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H.P. Lovecraft – Colui che sussurrava nel buio

Ciò che impedisce a «Colui che sussurrava nel buio» di Howard Phillips Lovecraft (The Whisperer in Darkness, 1931) di essere una storia migliore è proprio il suo cardine: Albert Wilmarth, l’erudito protagonista, così affetto da ottusità selettiva che, nonostante la sua intelligenza, riesce a non cogliere al volo gli indizi importanti, a non porsi le domande più ovvie e di conseguenza a non rendersi nemmeno conto della situazione in cui si è cacciato. Perciò il racconto della sua piccola indagine riesce un po’ forzato: buono, certo, e a tratti pure avvincente ma nell’insieme privo di mordente. Mi riferisco in particolare all’assenza della capacità di rapire il lettore e di guidarlo in una mezza realtà alternativa così convincente da sembrare quasi autentica, una caratteristica comune invece alle altre storie più riuscite di Lovecraft, come le tre che lo precedono nella classifica dei suoi migliori racconti, ossia «Il richiamo di Cthulhu», «Il caso di Charles Dexter Ward» e «Il colore venuto dallo spazio». Al contrario di quelle, in questa il lettore è costretto a mandar giù l’ingenuità improbabile del protagonista e ad accettarne le conseguenze, un classico ed abusato espediente narrativo che serve solo per far crescere il mistero e ritardare la rivelazione.
E così nella citata classifica «Colui che sussurrava nel buio» si piazza solo al quarto posto: buono, ma non così buono come sarebbe potuto essere.

Un misto di fantascienza e orrore
Pubblicato nel numero di agosto 1931 di Weird Tales, «Colui che sussurrava nel buio» è uno dei racconti più noti di Lovecraft: mescola un pizzico di fantascienza al più consueto orrore cosmico e si aggrappa alla recente scoperta di Plutone – che risale all’anno precedente – come ponte tra la realtà e la finzione. Nonostante l’incursione della fantascienza non solo non manca nessuno dei classici riferimenti al ciclo di Cthulhu, al quale la storia fa esplicito richiamo, ma anzi ne amplia il patrimonio: in più punti vengono infatti citati i nomi caratteristici del Mito, come l’immancabile Necronomicon e gli altri scritti e libri fittizi; le varie località misteriose della terra come l’altopiano di Leng, R’lyeh e, appunto, Yuggoth (che sarebbe Plutone); e le varie entità misteriose come lo stesso Cthulhu, Hastur, Nyarlathotep e compagnia. L’oscuro riferimento ad un certo «gran sacerdote Klarkash-ton», custode di un libro imprecisato, strappa invece un sorriso perché dietro al nome di fantasia si riconosce Clark Ashton Smith, corrispondente di Lovecraft ed autore a sua volta di pregevoli racconti orrorifici e d’atmosfera: l’inclusione di personaggi chiamati con una corruzione del nome di questo o quel corrispondente era una piccola dimostrazione d’amicizia che gli autori del Mito erano soliti scambiarsi nei loro racconti.
Nell’insieme il racconto, come detto, paga un po’ la forzatura di alcuni passi e per questo riesce meno gradevole dei più noti «Il richiamo di Cthulhu», «Il caso di Charles Dexter Ward» e «Il colore venuto dallo spazio», che hanno il pregio di mantenere intatto quel senso di falso realismo che nasce dal leggere una notizia di cronaca.

