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Murray Leinster – Il pianeta dimenticato

Non sempre la fantascienza deve trattare di astronavi, computer o distopie per essere tale: a volte persino una storia ambientata in un mondo di sapore preistorico può appartenere alla fantascienza, soprattutto se è stata scritta e pubblicata negli anni Venti, se l’autore è Murray Leinster e se, dapprincipio, era collocata nel lontano futuro della terra, qual è appunto il caso dei due racconti da cui è poi scaturito il «fixup» del «Pianeta dimenticato» (The Forgotten Planet, 1954), uno dei libri più noti e avvincenti del nostro autore.

Due racconti, un romanzo
«Il pianeta dimenticato» è il classico «fixup» d’altri tempi, un’operazione molto diffusa in epoca postbellica, quando la fantascienza aveva appena iniziato la migrazione dalle riviste ai tascabili: in sostanza di tratta di romanzi che mettono assieme due o più racconti già pubblicati anche decenni prima sui pulp (e a volte nemmeno correlati tra loro), aggiustati e riadattati per dare un senso ed un’unità narrativa ai diversi episodi che ne compongono la trama. In questo caso si tratta di due racconti, «The Mad Planet» del 1920 e «The Red Dust» del 1921, entrambi pubblicati su Argosy, una delle grandi riviste di narrativa americane: all’epoca infatti la fantascienza non esisteva ancora nemmeno come genere, dato che il primo pulp specializzato (Amazing Stories di Gernsback) è uscito solo nel 1926.
Entrambe le storie hanno per protagonista un tale Burl, un ragazzo di una ventina d’anni che sopravvive in un mondo da incubo: è la terra del lontano futuro (ben diversa da quella già visto in Zothique e nella Terra Morente), una sorta di enorme serra nella quale i funghi hanno soffocato la vegetazione e sono cresciuti a dismisura così come gli insetti, pure divenuti enormi, hanno vinto la battaglia per la sopravvivenza contro ogni altra forma di vita animale. L’umanità stessa è ridotta a poche tribù di selvaggi che, piombati in fondo alla catena alimentare, vivono nel terrore, limitandosi a sopravvivere di funghi e, quando sono fortunati, brandelli delle carcasse degli insetti uccisi da altri insetti: sono poco più che animali che ignorano il fuoco, gli utensili ed ogni concetto astratto. Un giorno però Burl ha un’idea che lo scaglia – suo malgrado – a vivere un’avventura come nessun altro prima e da quel momento ricomincia l’ascesa dell’uomo, rapida: così rapida che Burl stesso vedrà il coronamento delle sue gesta.
Il fixup cambia la cornice ma mantiene per lo più inalterato il contenuto delle due storie, tanto che quasi si sente il punto di sutura tra «Mad Planet» e «Red Dust»: la nuova cornice però, oltre a dare più senso alla storia, la colloca anche più correttamente all’interno della fantascienza spaziale. In questa sua nuova veste il pianeta dimenticato infatti non è più la terra del lontano futuro ma uno dei tanti mondi della galassia, sottoposto ad un qualche tipo di terraformazione che però si è interrotta a metà processo, rendendo così possibile la formazione dell’habitat mostruoso che costituisce lo sfondo della storia.

La nuova cornice
In buona sostanza, il prologo spiega che nel futuro l’umanità avrà esplorato tutta la galassia, scoprendo migliaia di mondi disabitati e sterili: abbondano magari di aria ed acqua ma mancano di batteri e quindi di qualsiasi altra forma di vita. Per renderli abitabili è stato quindi avviato un programma di «terrificazione» a più stadi, separati migliaia di anni l’uno dall’altro: prima passa un’astronave di seminazione, che paracaduta sia le spore dei microorganismi capaci di ridurre le rocce in polvere e trasformare quella polvere in suolo fertile sia i semi di muffe, funghi, licheni ed altro che sia in grado di convertire il terriccio friabile e primitivo in una sostanza nella quale possano nascere delle forme di vita di ordine più elevato.
