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Gary K. Wolf – Boston 2010: XXI Supercoppa

Quando un libro si intitola «Killerbowl» non lascia troppo spazio ai dubbi: da un lato infatti si coglie subito il richiamo al Superbowl e agli altri «bowl» che rappresentano le finali dei vari campionati di football americano, lo sport violento per eccellenza; dall’altro quel «killer» che lo definisce elimina ogni equivoco sui contenuti e sulle modalità di svolgimento di questa partita. Ed infatti il bel libro d’esordio di Gary K. Wolf (l’ideatore, alcuni anni più tardi, di Roger Rabbit) tratta proprio del football su strada, lo sport violento, anzi mortale, che nel futuro prossimo degli anni Settanta – ormai il nostro recente passato – soppianterà il football tradizionale: purtroppo queste sottigliezze si perdono nel titolo dell’edizione italiana, che col più sobrio «Boston 2010: XXI Supercoppa» rende l’idea del contesto ma perde tutti gli impliciti.

Il 1975, l’anno dello sport violento
Pubblicato nel 1975, lo stesso anno in cui al cinema sono usciti Rollerball e Death Race 2000 (due film che parlano di sport violentissimi), il libro è un tipico prodotto del pessimismo dell’epoca: mescola infatti violenza, atmosfere cupe e degrado sociale e ambientale in una specie di distopia in cui l’uomo capace è impotente contro i potenti, il cittadino medio un decerebrato che vive di televisione ed il governo corrotto, controllato dalle grandi aziende, ancora più corrotte del governo. In pratica, l’autore aveva già previsto la nostra epoca con quarant’anni d’anticipo, con l’aggiunta di una spolverata di droghe sintetiche.
Al di là della storia, che è abbastanza prevedibile, il libro brilla proprio per le idee: prevede infatti l’ascesa del football nei gusti dei telespettatori (all’epoca il baseball resisteva ancora come «passatempo nazionale» degli americani) con ascolti che, grazie agli estremi permessi dal nuovo sport, arrivano all’ottanta per cento dei telespettatori. Tutto il mondo del football su strada, la sua quasi assenza di regole, il potere sconfinato della televisione, che ha la facoltà di sfollare interi quartieri per permettere lo svolgimento delle interminabili partite lunghe ventiquattro ore, solleticano la fantasia del lettore e fanno da complemento all’idea di fondo delle «megacorp» malvagie e onnipotenti, che possono disporre della popolazione come vogliono, come una risorsa da manipolare e spendere a piacere, un concetto che girava già da qualche tempo – si veda ad esempio «I mercanti dello spazio» di Pohl e Kornbluth che ho recensito recentemente – e che pochi anni più tardi sarebbe stato sequestrato dal cyberpunk.
Il libro mostra anche la competenza dell’autore in materia di football: non solo prevede l’ascesa di questo sport nei gusti degli americani e la sua progressiva colonizzazione da parte della televisione, che oggigiorno ne detta persino le regole per armonizzarle con le pause per la pubblicità, ma sa anche anticipare quali sarebbero state due delle squadre simbolo dei successivi quarant’anni, ossia i San Francisco 49ers (quelli di Joe Montana, che hanno caratterizzato gli anni Ottanta) ed i New England Patriots, che invece sono la squadra più vincente dell’ultimo ventennio.
Per ovvie ragioni Wolf cambia tuttavia i nomi delle squadre protagoniste della storia, che però mantengono la loro collocazione geografica e rimangono facilmente riconoscibili: i 49ers diventano i Prospectors (ossia chi compie ricerche minerarie: il riferimento alla corsa all’oro del 1848/49 è salvo) mentre i Patriots si trasformano nei Minutemen (che è il nome dei miliziani della rivoluzione americana: pronti in un minuto).

