di Shelley, il sonetto che già era affiorato altre volte nel corso del romanzo.
Ma il libro non è ancora finito. Su Mirt l’umanità e le altre razze della galassia hanno trovato una miniera di conoscenze inimmaginabili, per non parlare dei macchinari ancora funzionanti che possono essere studiati e copiati: va da sé che si prepara un cambiamento radicale della vita e delle abitudini di ogni individuo, a qualunque razza appartenga. Ma nessun cambiamento può nemmeno avvicinarsi a quello definitivo costituito dagli «amplificatori di pensiero» trovati e provati casualmente da Tom, che rendono immediatamente telepatico chiunque li indossi, anche le razze aliene, incapaci sino a questo momento di sviluppare la telepatia.
Così una nuova era di pace e prosperità galattica – ma anche di disumanizzazione – è appena cominciata.

Un libro che sarebbe migliore senza il finale
Lasciando da parte il finale, che stona col resto della storia, «La civiltà degli Eccelsi» è un buon libro: scorrevole e appassionante per trama e stile ma anche affascinante come sono tutte le storie che trattano i misteri del passato. La narrazione in prima persona non infastidisce affatto, probabilmente proprio perché ha la forma di un romanzo epistolare: si tratta di lettere, quindi con frequenti divagazioni su aspetti non direttamente collegati alla trama principale, che in questo modo alleggeriscono l’insistenza sull’«io» che diventa semplicemente il narratore e non il protagonista. Dal contesto infatti Tom – il protagonista appunto – riesce simpatico e solo leggermente saccente, dal momento che è quasi sempre lui a fare le scoperte importanti e ad avere ragione quando formula idee o spiegazioni su quello che ha appena riportato alla luce: ma almeno lo fa con garbo e senza la tipica supponenza che solitamente trasuda dall’uso narrativo della prima persona.
Oltre al contrasto già osservato tra la grandezza del passato e la miseria del presente, e accanto al sottotema della telepatia come chiave per la pace universale che sboccia nel finale, di cui pure già si è detto, nel libro si può notare un terzo filone appena accennato: una sorta di commento alla natura umana, che per definizione non è mai soddisfatta, tanto che persino un robot, il servizievole Dihn Ruuu, può constatare che «i Mirt Korp Ahm sanno accontentarsi quando raggiungono la perfezione, in qualsiasi impresa. Voi sareste capaci di voler migliorare la perfezione stessa». Ed infatti poco dopo Tom paragona gli Eccelsi ad una supercivilità di supertartarughe, che non appena hanno messo fuori la testa l’hanno anche subito ritratta: in altre parole, quando hanno raggiunto l’apice della loro civiltà si sono fermati senza più cambiare nulla per centinaia di milioni di anni. E proprio come le tartarughe si sono persino costruiti un guscio tutt’intorno, la sfera di Dyson.
Gli umani invece, si ricava dal contesto, sono così irrequieti che sono persino capaci di gettarsi a capofitto in un’impresa improbabile, e mai nemmeno ipotizzata prima, come inseguire le tracce di un’antica razza solo in virtù di pochi indizi, solo perché «sono là», come l’Everest di Mallory. Ma questa è una sottotrama appena accennata, che si riesce a cogliere solo se la si vuole vedere.
Come accennato in apertura, il libro si inserisce in un settore poco affollato della fantascienza qual è appunto quello dell’archeologia spaziale: almeno lo era in passato, dato che nell’ultimo ventennio la lacuna è stata colmata da diverse saghe che però, come tutte le opere recenti, riescono poco attraenti. Sono invece preferibili i classici del genere, tra i quali vanno sicuramente ricordati «Incontro con Rama» di Clarke (Rendezvous With Rama, 1973) e la saga degli Heechee di Pohl (il primo, Gateway, è del 1977), che trae parecchi spunti dal questo libro: ma occorre menzionare anche il bel racconto «Omnilingue» di Piper (Omningual, 1957), che può essere considerato l’iniziatore del genere.
Ma siccome occorre iniziare da qualche parte, «La civiltà degli Eccelsi» è senza dubbio il miglior punto di partenza, soprattutto per scoprire questo affascinante sottogenere della fantascienza.

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