In una seconda visita, che ha luogo millenni più tardi, un’altra astronave ecologica sparge i semi delle piante terrestri ed acquatiche e deposita celle frigorifere cariche sia di uova di insetti sia, in acqua, di pesci. La terza ed ultima visita prima della definitiva colonizzazione umana dovrebbe essere compiuta da un’astronave zoologica che, altri millenni più tardi, dovrebbe portare gli animali, gli uccelli ed i rettili sul pianeta ormai reso abitabile: solo che in un trasferimento di uffici si è persa la scheda (perforata) del mondo privo di nome su cui è ambientata la storia, che così non ha mai ricevuto quest’ultima visita ed è divenuto a tutti gli effetti il pianeta dimenticato. Lasciati liberi di moltiplicarsi e svilupparsi senza concorrenza, col tempo funghi ed insetti sono divenuti i signori incontrastati del pianeta che, coperto da una coltre perenne di nubi, forma oltretutto l’ambiente ideale per la proliferazione dei suoi dominatori.
Passano così altri millenni quando un’astronave, la Icaro, fa naufragio: le scialuppe dei superstiti, a corto di carburante, sono costrette a riparare sul pianeta dimenticato, dove trovano l’incubo ad attenderli. Ciononostante, duemila anni dopo l’umanità non è stata sopraffatta ma, pur imbarbaritasi sino a perdere tutto ciò che distingue gli uomini dagli altri animali, ancora sopravvive nella forma di piccole tribù di selvaggi terrorizzati da tutto che hanno completamente dimenticato il fuoco, l’uso degli utensili e quasi della lingua parlata, ridotta a poche parole di senso concreto. E, conseguenza dell’inutilizzo, anche l’uso della mente e la rivendicazione di quel primato che compete all’uomo.
Sono passate quaranta generazioni da allora – duemila anni nella cronologia del libro – quando facciamo la conoscenza del nostro protagonista, Burl, destinato a diventare una sorta di Prometeo dei discendenti dell’Icaro.

La grande avventura di Burl
Come suggerisce il nome, Burl è un ragazzone solo un po’ meno tonto della ventina di componenti della sua tribù che, emblematica del genere umano sul pianeta dimenticato, è tenuta assieme non tanto da vincoli di sangue, amicizia o lealtà reciproca quanto di interesse e convenienza individuale: infatti non solo la sicurezza sta nel numero ma magari dagli altri si possono anche apprendere nuovi posti in cui reperire facile cibo, quindi stare assieme è nell’insieme vantaggioso. Nelle poche descrizioni in cui appaiano i membri della tribù viene sempre mostrata un’umanità decaduta, degradata, che ha perso ogni traccia della grandezza umana ed anzi vive nel costante terrore, in particolare dei grandi predatori come i ragni: sono più animali che uomini, prede e non predatori.
Tuttavia Burl, si diceva, ha appena compiuto il primo passo verso il ripristino del primato che spetta all’uomo: il giorno prima dell’inizio del racconto aveva assistito al combattimento tra due enormi scarafaggi cornuti, terminato con la morte di uno dei due contendenti. Al termine del banchetto del vincitore, Burl si era fiondato sui resti dello sconfitto e, afferratone un pezzo, era scappato con quello, salvo disfarsene poco dopo, quando si era accorto che non conteneva molta carne: era infatti il corno dello scarafaggio che, scagliato lontano dal nostro, si era piantato nel fusto di un enorme fungo. Sul momento Burl non ci aveva fatto molto caso ma quella notte sogna possibili usi pratici del corno – cosa assai insolita per un uomo del pianeta dimenticato – e così l’indomani torna a recuperarlo: pensa di usarlo come arma per procacciarsi del cibo con cui impressionare la ragazza per cui prova strane sensazioni, Saya. Leinster stesso è consapevole dei limiti del suo eroe ed infatti si affretta ad evidenziare che Burl «era per lo meno un atavismo, ed era anche un pioniere. Forse era addirittura un genio. Non era, però, un genio di primissima categoria. Per lo meno, non lo era ancora».