Lo sport del futuro: il football su strada
Wolf si è impegnato parecchio per inventare le regole del football su strada e creare un contesto adatto: riesce così a rendere credibile il suo nuovo sport e ad evitare che tutto si riduca ad una zuffa all’arma bianca o si trascini in una serie di azioni insensate solo per giustificare le ventiquattro ore di una partita quando, appunto, basterebbe una pugnalata per far fuori un avversario e guadagnare la superiorità numerica.
Così tutti i giocatori indossano delle armature, che non sono paragonabili né a quelle indossate dai giocatori del football tradizionale né a quelle dei guerrieri medievali ma che prendono ispirazione da entrambe. Le prime pagine del libro sono dedicate proprio a mostrare la vestizione del protagonista, il qb dei Prospectors, e gli strati di protezioni che indossa, dal nastro di alluminio flessibile a prova di penetrazione steso sopra le arterie, le giunture e la gola; alle coperture a lamelle di plastica specifiche per le diverse parti del corpo più esposte (per la flessibilità); sino alle piastre protettive vere e proprie in resina, rigide, applicate su una struttura portante che aderisce al busto e alla schiena; oltre al casco (a prova di proiettile), ai guanti, alle scarpe (con i lacci protetti per evitare che vengano tagliati dagli avversari) e ovviamente alla casacca con i colori della squadra. Ciononostante le armi bianche che i giocatori possono portare con sé – pugnali, mazze, corde di nylon: c’è persino un cecchino per squadra – ed usare nei placcaggi riescono spesso a trovare una fessura in cui infilarsi, col risultato che tra morti e feriti ogni squadra perde quattro o cinque giocatori a partita.
Un errore e sei spacciato, in sostanza, come quando il ricevitore matricola dei Prospectors sta per raccogliere la palla nelle ultime azioni di un Killerbowl ma «alza tutta la testa al cielo invece di sollevare solo lo sguardo come un professionista più accorto avrebbe fatto» e così viene colpito in piena gola dal cecchino degli avversari, «sotto il bordo dell’elmetto a prova di pallottola e sopra l’armatura». Così l’America impazzisce, gli ascolti si impennano e i telespettatori sono disposti a spendere i guadagni di intere settimane solo per comprare i replay dell’azione.
Le partite si giocano nei quartieri delle città, che vengono sfollati per permetterne lo svolgimento: nel caso della finale che dà il titolo all’edizione nostrana (ma l’anno corretto sarebbe il 2011), un quartiere un tempo benestante di Boston o, per usare l’ottima traduzione italiana, «un tempo la residenza dell’élite, i cosiddetti bramini. Ora è un pateracchio di casette borghesi tutte uguali, di piccole industrie, di squallidi supermercati». Gli sfollati vengono ospitati in alberghi superlusso con ogni genere di servizio già pagato, dal golf al ballo, dal bowling al tennis, di cui però nessuno si interessa perché tutti preferiscono vedere le partite in tv, inclusi tutti i replay che vogliono, gratuiti.
I campi di gioco sono quindi enormi (suppergiù settecento metri per trecentocinquanta) e presentano ogni genere di ostacoli tipici di una città, ideali per tendere imboscate al portatore di palla, che ha il solo obbligo di avanzare continuamente, sia pure lentamente: non esistono luoghi proibiti, nel senso che i giocatori possono entrare dove vogliono, spaccare porte e vetrine, distruggere tutto, tanto poi la televisione risarcirà ogni danno.
Le squadre contano tredici giocatori ciascuna: non sono previste sostituzioni ed i feriti non possono lasciare il campo fino ad uno dei tre intervalli previsti ma possono essere soccorsi dall’infermiere della squadra, che li mette fuori gioco (non possono essere bersaglio degli avversari) stendendo sopra di loro un lenzuolo con una grande croce rossa. Le partite durano ventiquattro ore – da mezzanotte a mezzanotte: il Killerbowl si tiene per tradizione a capodanno – ventidue delle quali di gioco: quattro tempi da cinque ore e mezza, con due intervalli di mezz’ora ed uno di un’ora intera a metà giornata.
Dal momento che si tratta di un evento televisivo, anzi dell’evento televisivo per eccellenza, non possono mancare le riprese: ma sarebbe impossibile installare telecamere fisse come allo stadio, così ogni giocatore ha il suo operatore appiedato che lo segue per tutta la partita, più un’altra decina di operatori liberi che servono sia per altre inquadrature sia per non tradire completamente la posizione di un giocatore, che è accompagnato anche dal suo arbitro personale.

