Nella pletora di cloni di Conan spuntati sin dagli anni Trenta ed esplosi soprattutto negli anni Sessanta sulla scia della riscoperta dell’eroe simbolo di un genere, uno in particolare si distingue dagli altri: il barbaro Brak, personaggio creato nei primi anni Sessanta da John Jakes, che ne ha fatto il protagonista di una dozzina di gradevoli avventure di sword and sorcery. Nulla che non si sia già visto altrove, sia chiaro: ma nell’insieme Brak riesce abbastanza originale da spiccare tra gli altri «clonan», come si può apprezzare già nella prima antologia, «Brak the Barbarian» (1968).
Oh no, ancora un altro barbaro!
Nato nel 1963 sulla rivista Fantastic, dove poi sono apparsi quasi tutti i racconti successivi, Brak è come detto il protagonista di una dozzina di avventure raccolte in cinque volumi, l’ultimo dei quali è uscito nel 1980: nell’articolo che segue parlo del primo di questi libri, «Brak the Barbarian» del 1968, che contiene le sue prime cinque storie in ordine cronologico e non di pubblicazione. Solo pochi racconti del ciclo – quattro, se non me ne è sfuggito nessuno – sono stati tradotti in italiano, e sono tutti successivi a questi cinque.
Come l’eroe al quale è ispirato, anche Brak è un barbaro. Proviene dalle distese ghiacciate all’estremo nord di un vastissimo continente: esiliato per empietà dalla sua tribù perché rifiuta di riconoscere l’esistenza degli dei, è diretto a sud, verso la lontana e calda Khurdisan, riguardo alla quale ha sentito fantastiche notizie. Lungo la strada – che deve essere molto lunga – vive diverse avventure in perfetto stile sword and sorcery: lotta cioè prima di tutto per mettersi in salvo dai pericoli o per trarre un profitto personale a brevissimo termine e non per fare del bene, anche se poi nella trama le due cose finiscono per fondersi. È infatti un individualista che finisce sempre per fare la cosa giusta.
Oltre al fisico statuario obbligatorio e all’abbronzatura da surfista californiano, Brak si distingue per altre due caratteristiche peculiari: ha i capelli biondi lunghi, che tiene uniti in una lunga treccia sballonzolante; e non indossa mai alcun indumento a parte una pelle di leone che gli cinge i fianchi per pudicizia. Quindi, proprio così, questo significa che gira pure scalzo.
Combatte con una spada lunga ed è incline a perdere il controllo in battaglia: ha un suo senso della giustizia che si distingue da quello tendenzialmente cavalleresco degli anni Trenta, per cui non si fa problemi a consegnare l’aguzzina ai suoi ormai ex prigionieri né a piantare una spada in pieno petto all’avversario che lo attacca, anche quando si tratta di una donna armata solo di pugnale. Tuttavia rimane fedele alla parola data anche quando disprezza il contraente e sa di non potersene fidare: tradire questo rapporto di fiducia però lo libera moralmente da qualsiasi impegno preso.
Anche le sue avventure sono abbastanza tipiche del genere: mettono sempre l’eroe in una situazione imprevista che lo costringe a lottare per venirne fuori, in genere con poco più o addirittura meno di quello che già possedeva all’inizio. La sua meta è Khurdisan ed il denaro, che si guadagna col lavoro manuale (ma sempre fuori scena), gli serve solo per soddisfare le necessità immediate, come mangiare o comprarsi un cavallo, che solitamente è costretto a rimpiazzare da un’avventura all’altra.
Brandelli di teologia
Ogni mondo di fantasia che si rispetti pullula sempre di dei e deucoli, per lo più indifferenti alle cose umane, con l’eccezione di alcune divinità particolarmente malvagie che invece si interessano parecchio di quello che accade nel mondo: il più crudele di tutti però, come spiega un sacerdote nel primo racconto di questa raccolta, rimane l’uomo stesso, «e ancora non riesco a decidere se sia un dio o una bestia».
Il mondo di Brak non fa differenza: ogni reame ha i suoi deucci ma il più potente di tutti, l’unico il cui culto valichi i confini, è il Dio Senza Nome, tendenzialmente buono (quindi indifferente), in conflitto perpetuo col malvagio Yob-Haggoth, che invece è assimilabile ad un demone. E in questo manicheismo si compendia tutta la teologia dell’ambientazione: perché nelle storie di Brak la religione è poco più di un espediente narrativo utile per sfornare alcune buone trame ma senza perdersi in troppe disquisizioni dottrinali.