I nuovi e misteriosi alieni
Nonostante la presenza in massa di tutto il Mito, la storia ruota attorno ad una nuova razza extraterrestre, i Mi-Go, che sarebbero presenti sulla terra sin dalla notte dei tempi: secondo le informazioni raccolte dai protagonisti, questi alieni avrebbero costruito degli avamposti sotterranei in zone remote, come le colline del Vermont, per scavare un certo metallo di cui hanno bisogno. Tuttavia, a differenza delle altre creature che infestano il Mito, questi esseri sono indifferenti verso l’uomo, purché l’uomo non vada a ficcare il naso nei loro affari: tutta la storia nasce proprio dall’eccessiva curiosità di un certo Henry Akeley, che vive in una fattoria isolata in una remota zona del Vermont, vicino ad uno di questi avamposti.
Descritti come esseri simili a granchi di colore rosa, alti sul metro e mezzo, con un paio di ali rudimentali e con la testa a cono dalla quale spuntano tanti piccoli tentacoli, i Mi-Go sono di natura più simile ai funghi che agli animali: tuttavia gli atomi di cui sono composti sono disposti in un modo così particolare che non impressiona i negativi quando si cerca di fotografarli. Così è impossibile produrre la prova visibile della loro esistenza: perché anche i corpi si dissolvono entro poche ore dalla morte.
Anche se il loro nome verrebbe dal tibetano «migou», che indicherebbe lo yeti, in realtà i Mi-Go provengono da molto più lontano: lo spazio profondo, «oltre l’ultimo cerchio dello spazio». E hanno colonie ovunque: sono infatti in grado di viaggiare nello spazio per mezzo delle loro piccole ali, inadatte però al volo nell’atmosfera terrestre. Indifferenti verso l’uomo, sembrano ben disposti verso coloro che non curiosano nelle loro cose o non li infastidiscono: si servono infatti di agenti umani e, pare, hanno anche grande rispetto per gli scienziati terrestri, alcuni dei quali sono persino loro ospiti su Yuggoth (ossia Plutone), dove hanno il loro centro principale nel sistema solare. Il problema però è che l’unico modo per poter trasportare un uomo nello spazio è separare chirurgicamente il cervello dal corpo ed infilarlo in speciali contenitori che, una volta collegati alle macchine adatte, permettono al cervello di vedere, parlare e sentire normalmente: in altre parole, il classico cervello in barattolo per cui impazziva la superscienza di un secolo fa.
Pare però che l’operazione sia reversibile: e finché il cervello è fuori sede, il corpo non invecchia nemmeno.

Dai primi indizi alle prove concrete
L’interesse della storia e degli abitanti del New England per i Mi-Go risale all’autunno 1927, quando una serie di piogge ed alluvioni avevano causato danni enormi nel Vermont: qualcuno all’epoca aveva riferito pure di aver visto galleggiare nei fiumi ingrossati dei corpi dalle forme non umane, sui quali tuttavia nessuno era riuscito a mettere le mani. Gli avvistamenti però furono sufficienti per accendere un intenso dibattito sui quotidiani locali riguardo a queste creature, che qualcuno aveva subito collegato ad esseri delle leggende indiane chiamati «Quelli dalle ali nere» ed altri, per lo più di origine irlandese, al «piccolo popolo»: fate e folletti.
Proprio attraverso le pagine dei giornali iniziano i contatti tra il protagonista ed il suo corrispondente, in sostanza i due personaggi principali di tutta la vicenda: il primo, Albert Wilmarth, è un professore dell’università Miskatonic di Arkham ed un appassionato di folclore; il secondo invece è un certo Henry Akeley, che nella storia non compare mai di persona ma solo per il tramite delle lettere che spedisce al protagonista. I contatti tra i due proseguono per diversi mesi: Akeley informa così Wilmarth delle sue scoperte su queste creature, che includono la registrazione di un cerimoniale – registrato addirittura nel 1915 – dove compaiono sia voci umane sia le voci ronzanti degli esseri sconosciuti, ed una pietra nera incisa con geroglifici, pure questi alieni di forma e di significato. Questa pietra, inviata al narratore per posta, andrà tuttavia persa: tutto lascia intendere che sia stata recuperata dagli agenti degli alieni, che possono facilmente localizzare i loro ideogrammi.
Da questo momento in poi gli eventi scalano rapidamente: Akeley, che abita in una fattoria isolata in una zona remota del Vermont, a breve distanza da un avamposto dei Mi-Go, viene presto assediato dagli alieni e sa di essere in pericolo di vita. Il buon senso gli suggerisce di fuggire e cercare rifugio dal figlio in California ma è così affezionato ai luoghi in cui è nato che non riesce a prendere questa decisione: e così ogni notte deve stare in guardia e spesso difendersi da attentati alla sua vita anche di giorno.

