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Rick Raphael – Servizio di pattuglia

Una qualità ormai perduta della fantascienza di un tempo – in particolare degli anni Sessanta e Settanta – era la disposizione a sperimentare: temi, trame, stili, finali, protagonisti, niente era fossilizzato in forme preconfezionate ma tutto giungeva in una varietà di sapori. Si prenda ad esempio «Servizio di pattuglia» (Code Three/Once A Cop», 1966) di Rick Raphael, un «fixup» di due racconti brevi pubblicati sulla rivista Analog che ha il coraggio di tentare vie nuove: il tema fantascientifico è appena accennato ed è tutto concentrato nell’ambientazione, una sorta di predizione del futuro prossimo venturo dei trasporti; i protagonisti sono eroi nel senso genuino del coraggio e del sacrificio ma non hanno nulla di superumano; la storia stessa non ha nemmeno una trama in senso stretto – e men che meno un finale che possa dirsi tale – ma è piuttosto una serie di episodi giustapposti per illustrare la dura quotidianità della stradale del domani.
Eppure, nonostante le deviazioni rispetto ai canoni familiari – ed ormai ingessati – della fantascienza, è un ottimo libro, che si legge tutto d’un fiato o quasi.

Due storie, un libro
Come detto, «Servizio di pattuglia» è un «fixup», ossia la fusione in un unico volume con una storia coerente di più racconti, due in questo caso e pubblicati entrambi su Analog, una delle ultime riviste di fantascienza: si tratta di «Code Three» (febbraio 1963) e «Once A Cop» (maggio 1964), poi riuniti in volume unico nel 1966 sotto il titolo comune di «Code Three/Once A Cop».
Entrambe le storie seguono le vicende degli stessi tre personaggi, l’equipaggio di un mezzo di pattugliamento della polizia in servizio sulle superautostrade del futuro, dove la velocità dei veicoli privati sfiora i mille chilometri all’ora: la trama è inconsistente, dal momento che si tratta della descrizione dei molteplici interventi – spesso banali – compiuti dai protagonisti nell’arco di alcuni giorni, intervallati da dialoghi e scene di convivialità tra i tre, il tutto tenuto insieme da una sorta di «maxitrama» necessaria per giungere all’epilogo di ciascun racconto.
Raphael ha grande cura per i dettagli e per la verosimiglianza del suo scenario futuro: si prende tutto il tempo necessario per spiegare sin nei particolari come si è arrivati a costruire queste superaustrostrade, come sono strutturate, come operano gli agenti della stradale, persino come sono attrezzati gli enormi automezzi su cui gli agenti si muovono e vivono durante i loro servizi di pattuglia. E a tutti questi dettagli merita di dedicare un po’ di spazio perché non solo sono molto accurati ma contribuiscono anche a rendere se non realistica almeno credibile tutta l’ambientazione.

Le superautostrade
Nel futuro prossimo immaginato da Raphael gran parte del traffico veicolare si è spostato sulle grandi superautostrade che percorrono tutto il continente nordamericano, dagli angoli più remoti del Canada e dell’Alaska sino alla punta meridionale del Messico: merito dei progressi compiuti dall’industria automobilistica, che in pochi decenni è passata dal motore a scoppio alla turbina, quindi ai reattori stradali ed infine al cuscino d’aria, al quale da un paio d’anni si sono affiancati i primi modelli di motore a reazione nucleare. «In seguito alle pressioni degli utenti che chiedevano veicoli sempre più veloci», scrive l’autore, «l’industria automobilistica si era vista costretta a mettere sempre maggior potenza a disposizione dei milioni di automobilisti, in continuo aumento, che affollavano le strade del continente. (…) Come le Ferrari e le Jaguar degli anni Sessanta sarebbero stati mezzi da suicidio sulle strette strade adatte ai modelli del primo Novecento, altrettanto lo sarebbero stati gli attuali veicoli sulle autostrade del 1960».
Queste superautostrade, gestite da un Ente sovranazionale che ha completa autorità sui veicoli e sulle persone che le percorrono (ad esempio, alla seconda infrazione commessa – anche lieve – un automobilista è bandito a vita dalle superautostrade), sono opere d’ingegneria spaventose, colate di asfalto e cemento che farebbero rabbrividire ogni ambientalista da salotto: larghe otto chilometri, sono suddivise in otto corsie (quattro per senso di marcia) di ottocento metri ciascuna, ripartite in base alla velocità dei veicoli (dai 160 ai quasi mille chilometri all’ora), con una striscia altrettanto ampia di terreno incolto a dividere le due direzioni.
A metà di ciascun senso di marcia – quindi tra le due corsie veloci verde e bianca e le due superveloci gialla e blu – corre un’ulteriore corsia, la rossa, larga solo quattrocento metri ma riservata alla polizia e ai mezzi di soccorso: per passare da una coppia di corsie all’altra (in sostanza dalla verde alla blu) i veicoli privati devono usare appositi cavalcavia situati ad intervalli regolari. Sebbene ci siano piazzole di sosta, di cui fanno frequente uso anche i tre protagonisti, non vengono citati né autogrill né stazioni di servizio; non viene nemmeno detto se l’ingresso alle superautostrade sia gratuito o abbia un costo.
Tutto il traffico è inoltre monitorato costantemente da una rete di telecamere collegate sia con la centrale del traffico sia con i mezzi della polizia.