E che non sia un genio di primissima categoria lo vediamo nella scena immediatamente successiva: spintosi fino ad un fiumiciattolo che scorre nel «territorio» della sua tribù, nel tentativo di arpionare un bel pesce Burl si sporge troppo e cade in acqua, trascinandosi dietro gli enormi funghi che aveva usato come scalini per spingersi il più vicino possibile al pelo dell’acqua.
Subito preso dalla rapida corrente del fiume (ma col corno sempre stretto in mano ed il pesce sempre trafitto sulla zagaglia improvvisata), Burl riesce infine a issarsi su uno dei grossi funghi che si erano staccati nella caduta – troppo leggeri per andare a fondo, anche con l’aggiunta del suo peso – e, troppo pavido per tuffarsi in acqua, non può far altro che lasciarsi trasportare dalla corrente ed intanto osservare il mondo che scorre attorno a lui.
Quando, ore dopo, finalmente il fungo si arena in una zona paludosa che gli è sconosciuta (ed è anche ricca di cibo: per questo si ripromette di condurvi Saya e chi vorrà seguirlo), Burl tocca nuovamente terra ed inizia la sua catabasi al territorio della tribù: lungo il cammino dovrà industriarsi ad usare più volte il cervello, non solo per evitare la morte certa ma anche per uscire dai pericoli che gli si presentano all’improvviso.
Passo dopo passo, inizia così la sua ascesa alla piena umanità. E al potere.

Burl l’ammazzaragni
La prima avventura da cui, con un pizzico di fortuna ed una buona dose d’ingegno, deve cavarsi fuori è l’aggressione di un grosso ragno bruno cacciatore: Burl ha la prontezza – o l’instinto – di adoperare la sua nuova zagaglia, puntandola verso il predatore, che nello slancio si infilza su di essa. Sempre stingendo il corno su cui è confitto il ragno, che ancora si affanna per raggiungere il ragazzo terrorizzato, Burl indietreggia di qualche passo, sinché il terreno sotto i suoi piedi non cede: uomo e mostro precipitano assieme per diversi metri – Burl ancora non riesce a staccare le mani dalla lancia – e finiscono imprigionati sulla tela di un ragno tessitore, che prontamente sopraggiunge ad esaminare le prede. Il padrone di casa ha appena finito di avvolgere entrambi in un bozzolo e sta per iniziare il suo banchetto quando Burl, lottando disperato contro la sostanza adesiva della ragnatela, riesce a liberarsi: ha infatti ancora con sé, legati attorno al collo, i resti maleodoranti del pesce con la cui cattura era iniziata l’avventura; di conseguenza tutto il suo corpo è ricoperto dell’olio del pesce che, scopre, rende inefficace la colla della ragnatela. E così non senza una sana dose di fortuna riesce a mettersi in salvo, a costo però della lancia e degli scampoli di ali che usava per abiti, rimasti attaccati alla ragnatela.
Nudo e disarmato, Burl riprende la strada di casa, mentre l’autore non perde occasione per ricordare quanto sia alieno e pericoloso quel mondo: quasi ad ogni pagina infatti ci si imbatte in osservazioni che ripetono quanto sia strano il panorama creato da foreste di funghi giganteschi, muschi e muffe, insetti enormi, sullo sfondo di un cielo eternamente coperto da uno strato di nuvole, come un sudario che oscura il sole e favorisce l’ambiente innaturale e micidiale sottostante. Non si può fare a meno di rabbrividire al solo pensiero di trovarsi sperduti in questo scenario da incubo.

Fuga dalle formiche
Intanto però sullo sfondo si prepara una nuova minaccia: un’orda di milioni di formiche guerriere che uccidono, devastano e divorano tutto ciò che trovano sul loro cammino, anche le loro compagne ferite: prese singolarmente le formiche, cieche e lunghe una trentina di centimetri soltanto, sono una delle insidie trascurabili del pianeta dimenticato, perché sono attratte soprattutto dalle carogne; quando sono in gruppo però diventano pericolose e nulla può opporsi ad un’orda sconfinata come quella che sta per tagliare la strada al nostro.