Nonostante la sua trascendenza, il Dio Senza Nome ha un suo culto ben diffuso che prende il nome non dal dio ma dal suo profeta, il capraio Nestoriamus: ed infatti i fedeli di questa religione sono chiamati «nestoriani», anche se non hanno nulla a che spartire con il nestorianesimo, la dottrina ereticale della chiesa primitiva; ciononostante si possono trovare alcuni punti di contatto: ad esempio, il simbolo della fede è una croce greca (quella con i bracci di pari lunghezza).
I sacerdoti nestoriani sono benvisti da tutti – perché solitamente si danno da fare per il benessere della loro comunità – e sono anche sempre disposti ad aiutare Brak, che in cambio a volte li sostiene nella loro lotta contro i seguaci di Yob-Haggoth, come il mago Septegundus, sommo sacerdote del demone, nel quale Brak si imbatte già nel primo racconto: Septegundus è chiaramente il favorito del dio perché non appena si trova nei guai Yob-Haggoth interviene violentemente in suo soccorso, anche se alla fine l’abilità di Brak (e, ovviamente, la sua fortuna: non ci sarebbero eroi se non potessero contare su generose dosi di fortuna) salva il barbaro ed i suoi alleati e costringe Septegundus ad una indecorosa ritirata, con promessa di una vendetta futura che però non si concretizza mai.
La raccolta e i suoi cinque racconti
Le storie di Brak non hanno alcun merito letterario: sono puro intrattenimento. Godibili dalla prima all’ultima riga, seguono solitamente la stessa struttura: la narrazione parte lentamente e poi pian piano accelera per preparare il lettore ad un’improvvisa esplosione di azione, quasi come un vortice che gira intorno al proprio centro e si fa via via sempre più veloce man mano che la corrente si avvicina al nucleo. In un certo senso ricordano il football americano, dove l’azione vera e propria dura pochi secondi e tutto il resto è preparazione a quella breve scarica di adrenalina: e Brak è il fullback che, aggrappato alla palla, sfonda la linea dei difensori e va in meta tirandosi dietro metà squadra avversaria.
Il mondo in cui l’eroe si muove è abbastanza tipico della sword and sorcery, con un’abbondanza di mistero, pericolo e avventura: solo di personaggi c’è parsimonia, ridotti sempre ad un cast essenziale ma adeguato a tenere in piedi la trama. E quando Jakes si azzarda ad inserirne uno più del necessario (come nel quinto racconto) la storia si inceppa e avanza con fatica finché l’autore non decide di disfarsi del superfluo.
Le stesse situazioni in cui Brak si caccia sono abbastanza comuni al genere ed includono le classiche rovine da esplorare, l’immancabile prigionia da cui fuggire, la spaventosa magia nera da cui difendersi: come ci si può aspettare infatti la magia è sì presente ma non è troppo comune ed è riservata a pochi stregoni che ne fanno uso per sortilegi di una certa consistenza e parecchia malvagità, certo non per animare giusto una scopa e farle fare le pulizie di casa, circostanze più consone all’high fantasy.
Le cinque storie di questa raccolta sono armonizzate tra loro in una sorta di successione temporale, con poche righe di raccordo nelle prime o ultime pagine di ciascun racconto, per dare un’idea del tempo trascorso tra un’avventura e l’altra e delle attività che Brak ha svolto nel frattempo. Solo due di questi racconti, «The Courts of the Conjurer» e «Ghosts of Stone» erano già apparsi al di fuori di questo volume, sotto titoli diversi: «The Silk of Shaitan» e «The Pillars of Chambalor», pubblicate su Fantastic nell’aprile e nel marzo 1965.
1) The Unspeakable Shrine
Il primo dei cinque racconti del volume introduce il personaggio e tratteggia l’ambientazione. In sostanza Brak è un barbaro cacciato dal suo popolo per blasfemia o empietà verso gli dei: ha deciso di andare a sud per raggiungere la calda e favolosa Khurdisan di cui ha sentito parlare. Già si intuisce che lungo la strada è destinato a fare mille incontri e vivere mille avventure: la prima è nella città di Kambda Kai sulle pianure di ghiaccio, la prima località abitata che incontri al margine del deserto ghiacciato da cui proviene.