Una rivalità istigata dalla tv
L’intera storia è costruita sulla rivalità tra i qb delle due squadre principali della lega: T.K. Mann dei Prospectors, che dopo tredici stagioni è chiaramente al tramonto (ha trentaquattro anni), e l’astro nascente Harv Matision dei Minutemen, alla quinta, un bulletto grezzo e spregiudicato. In gioco non c’è solo il titolo ma anche una diversa concezione del football e della sportività: Mann non crede nella violenza fine a se stessa ed infatti i Prospectors hanno una delle medie più basse della lega sia per il numero di giocatori persi che di avversari uccisi, l’uno virgola qualcosa; Matision invece ha tutta un’altra filosofia, riassunta dal suo tasso di perdita giocatori: quattro, il più alto del campionato.
La rivalità tra i due è istigata anche dalla televisione, la Ibc detentrice dei diritti di trasmissione, che ci mette del suo per accendere gli animi dei due e portarli così al Killerbowl col desiderio di scannarsi a vicenda, per una questione di ascolti: fa in modo infatti che in uno scontro diretto Matision uccida di proposito il miglior amico di Mann, che così giura vendetta, costi quel costi.
Questo omicidio su commissione è reso possibile da un trucchetto di cui nessuno al di fuori dei massimi dirigenti della Ibc dovrebbe essere a conoscenza: un giocatore per squadra (Matision per i Minutemen, appunto) ha una ricevente impiantata nell’orecchio ed è in comunicazione continua con un addetto nella cabina di regia, che così può rivelare gli schemi degli avversari e dare istruzioni al proprio uomo per compiere determinate azioni – per lo più uccisioni spettacolari – che servono per rendere sempre più sanguinarie le partite e quindi attirare sempre più spettatori.
Perché al sommo direttore della Ibs l’ottanta per cento degli ascolti non basta.

«E cosa diavolo facciamo adesso»?
Il libro è scritto in una serie di capitoli brevissimi che si svolgono nell’arco di un anno, dal Killerbowl del 2010, perso all’ultima azione dai Prospectors, a quello del 2011, che è il presente della storia: ma l’oggi e gli eventi dell’anno trascorso continuano a intrecciarsi, così mentre avanza – lentamente – la cronaca della finale avanzano anche, molto più rapidamente (di settimane, a volte anche mesi), gli episodi che spiegano il contesto e permettono di fare luce sugli eventi che si stanno consumando proprio davanti ai nostri occhi.
Perché è proprio nei flashback che si apprende tutto quello che serve per comprendere cosa sta accadendo: le trame della televisione per alzare gli ascolti, la corruzione dei politici compiacenti e la lotta contro i mulini a vento di quelli integerrimi, la vita privata del protagonista, la rivalità con Matision costruita ad arte dalla Ibc, e ovviamente le regole del football su strada, che ha cancellato le menti già non brillanti dei telespettatori (che, va ricordato, rappresentano i quattro quinti della popolazione: tutti guardano la tv, non c’è altro da fare).
Tutto quindi converge verso gli ultimi minuti dell’ultimo tempo della finale del 2011 tra i Prospectors e i Minutemen: l’odio tra Mann e Matision è sfociato in guerra aperta, col risultato che le squadre si sono decimate, tre superstiti per San Francisco, due per il New England. Mann stesso è appena caduto dal secondo piano di un edificio ed ha un braccio a pezzi: l’infermiere dispera di poterglielo salvare già in queste condizioni e vorrebbe portarlo in ospedale. Ma lui insiste per essere rabberciato alla meglio e giocare ancora, perché ha un conto in sospeso con Matision.
E quando finalmente, ultimi sopravvissuti, i due rivali si trovano faccia a faccia, Mann, che ha messo fuori combattimento il suo stesso cecchino (il traditore, l’uomo della Ibc, quello con la ricevente nell’orecchio) e si è impadronito del suo fucile, non fa quello che tutti si aspettano, tanto il lettore quanto – soprattutto – i tifosi incollati davanti allo schermo: ma conduce il rivale tremante come un agnellino nella sala di regia, per smascherare il perfido piano della televisione e far sapere a tutti quant’è corrotta la Ibc, quant’è truccato il football su strada, quant’è debole Matision, che davanti alla canna puntata di un fucile cade in ginocchio, confessa tutto e si mette a piagnucolare e piangere come un vitello.
Poi, soddisfatto, Mann spara nel pavimento, getta il fucile e si allontana sprezzante.
Ma l’autore ci tiene a far capire che il suo gesto non è servito a niente: subito infatti i tifosi accorsi si gettano a terra per contendersi il bossolo. E a casa il telespettatore medio, rimasto senza il suo spettacolo settimanale e costretto ad andare a letto presto perché non sa più come ingannare il tempo (ma col televisore acceso, perché non si sa mai), si arrabbia a tal punto che l’indomani mattina, per la prima volta in vita sua, scrive una lettera al suo deputato per lamentarsi del comportamento di Mann.