Quando finalmente Burl si rende conto del pericolo in cui si sta per imbattere, per prima cosa viene nuovamente preso dal panico (non ha ancora superato lo stadio dell’«umanità bestiale e pavida»), poi si mette a correre e, quando ormai tutto sembra perduto, trova la salvezza per un autentico colpo di fortuna. Nella fuga, si è infatti arrampicato su una catena di colline la cui vera natura è nascosta dalle muffe che le ricoprono interamente: sono in realtà ammassi di funghi che da migliaia di anni crescono gli uni sopra gli altri e formano così un habitat complesso in cui vivono centinaia di specie di insetti.
Burl, che, esausto, ha trovato rifugio in una specie di valletta molto all’interno delle colline, è ormai stretto dall’avanguardia dell’orda mirmica quando si accorge che il terreno sotto i suoi piedi scotta: l’arrivo delle formiche ha infatti scatenato l’autocombustione dei funghi, che stanno per trasformare le colline in un immenso rogo. In buona sostanza, gli insetti ed i funghi morti che per secoli avevano costituito il nucleo di quelle colline si erano ossidati a causa della pressione, producendo una temperatura molto elevata: non potevano scoppiare incendi però, perché ancora mancava l’aria. Tuttavia l’arrivo delle formiche che divorano tutto, funghi compresi, ha modificato quella situazione, perché ha permesso all’aria di raggiungere antiche gallerie chiuse e abbandonate a causa dell’eccessivo calore: ravvivate dall’aria, le braci hanno quindi dato inizio a diversi focolai che in breve si sono tramutati in un enorme incendio, che distrugge le colline e con esse l’intera orda.
In un mondo umido, così umido che il cielo è sempre ricoperto dalle nubi e ogni notte cade una pioggerellina sottile, il fuoco è sconosciuto anche agli uomini: non viene quindi riconosciuto come un pericolo nemmeno dalle formiche, che invece si gettano tra le fiamme come se stessero combattendo con altri insetti.
Ma non sono solo le formiche a gettarsi nel fuoco: l’incendio è così vivo e le fiamme così alte che rischiarano la notte incipiente ed attirano ogni insetto del vicinato verso la propria distruzione. Tra questi, un’enorme falena che, all’indomani mattina, Burl trova bruciacchiata e morente: ne approfitta per rivestirsi, strappandole alcune parti scampate al fuoco, ossia una splendida ala, che usa come mantello; un pezzo della morbida pelliccia, che usa per coprirsi le pudenda; e le antenne, che si fissa con un tendine alla fronte. Così agghindato – «vestito come nessun uomo era mai stato vestito in tutte le epoche che lo avevano preceduto» – poco dopo il nostro recupera un’altra lancia, più lunga, più affilata e assai più micidiale della precedente, quella che aveva dato inizio al tutto, e si prepara per il rientro trionfale a casa.
Prima però si toglie la soddisfazione di uccidere un mostro: scorge l’imbocco della trappola di un ragno del labirinto, la aggira, intuisce dove sieda in agguato il predatore e, perforando il bozzolo di ragnatela dall’esterno, lo trafigge dal basso in alto con la sua nuova lancia, fuggendo poi a gambe levate. Trascorso del tempo e vinto l’innato timore, fa ritorno sul posto: trova il ragno morto, mezzo dentro e mezzo fuori della ragnatela, che cercava di lacerare per scagliarsi sull’aggressore; per terra, una pozza di icore, che imbratta anche la lancia.
È il trionfo.