Appena entrato in città viene subito catturato da bambinetti demoniaci privi di occhi (sostituiti da pietre preziose) e con le punte delle dita d’argento, dalle quali spruzzano droga o qualche sostanza soporifera: Brak tenta di mettersi in salvo ma viene tradito da una splendida donna che appare dal nulla e sembra volerlo aiutare, ma in realtà il suo compito è solo di distrarlo e facilitare così la cattura da parte dei piccoli diavoli.
Questa splendida donna, dalla pelle bianchissima e dagli occhi e dai capelli neri che si fondono col nero della veste, è infatti Ariane, la figlia del signore della città, un mago piuttosto capace: la sua malvagità è tale che si è guadagnata il significativo epiteto di «Figlia dell’inferno». Né lei né il padre sono di questo mondo ma sono demoni o spiriti o creature soprannaturali che abitano un corpo umano.
Brak è stato scelto per un sacrificio che avverrà all’alba: due volte all’anno il padre di Ariane, il negromante Septegundus, sacrifica tre persone al suo dio, il demone Yob-Haggoth, che in cambio gli dona il prolungamento della vita: i tre sacrificati devono essere un fedele di Yob-Haggoth, un infedele ed uno straniero. Brak è lo straniero: gli altri due prescelti sono Tyresias, un vecchio bardo al quale Ariane stessa molti anni prima ha strappato gli occhi in cambio del successo, e fra Jerome, un prete dell’odiato Dio Senza Nome, la cui fede è nota come nestorianesimo, dal nome del suo profeta, un capraio di nome Nestoriamus; il suo simbolo è una croce greca.
Imprigionato assieme agli altri due nel ventre dell’enorme idolo che rappresenta il dio davanti al quale verranno sacrificati al sorgere del sole, quella notte Brak apprende tutto quello che c’è da sapere sui due compagni di sventura: fra Jerome in particolare gli racconta la storia del suo Dio Senza Nome e di Yob-Haggoth, che sono sempre in guerra tra loro, in un manicheismo perfetto. Questi sono anche i due dei principali dell’ambientazione perché a differenza delle altre divinità, i cui culti non escono mai dai confini di una città o di uno staterello, il Dio Senza Nome e Yob-Haggoth raccolgono masse di fedeli in tutto il mondo: ma mentre il dio nestoriano, pur benevolo, si fa i fatti suoi e non interviene mai nelle cose terrene, Yob-Haggoth è invece molto attivo nella vita quotidiana degli uomini e privilegia i malvagi.
Mentre è ancora rinchiuso in cella con i suoi compagni, Brak viene rapito da Ariane, che ovviamente si è invaghita del possente barbaro e lo porta con sé nel suo cocchio volante: proprio come il diavolo, gli mostra il mondo, Khurdisan inclusa, e gli promette che gli darà tutto quello che desidera (e quindi lo salverà dal sacrificio) in cambio solo della sua anima. Ma l’eroe resiste alla tentazione e rifiuta: tuttavia Ariane è così innamorata di lui che gli dona un pendente che gli permetterà di chiamarla davanti a sé in qualunque momento, se dovesse cambiare idea. E questo è un elemento essenziale per i fatti che verranno.
Arriva così il momento del sacrificio: e finalmente appare anche Septegundus, che è uno spettacolo raccapricciante. Ha gli occhi completamente neri, privi di bianco, ed è senza palpebre, che sono state asportate chirurgicamente: inoltre la sua pelle è in continuo movimento, come se appena sotto l’epidermide migliaia di piccole creature umanoidi si contorcessero sotto tortura. Dopo gli scambi di insulti rituali, a Brak si presenta l’occasione di ribellarsi e non se la lascia sfuggire: afferra una spada (anzi: la sua spada, che era necessaria per il rito) e uccide schiere di bambini demoniaci per liberarsi e raggiungere Septegundus. Ma il negromante è così legato a Yob-Haggoth che, non appena Brak inizia a combattere, dalla statua partono fulmini e fumo e pioggia di serpenti e ragni e rane e altri segni dell’ira del dio, tutti scagliati contro il nostro.