La stradale
Anche gli agenti di polizia che pattugliano queste vie di comunicazione sono dipendenti dell’Ente sovranazionale che gestisce le superautostrade: viste le condizioni particolari in cui corre il traffico ed il pericolo rappresentato dalla velocità, la stradale è dotata di supermezzi corazzati grandi come vagoni ferroviari (sono lunghi venti metri ed alti e larghi quattro) nei quali gli agenti vivono per i dieci giorni di cui si compone ciascun turno, al termine dei quali seguono sempre cinque giorni di libertà. I Mezzi di Pattugliamento – questo il loro nome – sono una sorta di camper cingolato versione tutori della legge, con tanto di infermeria per sei persone, capace all’occorrenza di passare rapidamente al cuscino d’aria e raggiungere così i novecento chilometri all’ora: soprattutto per le emergenze mediche il loro compito è ovviamente il primo intervento, in attesa dell’arrivo degli ospedali viaggianti, più grandi e meglio attrezzati.
Partendo dalla cabina di guida a cupola, trasparente, questi mezzi dispongono sul lato sinistro di una piccola ma attrezzatissima cucina («di proporzioni ridotte, come la cucina di una nave spaziale: e infatti era stata proprio disegnata sul modello delle cucine delle astronavi in servizio sulla rotta lunare») e di una cabina con due letti a castello per i due agenti; sull’altro lato del corridoio si trova invece il bagno con doccia, comune a tutti gli occupanti del veicolo.
A metà del corridoio si trova la sala macchine e, oltre, una piccola officina meccanica, sovraccarica di pezzi di ricambio per i veicoli bloccati da un guasto, dotata anche di cannelli ossidrici per tagliare le lamiere delle macchine coinvolte negli incidenti.
L’ultimo scompartimento, in fondo al veicolo, è un’infermeria fornitissima, «che avrebbe fatto l’orgoglio di qualsiasi pronto soccorso e perfino di un piccolo ospedale»: è dotata di un «diagnosticatore» («un piccolo apparecchio capace di analizzare molte delle malattie conosciute e qualsiasi lesione interna o esterna su un corpo umano») e poi di ferri e lettini chirurgici, lettighe semoventi che possono essere collegate alle frequenze dei caschi degli agenti e sei lettini da ospedale in due castelli da tre, in uno dei quali dorme l’agente medico durante il servizio ordinario.
Il mezzo è infine attrezzato con una piccola camera di sicurezza per due sotto la cabina di guida, serbatoi che contengono schiuma antincendio, una torretta per sparare questa schiuma, una piccola gru per spostare i veicoli danneggiati e due cannoncini fissi, montati sul muso del veicolo.

I nostri eroi
Le due storie seguono le vicende dell’equipaggio del Mezzo di Pattugliamento numero 56, soprannominato «la Beulah»: sono il sergente capopattuglia Ben Martin, probabilmente del New England, di trentatré anni; il giovane agente Clay Ferguson, canadese, sui venticinque anni, al secondo anno di servizio e pessimo cuoco nonostante le velleità culinarie; e l’agente medico-chirurgo Kelly Lightfoot, per metà indiana e per metà irlandese, che di età sta tra gli altri due.
All’apertura del primo racconto i nostri stanno per riprendere servizio dopo il mese ininterrotto di ferie che spetta a tutti gli agenti ogni ventidue turni di pattugliamento (in sostanza undici mesi di lavoro): dalle loro interazioni appare chiaro che i tre sono ben affiatati e formano quasi una famiglia, quella che nessun agente in servizio attivo riesce a costruirsi, dato che il mestiere è impegnativo, esigente e non permette di mettere radici da nessuna parte. C’è cameratismo tra i tre e rispetto reciproco: ognuno sa di poter contare ciecamente sugli altri due e ne rispetta ruoli e capacità, un atteggiamento che scalda il cuore e costruisce una delle attrattive di questo romanzo, che altrimenti si ridurrebbe ad una fredda enunciazione di fatti di cronaca.
A lungo viene lasciato intendere che ci sia del tenero incipiente tra Ferguson e la Lightfoot ma nel secondo racconto, nell’unico passaggio che abbia qualcosa di paragonabile al «romantico», si scopre la verità: una relazione c’è ma riguarda la Lightfoot e Martin, che però è ancora riluttante. Non perché sia allergico al matrimonio ma perché il servizio viene prima di tutto: ed il sergente, che riveste il ruolo di padre e maestro di Ferguson, vuole restare in servizio ancora un anno o due per terminare la formazione del promettente canadese e portarlo a diventare un ottimo capopattuglia prima di rinunciare al servizio attivo. Solo a quel punto Martin chiederà il trasferimento ad un ufficio e potrà pensare di costruire una famiglia con la dottoressa, che invece, grazie all’esperienza maturata nella stradale, non avrà problemi a trovare un impiego nel pronto soccorso di qualsiasi ospedale desideri.