L’ascesa dell’uomo
Come per miracolo, l’uccisione del ragno risveglia l’umanità in Burl: in segno di trionfo, lancia un grido di caccia, il primo mai emesso dall’uomo sul pianeta dimenticato in più di duemila anni. Con la morte del mostro – per tutto il libro i ragni rappresentano quanto di più orribile e pericoloso esista sul pianeta – Burl dimostra non solo di aver messo in moto il cervello una volta per tutte ma di aver anche compiuto quel passo che, in prospettiva, porterà a ristabilire l’uomo al posto che gli spetta, in cima alla piramide evolutiva.
A questo punto, issatosi sulle spalle la carogna del predatore, l’eroe poco dopo raggiunge la sua tribù, che ormai lo dava per morto. Ammirato da tutti per lo splendido abbigliamento, per le esperienze che ha vissuto e per aver ucciso un terribile ragno, Burl scopre di apprezzare l’adulazione ed il rispetto dei suoi simili: così, per soddisfare la propria vanità, progetta un’impresa ancora più grande della precedente, uccidere un vecchio ragno cacciatore che infesta il territorio della tribù. Anche se non ha un nome, non è un ragno qualsiasi: è il mostro che, anni prima, aveva catturato ed ucciso il nonno di Burl, il cui corpo rinsecchito è ancora appeso, macabro trofeo, all’esterno della tana del mostro.
Radunati gli uomini della tribù, a fatica riesce a guidarli in prossimità del nido: lo seguono passivamente, solo perché ha dimostrato di saper procurare cibo abbondante e perché ancora non ne conoscono le intenzioni. Quando però diviene chiaro il suo progetto, tutti tremano e fanno per fuggire ma Burl riesce a tenerli ai loro posti e a sollecitarne la collaborazione: anche se l’umanità imbarbaritasi del pianeta ha dimenticato le figure del capo e del condottiero, basta far sentire un briciolo di autorità per ottenere la reazione desiderata.
Il nido del cacciatore è una sorta di sacca appesa su un precipizio e tenuta ancorata alla roccia da alcuni fili ben solidi: l’idea di Burl è staccare ciascun cavo, fissarlo ad un masso pesante che lo tenga fermo e poi, assegnato un uomo a ciascuna pietra, spingere nel vuoto tutti i sassi assieme, così che nello schianto il ragno trovi la morte. Il piano riesce a metà: gli era infatti sfuggito un cavo nascosto dalla vegetazione, al quale solo rimane appeso il nido del ragno, che ne esce furioso e risale quel filo rimasto, per punire chi ha osato disturbarlo. Vinta ogni paura – tutti gli altri uomini sono già fuggiti in preda al panico – Burl afferra un pesante masso e con uno sforzo lo porta sull’orlo del precipizio, proprio dove sta sopraggiungendo anche il mostro, per lasciarlo cadere sul nido rimasto penzoloni: nella caduta, il masso incontra il corpo del ragno, lo travolge e, toccata terra, lo schiaccia. Per la tribù è l’impresa più grande mai compiuta: «Su nessun altro pianeta della Via Lattea un essere umano avrebbe potuto conoscere un senso di trionfo paragonabile a quello che Burl provava in quel momento, perché mai prima di allora gli esseri umani erano stati così totalmente soggiogati dal loro ambiente».
Con simili gesta, Burl ha in pugno la tribù: tuttavia, ormai abituato a pensare e a comportarsi come un essere umano, non trova soddisfacente essere la guida di selvaggi che fuggono ad ogni occasione. Così li esorta ad armarsi come lui ed uccidere la selvaggina per procacciarsi nuovo cibo ma non ottiene risultati incoraggianti: solo pochi sono tanto audaci da sfidare lo status quo e al massimo si spingono a schiacciare formiche solitarie.
Quella sera però tutti tornano carichi di cibo alla tribù, che non vedendoli rientrare per tempo era già in preda al timore: le vecchie abitudini ed i vecchi schemi mentali sono difficili da sconfiggere e proprio questo sarà il tema dominante della seconda parte del libro.