Tuttavia alla fine Brak uccide o sconfigge Yob-Haggoth, la cui statua iniziava ad animarsi, colpendone quell’unico punto debole che aveva adocchiato già all’inizio: ma ormai è esausto dal combattimento e così si trova alla mercè di Septegundus, che invece sta finendo di incantare il pugnale sacrificale, sospeso a mezz’aria davanti a sé. Quando lo fa scattare, il pugnale si dirige velocissimo al petto di Brak ma l’eroe, come per riflesso, tocca il medaglione di Ariane, che immediatamente compare davanti a lui: così il pugnale colpisce lei alle spalle e la uccide. Poi Brak crolla a terra per sfinimento mentre Septegundus prende in braccio il corpo della figlia e promette vendetta: una vendetta di cui però non c’è traccia in tutto il libro e nei racconti successivi. La statua del dio intanto, la più grande che esisteva al mondo, cade a pezzi.
Quando l’indomani Brak si risveglia è già stato curato da Jerome e Tyresias e decide di riprendere il cammino.
Storia godibilissima anche se la parte centrale è un po’ lenta e tende a trascinarsi.
2) Flame-Face
Dopo aver lavorato per alcuni mesi ed aver guadagnato abbastanza per comprarsi un cavallo, Brak è sceso ancora a sud: ma presto viene catturato per aver violato un’oasi privata della principessa Vian, che tempo prima ha usurpato il trono della città di Toct, si ritiene uccidendo lo zio Uzhiram, del quale però non è mai stato trovato il corpo.
Quando il racconto si apre, Brak è già schiavo nelle miniere della città, da cinquanta giorni: ma finalmente una notte riesce a spezzare un anello della catena che gli lega le caviglie (le braccia sono libere) e si prepara a tentare la sorte l’indomani mattina. Tuttavia il suo compagno di cella, che si professava suo amico, lo tradisce e in cambio della grazia avvisa le guardie: quando arrivano per sostituire la catena, esplode la violenza di Brak, che fa uno scempio dei carcerieri. Nella fuga, apre le porte di diverse celle e presto riesce a provocare la ribellione di tutti gli schiavi. Costretto a scendere nelle profondità delle miniere dall’arrivo dei rinforzi, sulla strada trova il suo delatore, che vorrebbe uccidere ma assieme precipitano in un pozzo non più usato: così Brak non ha più bisogno di vendicarsi, perché nella caduta il suo ex compagno di cella si è rotto l’osso del collo.
Il protagonista si trova adesso in una vasta caverna. Mentre si guarda attorno il suo sguardo viene attirato da un uomo la cui faccia è in fiamme ma non il resto del corpo: è il tormento eterno dell’ex sovrano Uzhiram, dal quale la principessa Vian trae il suo potere, oltre che piacere. Proprio in quel momento l’usurpatrice si sta godendo lo spettacolo assieme ad alcuni cortigiani: Brak avvia quindi una costruttiva chiacchierata con la donna, tanto splendida quanto malvagia, ma viene interrotto dall’arrivo del Doomdog, una creatura temuta da tutti i prigionieri che vive nelle profondità delle miniere. Il mostro, che ha sei zampe ed una testa grande tre volte un uomo, è attirato dall’odore del sangue dei carcerieri di cui Brak è ancora ricoperto: nella lotta che segue il barbaro uccide abbastanza agevolmente il Doomdog, che morendo cade nella fornace e si trascina dietro il corpo di Uzhiram, condannando così Vian a perdere il potere, sia simbolico sia reale.
Compresa la situazione, i cortigiani fuggono proprio mentre arrivano i prigionieri, che hanno avuto ragione delle guardie e riconquistato la libertà: Vian si getta ai piedi di Brak e gli chiede di ucciderla per pietà ma quegli rifiuta, perché occorre che la giustizia sia servita da chi ha sofferto a causa dei suoi capricci.
E così la raccoglie da terra, si avvicina al gruppo dei prigionieri e consegna loro l’ormai ex principessa.
Buon racconto, molto howardiano, ma inferiore rispetto al precedente.
3) The Courts of the Conjurer
Liberata Toct e trascorsovi del tempo da eroe, Brak riprende il cammino verso Khurdisan, che lo porta a valicare un passo di montagna: ma nell’ascesa incontra dei banditi, che uccidono il suo compagno (un monaco di Nestoriamus incontrato per strada) e appendono l’eroe ad un albero per i pollici.
Viene trovato quasi morto dal signore di quelle terre, un certo Tazim detto il Signore dell’Aratro perché è interessato più all’agricoltura che alla guerra (ed infatti nemmeno dispone di un esercito), che sta percorrendo la stessa strada per condurre la figlia Jardine a Kopt, che si trova dall’altra parte del passo: qui sposerà un certo Omer, il signore di quelle terre. Tazim ha scelto questa strada anziché l’altra, più lunga e sicura, per riaffermare la sua signoria sul passo nonostante la presenza dei banditi.