La prima parte: Code Three
La maxitrama di «Code Three» riguarda la cattura di due giovani che, dopo una sanguinosa rapina in banca dove sono rimasti uccisi due impiegati e la guardia giurata, si sono messi in fuga su una macchina rubata, lasciandosi dietro una scia di sangue. Questa storia rimane sullo sfondo con saltuari aggiornamenti per quasi tutto il racconto, sino alle ultime pagine, quando la Beulah si trova nella posizione ideale per inseguire da vicino i fuggiaschi e coordinare l’intervento degli altri mezzi: il «codice tre» del titolo si riferisce proprio al codice di emergenza realmente in uso che autorizza l’impiego dei lampeggianti e delle sirene.
La storia si apre alla stazione di polizia di Filadelfia, dove i nostri eroi stanno riprendendo servizio al termine del mese di ferie, che hanno sfruttato in modi completamente differenti: la Lightfoot per frequentare corsi di aggiornamento, Martin per visitare la sorella e fare lo zio generoso coi tre nipotini, Ferguson per dedicarsi al suo passatempo preferito (ha sempre con sé la classica «agendina» con numeri di telefono che gli assicurano compagnia femminile in ogni città e cittadina del Nord America).
La prima parte del racconto è un «info dump», ossia il riversamento di tutte le informazioni necessarie per entrare rapidamente nell’ambientazione: in lunghi paragrafi vengono descritti il funzionamento delle superaustostrade, la struttura della stradale, i mezzi di pattugliamento e tutto ciò che aiuta a calarsi nella storia. Ulteriori spiegazioni verranno aggiunte nelle pagine successive, per tutto il racconto.
Si apprende così che la prima destinazione della Beulah, interamente revisionata, è St. Louis, sulla 26 Ovest: lungo la strada i nostri intervengono in un incidente con morti (causato, si scoprirà, dalla Travelaire rubata dei rapinatori), soccorrono un macinino con quattro giovanotti a bordo che si è bloccato in mezzo alla corsia superveloce (con multa al giovane guidatore, come lezione, perché sulle superautostrade non si scherza), intervengono nell’immancabile parto per strada ed infine partecipano all’inseguimento della macchina dei rapinatori, sotto una tormenta di neve.
L’epilogo della storia è piuttosto breve: spostandosi tra le corsie, la Travelaire dei fuggiaschi (un nome creativo, che richiama sia il viaggiatore – «traveler» in inglese – sia il cuscino d’aria su cui la macchina viaggia) tocca il cordolo che divide la strada dalla striscia incolta tra i due sensi di marcia, prende il volo e si schianta nell’avvallamento. I due rapinatori si gettano fuori dall’auto in fiamme e sparano all’impazzata contro i mezzi della polizia: alcune pallottole esplosive colpiscono anche la cupola della Beulah, che però si trova a monte rispetto ai due uomini e così non feriscono gli agenti. Ma in quella un altro mezzo della stradale risponde al fuoco con i cannoncini di testa e fa esplodere la macchina, uccidendo sul colpo i due criminali.
Nel finale la Beulah viaggia sotto una tempesta di neve verso la stazione di polizia di Wichita in Kansas per le riparazioni, con la cabina di guida distrutta nella sparatoria e completamente innevata: guida Ferguson dal momento che Martin si trova sotto trazione in infermeria, perché nell’inseguimento gli si era spostata una vertebra del collo.