La minaccia rossa
Quella notte, mentre la tribù è intenta a banchettare, non molto lontano succede qualcosa di nuovo e terribile: una vescia rossa, di un tipo sconosciuto, giunge a maturazione ed esplode, spargendo le sue spore nell’aria. In quella sta passando un’ape che subito è presa dalle convulsioni e poco dopo muore: lo stesso accade ad altri insetti nei paraggi man mano che altre vesce maturano ed esplodono. Le spore di quel fungo mai visto prima erano giunte in zona mesi prima, trasportate da un forte vento: in quell’occasione infatti la tribù era stata male per alcuni giorni, poi si era ripresa ed infine quell’evento era stato cancellato dalle menti semplici degli uomini, abituate a serbare solo le informazioni necessarie per procurarsi il cibo ed evitare i pericoli.
È ormai passato un giorno abbondante dalla notte del banchetto quando incontriamo nuovamente la tribù, che adesso è immersa in una cupa disperazione, che le altre creature di quel mondo non possono condividere solo perché sono troppo stupide per comprendere: inizia qui «The Red Dust», il secondo racconto del fixup, leggermente inferiore all’episodio precedente.
Reso insonne dai pensieri, Burl si sta scervellando per trovare una soluzione alla nuova minaccia rappresentata dalle vesce: sa che la soluzione è a portata di mano ma la risposta tarda a formarsi nella sua mente. In quella Saya, adesso la ragazza di Burl, si alza dal giaciglio e va a sedersi accanto a lui, fornendogli così involontariamente la soluzione: occorre migrare. Basta infatti la vicinanza della ragazza per fargli riaffiorare il ricordo della terra ricca di cibo dov’era sbarcato all’inizio della sua grande avventura, settanta chilometri a valle del fiume, ed il proposito di condurvi Saya ed il resto della tribù che aveva maturato in quell’occasione: Burl giunge così al livello del ragionamento astratto, che fino a quel momento non era stato di alcuna utilità sul pianeta dimenticato e perciò non era stato più praticato dai suoi abitatori umani.
Così l’indomani mattina comunica la sua decisione ai compagni, che l’accettano passivamente: non perché lo riconoscano come capo – le gerarchie sono da tempo scomparse tra gli umani imbarbaritisi – ma perché nessuno ha idee migliori e Burl sinora ha dimostrato di sapersi procurare il cibo, buono ed abbondante.
Inizia così l’esodo della tribù, che casualmente si dirige ad ovest.

Da Prometeo a Mosè
L’esodo della tribù non costituisce un episodio così interessante quanto l’avventura precedente: si ha l’impressione che la storia sia «binariata», ossia che segua un canovaccio ben definito, dal quale è del tutto assente il sapore dell’ignoto e del misterioso, che invece costituivano l’ingrediente principale del primo racconto. Adesso l’ambientazione sa di mondo fantasy, nel quale Burl si muove con la sicurezza di un supereroe: sotto la sua guida nessuno può perdersi.
Come Mosè, Burl guida i suoi verso la terra promessa, vincendo di volta in volta le mormorazioni del suo gregge dalla vista corta: alla fine però anche lui è costretto a capitolare e a sistemarsi suo malgrado in quello che sulle prime sembra il paese della cuccagna, una valle ricca di cibo e praticamente priva di pericoli. Trovato il paradiso in terra, la tribù rifiuta di proseguire oltre e, compatta, decide invece di stabilirsi nel nuovo territorio: perciò, dopo essersi brevemente esercitati nella difficile arte del coraggio, bastano pochi giorni perché tutti ricomincino a comportarsi come vermi furtivi, che è poi una conseguenza tipica della vita comoda e della falsa sicurezza che si crea quando si ha la pancia piena.
Burl, ovviamente scontento della situazione e della perdita del ruolo di guida che ha ricoperto sin qui, scarica la frustrazione esplorando la valle in solitudine: si imbatte così in parecchie mantidi religiose giganti, una delle quali fa per attaccarlo. In condizioni normali l’uomo non avrebbe avuto scampo ma il nostro, che sta trasportando le carcasse di alcune formiche appena uccise, ne lancia d’istinto una al predatore, che la afferra al volo e subito si mette a divorarla, dimenticandosi dell’uomo. Un fatto inaspettato, da tenere a mente.