Tazim dunque soccorre Brak e gli offre l’opportunità di vendicarsi quando tre inviati dei banditi obbligano il gruppo a presentarsi dal loro capo, un mago di nome Ankhma Ra, che possiede due oggetti portentosi. Il primo è una palla di tessuto, la Seta di Shaitan, che strappa il cuore degli uomini con cui viene in contatto, anche breve, e lo tramuta in pietra: lo stregone, che manipola il tessuto indossando guanti di metallo, dà una dimostrazione del suo potere gettando la seta sulla spaventatissima guardia del corpo di Tazim e poi ne getta il cuore impietrito su un alto cumulo di altri cuori pietrificati che sorge accanto al suo trono.
Il secondo è il Fangfish, un ibrido mostruoso dal corpo di pesce sottile e lunghissimo, dal quale spuntano brevi arti simili alle zampe anteriori delle rane, e una testa enorme con una bocca così grande che può inghiottire un uomo intero: questa creatura, resa ancora più spaventosa dalle zanne lunghe quanto è alto un uomo che le spuntano dalla bocca, vive in uno stagnetto luminoso e senza fondo nel giardino antistante la sala del trono del mago.
Tazim si presenta dunque alla fortezza dei banditi con la figlia Jardine, la guardia del corpo (che sin dalla sua apparizione puzza già di morto: si capisce che è lì per qualcosa di raccapricciante) e Brak, mascherato da servitore per non destare sospetti. Ankhma Ra è sorprendentemente ragionevole: è disposto a lasciarli andare tutti e tre in cambio delle casse che contengono la dote della figlia, di cui i suoi uomini già si sono impossessati. Tuttavia il mago offre loro del tempo per pensarci su e, siccome è notte, offre loro anche delle stanze per riposare: non li rinchiude nemmeno ma li lascia liberi di muoversi a piacere.
Nell’appartamento Brak accetta quindi la richiesta di Tazim di assassinare il mago: ma quando spunta nel giardino con la vasca del Fangfish, apparentemente deserto, viene aggredito da tre guardie che lo attaccano all’improvviso, come se lo stessero aspettando. Nella lotta cade nello stagnetto e riesce a mettersi in salvo dal suo abitatore ma, proprio mentre sta per uscire dall’acqua, si trova davanti lo stregone che maneggia la Seta di Shaitan e, crudelmente, gli schiaccia pure la mano sinistra sotto lo stivale: con la destra libera però Brak riesce ad afferrare la spada, che gli era caduta poco distante, e con un fendente uccide Ankhma Ra, che cade nello stagno assieme alla Seta e viene subito divorato dal Fangfish.
Ma non è ancora finita: il barbaro riesce finalmente ad uscire dall’acqua e sta riprendendo fiato quando viene pugnalato alle spalle da Jardine, la figlia di Tazim. La ragazza, che ha un cuore malvagio ed è affascinata dal potere e dalle ricchezze di Ankhma Ra, preferiva infatti la compagnia del mago ormai morto a quella dei suoi accompagnatori e soprattutto del futuro marito, che disprezza: era stata proprio lei a informare il bandito del piano di ucciderlo e così il loro ospite aveva allertato le sue guardie.
Così, quando la ragazza si scaglia nuovamente contro Brak, il barbaro non può fare altro che difendersi, piantando la spada nel petto della ragazza; poi ne getta il corpo al Fangfish, per evitare che suo padre veda che razza di mostro era diventata. Ma Tazim ha assistito all’intera scena nell’ombra e si chiude nel dolore prima di tornare al suo regno, mentre Brak riprende la via del sud verso Khurdisan.
Il racconto non è niente di particolare: tuttavia prima di finire in questo volume con lievi aggiustamenti era già stato pubblicato su Fantastic nell’aprile 1965 sotto un altro titolo, «The Silk of Shaitan».