Pane sintetico e circensi
Prodotto tipico degli anni Settanta per il pessimismo di cui è intriso e già si è detto, «Killerbowl» è un libro che si lascia leggere volentieri: ricorda le atmosfere di Soylent Green (che è del 1973), anche se non si concentra troppo sui problemi della sovrappopolazione per dedicarsi invece al problema parallelo del controllo della popolazione attraverso lo sport e i media. Il football su strada infatti svolge perfettamente il ruolo di catalizzatore dell’attenzione del cittadino medio, che così è distratto da argomenti futili e non pensa ai veri problemi, come il deserto cerebrale della sua vita e le condizioni misere in cui versa il paese: ritorna così il «pane e circensi» di Giovenale, che è sempre di un’attualità spaventosa.
Con la scusa dello sport violento che tiene buona la popolazione, il libro elabora quindi un concetto già presente nella fantascienza da almeno vent’anni ma ancora abbastanza nuovo per l’epoca: le grandi aziende corrotte che dispongono come vogliono dei politici e, tramite loro, dell’intera nazione, che così è tenuta in ostaggio e saccheggiata dagli stessi potenti. Sono infatti le «megacorp» come la Ibc, che influenza i gusti delle masse e le tiene a bada finché le fa comodo, a sostenere un governo in odore di socialismo – e quindi molto più facile da controllare – e le sue politiche antiamericane, che includono l’esproprio dei terreni agricoli per trasformarli in kolchoz e la criminalizzazione non solo dell’uso ma persino del possesso delle auto private, sebbene siano previste eccezioni per i maggiorenti del regime: così tutti gli spostamenti del popolino avvengono con mezzi pubblici a vapore o taxi a pedali. E così non ci sono nemmeno problemi di inquinamento né di razionamenti alimentari, anche se il cibo in circolazione è composto per lo più di sottoprodotti sintetici.
Quanto alla struttura del libro, la narrazione ad episodi di poche pagine ciascuno è ideale per tenere vivo l’interesse e si adatta anche molto bene alla storia, perché aggiunge via via elementi indispensabili per capire quello che sta accadendo: ma è azzeccata anche perché ricorda il ritmo delle partite di football, che alternano brevi scariche d’azione fulminea con lunghi e lenti preparativi.
L’autentica chicca sono però le ultime pagine, che vorrebbero imitare il classico «inserto da staccare» delle riviste, con la presentazione del Killerbowl 2011. Contiene una breve descrizione del quartiere di gioco (con tanto di mappa) e delle due squadre, incluso lo specchietto delle formazioni: e scorrendolo si sorride quando si vede che tutti i giocatori provengono da una qualche università tranne il rozzo Matision e i due cecchini, un ruolo che però è solitamente ricoperto dai solitari, dai devianti o dagli ex militari.
Così, tra azioni salienti della finale e scampoli di storia, il libro offre una lettura veloce e gradevole: quella che leggendo il titolo italiano proprio non ci si aspetterebbe.

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