Nell’esplorare i pendii della valle Burl fa anche un’altra scoperta, questa volta spaventosa: la valle è abitata anche da un’enorme tarantola, un gigante anche per la sua specie di titani, con zanne lunghe due metri. Si tratta di una femmina, che si trascina dietro il sacco delle uova, ancora più grosso del suo stesso corpo, il cui diametro già supera i due metri. Burl torna subito indietro ad avvisare i suoi e ad esortarli ad abbandonare la valle il prima possibile ma l’allarme cade nel vuoto: il pericolo è ancora un’ipotesi che riguarda il futuro, non il presente, così la tribù decide di ignorare l’avvertimento.
Pochi giorni dopo però la covata si dischiude e cinquecento piccoli demoni grigi si spargono per la valle creduta idilliaca, seminando la morte: gli umani, stretti in gruppo all’aperto perché i boschetti in cui erano soliti nascondersi brulicano di tarantoline maniache che desiderano solo uccidere, non sanno far altro che piagnucolare e gemere quando Burl, pur incollerito, riprende in mano la situazione. Meglio ancora: prende la mano di Saya, pronuncia il primo discorso diretto del libro («Andiamo!») e con lei si incammina nella sola direzione possibile: le montagne. Pian piano tutti lo seguono, docili come agnellini.
Nell’ascesa, Burl ha modo di consolidare la sua posizione di capo, che adesso gli è nuovamente riconosciuta per aver condotto in salvo il gregge dall’orrore della valle: forte di ciò, dapprima ordina a tutti di armarsi; poi salva un bambino da una mantide, lanciandole addosso una formica come aveva già fatto durante le sue precedenti esplorazioni; quindi, con lo stesso sistema, si libera anche di un millepiedi gigante, lungo una dozzina di metri. Infine, dopo un’ascesa interminabile, Burl e la sua tribù raggiungono davvero la terra promessa.

Il lieto fine
Sull’altopiano in cima alla montagna lo scenario cambia completamente: crescono alberi invece di funghi e gli insetti sono delle dimensioni consuete, una conseguenza dell’aria più fresca; inoltre, dal momento che il pianoro spunta al di sopra delle nubi eterne, si vedono persino il cielo, il sole e le stelle. Qui gli uomini incontrano anche un vecchio amico: il cane. Sebbene gli uni non abbiano mai visto gli altri, l’intesa è immediata e reciproca: uomini e cani iniziano così a vivere e cacciare assieme, con benefici immediati per tutti.
In breve, sull’altopiano la vita della tribù diventa molto più sicura e comoda: di quando in quando dalle terre basse spuntano ancora insetti giganti che però, intorpiditi dall’aria fredda, sono facile preda dell’attacco combinato dell’uomo e del cane. E proprio durante una di queste cacce, che vede impegnati Burl, Saya e la loro muta di cani, atterra a breve distanza da loro l’astronave che è destinata a cambiare per sempre il pianeta dimenticato. È questa l’ultima aggiunta del fixup.
L’astronave, un incrociatore privato che sta svolgendo un’occasionale esplorazione per conto del Servizio Biologico, trasporta un gruppo di cacciatori di ritorno da una spedizione di caccia grossa: questi subito si interessano agli uomini primitivi e, con la più classica delle macchine educatrici superscientifiche, innalzano immediatamente il livello intellettivo di Burl, Saya e poi degli altri a quello degli uomini normali, con i quali stringono amicizia.
Passano gli anni e Burl è ormai invecchiato: col tempo sull’altopiano è sorta una città che prospera non solo per il commercio di preziosissime ali e pellicce d’insetto ma anche per il turismo degli sportivi della caccia grossa, che sempre scendono nelle terre basse accompagnati da almeno un ex primitivo del pianeta: infatti nessuno di coloro che vi si sia avventurato senza una guida locale ha mai fatto ritorno; a volte però le spedizioni riportano anche nuovi abitanti appena rinvenuti, selvaggi che, subito sottoposti alla macchina educatrice, vengono anche avviati alla civiltà.