4) Ghosts of Stone
Nel suo viaggio verso Khurdisan Brak decide di prendere la via più breve e di passare attraverso un pericoloso deserto nonostante gli avvertimenti dei locali: ed infatti quando il racconto si apre si è appena messo in salvo da una tempesta di sabbia nella quale è morto il suo cavallo. Scopre così di essere giunto presso le rovine di Chambalor, un’antica città dalla pessima reputazione dalla quale pure lo hanno messo in guardia: lo attira soprattutto un lungo viale ai cui lati sorgono decine di colonne enormi, alte almeno ducento metri ciascuna e spesse la metà. Deciso ad esplorare le rovine, il barbaro inizia a scendere la duna su cui si trova ma, mentre passa accanto a quella che crede essere una pietra, il sasso si anima e lo afferra con un tentacolo: è un T’muk, una sorta di grosso ragno del deserto, con tentacoli e zampe in sovrabbondanza, un predatore che si credeva estinto. Solo a fatica Brak riesce a liberarsi ma nella lotta uno schizzo dell’icore che è il sangue della creatura lo colpisce alla guancia e lo infetta: si tratta di un veleno micidiale, che uccide dopo una mezza giornata o anche più di delirio.
Per sua fortuna però viene salvato da una coppia di viandanti che stanno giusto passando da quelle parti: sono il malvagio Zama Khan, mendicante professionista ma anche mago ed erborista, e la sua delicata figlia Dareet, che disapprova la condotta disonesta del padre. Zama Khan infatti ha appena rubato le Tavolette di Juhad, incise nell’argilla, con le quali ha in mente di saccheggiare il tesoro della città maledetta: nell’antichità Chambalor fu la capitale di un potente regno di nequizie e perversione i cui sovrani accumularono ricchezze inimmaginabili. Il vero signore dell’impero però era un mago chiamato Septegundus: lo stesso Septegundus già incontrato da Brak nel primo racconto, il sacerdote del dio Yob-Haggoth.
Si dice che un giorno il re di Chambalor decise di farla finita con Septegundus e lo pugnalò al petto: ma in quello stesso istante il mago si tramutò in vento e maledisse la città. In un solo istante tutti i suoi abitanti vennero condannati ad un’eternità di tormento, pietrificati nelle colonne che sorgono ai lati del viale: ed infatti quando i tre si avvicinano alle rovine possono vedere che ogni colonna è istoriata con fitti bassorilievi che raffigurano uomini e donne di ogni classe sociale impegnati in attività di ogni genere, per lo più malvagie. Tutte le figure però condividono la stessa espressione di tormento: ed infatti a Brak ricordano i simulacri umani che aveva visto contorcersi incessantemente sotto la pelle di Septegundus quando lo aveva incontrato per la prima volta a Kambda Kai, diversi mesi prima,
Sulle tavolette di Juhad – un assistente del mago – sarebbe scritto come spezzare l’incantesimo che protegge le ricchezze della città: e Zama Khan ambisce a impadronirsene. Ma sa anche che difficilmente riuscirà a spingere via le pesanti porte della camera del tesoro, così offre un patto a Brak: la cura contro il veleno, che solo lui sa come preparare, in cambio dei suoi muscoli per aprire il cancello. Anche se a Brak il vecchio non piace e non si fida di lui, accetta l’offerta, che rispetterà per il suo senso barbarico dell’onore.
Così in fondo al viale, dopo aver contato una settantina di colonne titaniche per lato, giungono ad una scala che scende sottoterra e si apre in un’ampia sala vuota: solo una spessa porta li divide ormai dalla camera del tesoro. Brak onora la sua parte del patto spalancando, non senza fatica, la pesante barriera: ma un attimo dopo Dareet gli grida un avvertimento, perché il padre lo sta per pugnalare alle spalle. Brak si difende e con un solo fendente uccide il malvagio Zama Khan, che nell’altra mano teneva ancora le Tavolette di Juhad. Queste cadendo si frantumano e così, con un lampo ed un tremore, spezzano l’incantesimo che era stato lanciato da Septegundus: l’anticamera inizia a crollare e, con un’esplosione, del tesoro non rimane più traccia.
Brak e Dareet cercano di mettersi in salvo ma la scala da cui sono scesi è bloccata dal T’muk già incontrato da Brak il giorno prima, che era fuggito quando le cose si erano messe male per lui: il barbaro sa che non può permettersi di essere colpito dall’icore della creatura perché Zama Khan è morto e solo lui sapeva preparare l’antidoto al suo veleno, quindi uccide la creatura da una certa distanza, scagliandole addosso la spada come una lancia.