La seconda parte: Once A Cop
La maxitrama del secondo racconto è più articolata e ruota attorno al fermo per guida in stato di ebbrezza del classico figlio di papà prepotente e presuntuoso, sino al processo con dura condanna del giovane: il titolo fa riferimento ad un’espressione usata dai poliziotti americani, «Once a cop, always a cop» (poliziotto per un giorno, poliziotto per tutta la vita), che indica l’incapacità dei tutori dell’ordine di scendere a compromessi col crimine.
Per l’equipaggio della Beulah, che si trova dalle parti di San Francisco, sono le ultime ore di servizio prima dei cinque giorni di permesso sotto il sole della California: al momento però si trovano immersi nella nebbia più fitta, che ha già causato un incidente grave nella corsia gialla superveloce, adesso chiusa al traffico. A Martin, che è alla guida del mezzo, cade l’occhio su uno degli schermi costantemente collegati con le telecamere di controllo del traffico, sul quale nota una macchina solitaria che corre proprio sulla corsia gialla, sparata verso il groviglio dell’incidente.
Martin segnala il pericolo alla centrale e si lancia immediatamente all’inseguimento del veicolo, che viaggia a novecento chilometri all’ora e rifiuta di fermarsi: l’agente riesce però a superarlo e a spruzzare una miscela di «fiocchi di plastica» che, sotto l’effetto combinato di velocità d’impatto e calore, aderiscono al parabrezza e bloccano la visuale, rendendo di fatto impossibile la guida. La macchina, una Cadillaire, è quindi costretta a fermarsi di colpo, a meno di otto chilometri dalla barriera dell’incidente.
Il guidatore è un giovane ubriaco in abito da sera, accompagnato da una donna ed una coppia di amici: da subito fa lo sbruffone e, per togliersi dai guai, cerca di corrompere gli agenti; scatta così l’arresto che costituisce il nucleo di questo racconto. Il giovane, Kevin Shellwood, è il figlio di un ricco e influente industriale californiano: questa è la sua seconda infrazione di guida e quindi rischia l’interdizione a vita dalle superautostrade.
Rinchiuso il ragazzo nella camera di sicurezza, la Beulah riparte ma poco dopo deve intervenire in un nuovo incidente, con decine di veicoli coinvolti: morti e feriti non si calcolano. Shellwood, liberato sulla parola ma consegnato nel mezzo sino al termine dell’emergenza, si getta tuttavia nel disastro e dà una mano agli agenti: questa azione almeno gli vale un po’ di rispetto da parte dei protagonisti.
Raggiunta Los Angeles e terminato il servizio, i nostri trovano la stampa che ha preso d’assedio la stazione di polizia: fanno anche la conoscenza del padre del ragazzo e dei suoi avvocati che, in sostanza, cercano di corrompere Martin per far cadere le accuse. Gli offrono un posto da dirigente nelle aziende Shellwood (delle quali è dipendente anche sua sorella, nel New England, che minacciano di licenziare) ma lui, incorruttibile, rifiuta le offerte: anzi, sotto consiglio del capitano della polizia di Los Angeles, finge di accettare l’offerta solo come esca per far poi cadere Shellwood padre ed i suoi avvocati nella grande rete tesa dalla polizia.
Dopo un servizio abbreviato ad Oklahoma City, i nostri fanno ritorno a Los Angeles per il processo, che si celebra appena un paio di settimane dopo l’arresto di Shellwood figlio: la condanna è durissima, ritiro della patente di guida a vita e cinque anni di carcere, ridotti a tre su raccomandazione di Martin (per l’aiuto prestato nell’incidente); il giovane, che il giudice definisce «il prodotto del [suo] ambiente e della [sua] famiglia», dovrà inoltre scontare l’ultimo anno della pena non in carcere ma come apprendista su un’ambulanza del soccorso autostradale, perché «le leggi sono fatte per tutti e non esiste una classe privilegiata».

Come un vecchio telefilm poliziesco
Se a questo punto non è venuta voglia di leggere «Servizio di pattuglia», anche solo per curiosità, allora difficilmente la lettura potrà renderlo più interessante: è infatti un esperimento narrativo, che in certa misura ricorda i telefilm polizieschi più leggeri degli anni Settanta come i Chips, costruiti più sull’interazione tra i personaggi che sulla trama sorprendente o misteriosa. Sono episodi di cronaca così come avvengono – e in molti casi non meriterebbero nemmeno una breve sui giornali – fatti semplicemente passare attraverso il filtro del narratore, che aggiunge calore ed umanità alle fredde informazioni.
L’ambientazione è solida e accattivante, merito soprattutto della cura con cui viene descritto quasi ogni particolare, che così la rende verosimile: si avverte tra le righe un certo pessimismo antiurbanizzazione tipico degli anni Sessanta e Settanta, probabilmente più un riflesso condizionato dell’epoca a tutto quello che era collegato alle grandi opere d’ingegneria che un vero giudizio negativo sul progresso che devasta l’ambiente. Anche da questo punto di vista la lettura del libro è una ventata di fresco, perché nessun autore moderno che scrivesse una storia simile oggi rinuncerebbe all’opportunità di includere pistolotti ambientalisti o moraleggiare sulle conseguenze sociali ed ecologiche delle superautostrade.
Il libro va letto per quello che è: un paio di puntate di un vecchio telefilm poliziesco.

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