Così oggi il pianeta dimenticato non è più dimenticato, ricorda l’autore: anzi, è così noto che non occorre neppure dirne il nome.

La fiducia cieca nell’uomo
Il libro è tutto qui: puro escapismo animato da una fiducia incondizionata nell’uomo, nelle sue capacità e nel ruolo dominante che gli compete in quanto compimento della creazione. Nelle pagine del «Pianeta dimenticato» non c’è spazio per il dubbio, il relativismo, le debolezze, le recriminazioni o gli altri disturbi che hanno cannibalizzato la società contemporanea: per Leinster l’uomo – quanto meno quegli uomini che ne hanno le qualità per natura – è destinato a dominare su tutte le altre forme di vita, un atteggiamento comune a buona parte dei racconti fantastici scritti tra le due guerre, si pensi ad esempio a «Tumithak dei corridoi» di Charles Tanner che, pur più recente (il primo racconto della serie è stato pubblicato una dozzina di anni dopo «The Mad Planet»), presenta tuttavia la medesima certezza della superiorità dell’uomo, non solo rispetto agli altri animali ma persino rispetto agli alieni. È poi la stessa convinzione che, in tempi molto più recenti, è confluita nella dottrina dell’«Humanity, Fuck Yeah», un finto filone letterario trasversale che, con una certa ironia, vuole mettere in risalto la capacità tutta umana di risollevarsi dalla polvere e vincere quando deve vedersela con un avversario non umano che ci è chiaramente superiore.
Oltre alle idee sull’uomo e sul suo ruolo di guida sono interessanti anche altri spunti che Leinster semina qua e là nel libro, come la sua visione libertariana (in seguito ripresa anche da Jack Vance, Gordon Dickson e poi, negli anni Sessanta e Settanta, da tutta una scuola di pensiero) dell’esplorazione spaziale come garanzia della pace: Leinster scrive infatti che «il segreto della pace era la libertà, e il segreto della libertà era quello di potersi allontanare dalle persone con le quali non si andava d’accordo». Semplice e condivisibile, come lo è anche il suo pessimismo – che pure ha lo stesso sapore libertariano – riguardo alla tirannia della tecnologia esasperata, quasi imposta, alla quale fa seguito una dipendenza totale dell’uomo dalle macchine (oggi potremmo dire dall’informatica) e poi, in assenza di esse, dai demagoghi o mezzi di «informazione» onnipresenti: «Perfino nelle civiltà più progredite che esistono su altri pianeti, pochi uomini usano realmente il proprio cervello. La stragrande maggioranza degli esseri umani dipende dalle macchine, non solo per i calcoli, ma anche per le decisioni. La maggior parte poi lascia che tutte le decisioni che non vengono prese dalle macchine siano prese dai loro capi». Che poi dovrebbe essere anatema per chiunque creda nella libertà individuale.
Da un punto di vista più strettamente stilistico, colpisce il taglio della narrazione: sono praticamente assenti i dialoghi, che iniziano ad affacciarsi solo nella seconda metà del secondo racconto col decisivo «Andiamo!» pronunciato da Burl a Saya, quando l’eroe riprende – e questa volta per sempre – il controllo sul suo gregge di ominicchi. Normalmente una storia senza dialoghi dovrebbe essere un mattone da leggere ma Leinster riesce a gestire così bene l’ambientazione e a intervallare le descrizioni dello scenario con i momenti di azione e gli avanzamenti di trama che l’assenza di interazioni tra i (pochi) personaggi non disturba affatto e non appesantisce nemmeno la lettura: si è invece via via sempre più immersi in questo mondo così lussureggiante, che la continua aggiunta di nuovi dettagli rende a suo modo sempre più concreto ma anche sempre più spaventoso.

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