Riesce così a fuggire caricandosi addosso Dareet, che nel frattempo è mancata per il lezzo prodotto dal ragno alla sua morte: e una volta all’esterno il barbaro scopre che adesso le colonne titaniche sono spoglie, prive dei bassorilievi tormentati che aveva notato prima.
Come tutte le storie che parlano di rovine maledette e tesori perduti il racconto non è affatto male: anche questo era già stato pubblicato su Fantastic sotto un altro titolo («The Pillars of Chambalor», marzo 1965) prima di finire in questo volume, con lievi aggiustamenti per armonizzarlo con la cronologia.
5) The Barge of Souls
Racconto lunghissimo, articolatissimo e abbastanza stupido, o per lo meno senza troppo senso. Nel suo viaggio verso meridione Brak è giunto ai margini di un campo di battaglia, dove l’esercito di Phrixos ha combattuto e sconfitto gli uomini pelosi di Gat, sorta di subumani scimmieschi, che sono stati quasi sterminati ma hanno fatto scempio dei molto più organizzati locali. Accampatosi tra i cadaveri per la notte, l’eroe trova uno splendido scudo d’oro ornato con quello che deve essere lo stemma della dea locale, la Dama con le Corna: raffigura infatti una donna con due corni sulla fronte che regge una cornucopia in una mano ed un fulmine nell’altra; un pugnale le pende sul petto da una catenella. Quella notte il barbaro viene svegliato da un lamento: è il fantasma di una donna bellissima che cerca l’amato e crede di averlo trovato in Brak; ma l’eroe è lesto a sottrarsi all’abbraccio perché comprende che se lo spirito lo toccasse potrebbe ucciderlo.
Con lo scudo portato bene in evidenza, l’indomani Brak si inoltra nel paese di Phrixos: infatti gli è stato detto che per raggiungere Khurdisan deve superare il Fiume Splendente, che scorre proprio per quelle terre. Per strada lo scudo attira ovviamente l’attenzione dei locali: e così la mattina dopo viene catturato nel sonno da un gruppo di guerrieri che aveva già incrociato la sera precedente.
Sono le truppe del malvagio signorotto Hel, che vuole usare il barbaro come figurante per diventare re: Brak infatti assomiglia al principe Nicor, il consorte della regina Joenna, morta sul campo di battaglia. Il fantasma che il barbaro aveva visto due notti prima era proprio quello della sovrana che cercava il marito, pure morto in battaglia: ma del suo corpo non c’è traccia.
A Joenna succederà la sorella minore Rhea: ma le usanze del paese vogliono che la successione in linea diretta sia possibile solo se i corpi dei sovrani trapassati vengono mandati oltre il «Velo Oscuro», un banco di nebbia permanente che si trova molto a valle del Fiume Splendente, oltre il quale si ritiene esserci il paradiso. Ora, siccome il corpo di Nicor non si trova, non è più tanto sicuro che Rhea diventi regina: in questo caso saranno i chierici e gli astrologi del regno a determinare con i loro calcoli chi sarà il sovrano. Ma Hel, che si è appena fidanzato con Rhea, non vuole lasciarsi sfuggire l’occasione di diventare re: perciò pensa di sfruttare la somiglianza di Brak con lo scomparso principe per riempire il vuoto ed assicurarsi così la successione in linea diretta, e quindi il suo futuro.
Ciò che non viene detto se non alla fine è che è stato proprio Hel ad uccidere Nicor nella battaglia con i subumani di Gat e a farne scomparire il corpo: e come prova incriminante, sulla sua spada è rimasta una macchia di sangue che non riesce a ripulire in nessun modo, nella quale è ancora racchiuso il fantasma – o l’energia vitale – del principe, elemento chiave per gli eventi che verranno.
Subito dopo la facile cattura di Brak avviene anche la cosa più stupida di un racconto già traballante: Hel, che viene dipinto privo di scrupoli (a differenza di Rhea, che invece è dolce, gentile e compassionevole), non uccide Brak ma si limita a drogarlo con una sostanza che lo stordisce e lo paralizza per giorni. Perché mai si prenda il disturbo di lasciarlo in vita invece di toglierlo di mezzo come aveva già fatto con Nicor ed eliminare così ogni rischio che il suo trucco venga scoperto non viene detto: non nel contesto della trama almeno, dato che sono ovvie le ragioni per cui Jakes abbia fatto questo scelta. Ma rimane una decisione senza senso, sufficiente per spezzare l’immersione e rovinare la storia.
Quando Brak si risveglia, molto tempo più tardi, si ritrova disteso su una barca accanto al cadavere di Joenna e rivestito di gioielli e abiti finissimi: è ancora mezzo paralizzato ma capisce di essere imbarcato per il viaggio oltre il Velo Oscuro. A bordo dell’imbarcazione si trovano tutti i notabili del regno, inclusa Rhea, che di nascosto gli spiega la situazione e come mai si è risvegliato così presto (è riuscita a ripulire l’ago con la droga prima dell’ultima iniezione): vuole infatti permettergli di fuggire non appena la barca sarà entrata nella nebbia perché non è giusto che paghi con la vita per una questione che non lo riguarda.
Ma più tardi, quando l’eroe scorge Hel che, assieme agli altri notabili, si prepara a lasciare la barca trasbordando su un’altra più piccola, Brak perde il controllo e – al diavolo la finzione! – inizia a menare fendenti a destra e a manca. Ad un certo punto si risveglia anche il fantasma di Joenna, che credendolo ancora l’amato Nicor, avvinghia l’eroe e gli succhia via la vita: ma proprio quando sembra ormai spacciato, Brak viene salvato suo malgrado da Hel, che non vede il fantasma e pianta la spada in pancia al barbaro. O meglio, crede di farlo, perché per raggiungerlo l’arma deve prima passare attraverso Joenna, che continua ad essere invisibile per tutti tranne Brak. Così, quando la macchia di sangue tocca il fantasma, la spada si ferma: lo spirito della regina defunta ha infatti riconosciuto in quella macchia di sangue che non veniva via tutto ciò che rimane del suo amato.
Ricongiuntasi così col marito, il fantasma scompare e Brak può finalmente pensare a salvare la pelle. Per prima cosa uccide Hel, poi proprio all’ultimo momento abbandona la barca condannata assieme a Rhea: il banco di nebbia perenne infatti nasconde il tratto finale del fiume, che precipita nelle viscere della terra in una cascata senza fondo dopo essere passato per uno stretto canalone. Con lo scudo di Nicor sulle spalle e la regina sotto il braccio, Brak si lancia fuori bordo e piomba su una cengia dalla quale poi con una scalata raggiunge la superficie.
In seguito per mesi lavorerà in una cava in una terra distante da Phrixos per garantire il ritorno a casa da regina di Rhea, alla quale deve la vita per aver ripulito quell’ultimo ago ed averlo informato di ciò che stava accadendo: col denaro così guadagnato fa infatti risistemare lo scudo d’oro di Nicor e lo fa ridipingere, sostituendo il volto generico della dea con quello di Rhea. In questo modo lo fa passare per un dono della Dama con le Corna, che così mostrerebbe la sua volontà: nell’inganno ordito da Brak, la dea avrebbe fatto tornare Rhea dalla terra dei morti col perduto scudo di Nicor – risorto per vendicarsi del proprio assassino (alcuni abitanti avevano visto il combattimento di Brak negli ultimi tratti di fiume prima della nebbia) – come segno perché vuole che sia lei a governare il suo regno. Rhea accetta il regalo ma vorrebbe anche che il barbaro tornasse con lei a Phrixos, per governare assieme. Ma lui rifiuta, non perché non sia innamorato della giovane e bella regina ma perché non vede l’ora di raggiungere Khurdisan.
La storia non ha molto senso e si regge su troppe incongruità ed implausibilità (una per tutte: perché Hel non uccide subito Brak invece di drogarlo?) per essere godibile: sa di fantasy generico per adolescenti, perché non ha nulla di ciò che aveva reso così avvincenti i racconti precedenti. A questa critica si aggiunge un pizzico di disappunto: dopo le minacce di vendetta scagliate da Septegundus alla fine di «The Unspeakable Shrine», del mago non c’è più traccia per il resto del libro, a parte una citazione in «Ghosts of Stone»: eppure quel finale faceva pensare ad una resa dei conti, o almeno ad un altro scontro diretto tra i due, che invece non ci sarà mai.
Aggiornamento: le avventure di Brak proseguono nel romanzo «Sangue di strega» (Witch Of The Four Winds, 1963; anche: Brak Versus The Sorceress, 1969), che ho recensito qui.
Il terzo volume della serie è invece «Brak the Barbarian Versus the Mark of the Demons» (1969), un altro romanzo, che ho recensito qui.
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