Un orrore piuttosto forzato
La situazione rimane così in stallo per mesi finché, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 1928, non esplode: fino a quel momento Wilmarth, sempre seduto nel suo studio, non aveva fatto altro che restare in ansia per il conoscente ma non aveva mosso un dito per soccorrerlo; si era solo limitato ad accumulare il materiale e le informazioni che Akeley continuava a mandargli. Finalmente, agli inizi di settembre 1928, il protagonista si decide a far visita al suo corrispondente in risposta ad un sospetto invito di questi: ma arriva un giorno troppo tardi, perché alla fattoria di Akeley è appena successo qualcosa che ha portato ad un’evidente sostituzione di persona, di cui solo l’ingenuo Wilmarth riesce a non rendersi conto. Prima di tutto, perché Akeley era solito scrivere a mano ma l’ultima lettera, quella con la quale invita Wilmarth alla fattoria, è interamente battuta a macchina, firma inclusa; in secondo luogo, perché il suo tono da apocalittico è diventato pacato; e da ultimo, perché è cambiato anche il suo atteggiamento verso i Mi-Go, dall’aperta diffidenza e ostilità ad una comprensione, quasi amore, per gli alieni.
Nonostante questi indizi, ai quali se ne aggiungono altri ancora più evidenti raccolti sul posto, quando giunge alla fattoria non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che la persona che ha di fronte non sia Akeley bensì un impostore: e così senza fiatare restituisce al finto corrispondente tutte le lettere e i documenti, registrazione inclusa, che gli erano stati inviati e che formavano la totalità delle prove sull’esistenza e sulle attività dei Mi-Go. Si beve infatti la scusa di una malattia improvvisa che costringe sì l’uomo a star fermo in poltrona, al buio, ma gli permette anche di conversare per ore su argomenti esoterici come il culto di Cthulhu, senza nemmeno muovere le labbra e con gli occhi spalancati e fissi.
Solo nel finale il protagonista rinsavisce, per l’immancabile effetto drammatico: Wilmarth finalmente collega tra loro gli indizi e, dopo essersi ritirato in camera per la notte, si rende conto della situazione, complici anche le inspiegabili voci che gli giungono dallo studio (che si trova proprio sotto la sua camera) e lo mettono in allerta. Solo a questo punto inizia a temere per la propria vita: ma se fosse davvero in pericolo non ci sarebbe stato bisogno di tutta quella mascherata, dal momento che la fattoria è così lontana da qualsiasi altro luogo abitato che persino una serie di spari all’aperto non verrebbe udita da nessuno.
Ad ogni buon conto, questa è la scusa che permette di chiudere il racconto con la classica fuga a causa del più classico orrore indicibile: rinvenute nello studio buio la maschera e le finte mani indossate dal suo interlocutore, Wilmarth comprende infine non solo che l’essere con cui aveva parlato non era Akeley ma probabilmente un Mi-Go travestito ma anche che c’è una ragione se uno dei cervelli in barattolo che gli erano stati indicati in precedenza – non tutti umani – porta l’etichetta «Henry Akeley».
Ma come sempre nessuno gli crede perché l’indomani ogni prova è scomparsa.

Salvato da un paio di buone idee
La trama come visto è un po’ deboluccia e, nonostante un paio di buone idee che descriverò più avanti, suona forzata: così gli aspetti migliori della storia possono sfuggire.
Per meglio comprendere la struttura, può essere infatti utile dare un’occhiata ad uno schema sintetico degli otto capitoli che compongono il racconto: il primo serve da introduzione, con il resoconto dei fatti di cronaca dell’autunno del 1927; nel secondo iniziano i contatti epistolari tra Wilmarth e Akeley, che manda al protagonista il rullo con l’incisione del rituale: il terzo capitolo è dedicato proprio alla descrizione e all’analisi dei contenuti di questo rullo. Nel quarto capitolo esplode la crisi, con gli assedi notturni alla fattoria, alla quale segue, nel quinto, la lettera di rassicurazione battuta a macchina dal finto Akeley, con l’invito a fargli visita: il sesto capitolo serve da ponte, perché descrive l’arrivo del protagonista alla fattoria e prepara il finale, con la comparsa dei primi indizi. Il settimo capitolo è il cuore del racconto: Wilmarth incontra il finto Akeley e ottiene da lui tutte le rassicurazioni e le informazioni che desiderava, più molto altro ancora. Ed infine l’ottavo capitolo è l’epilogo, con la realizzazione dell’orrore vissuto dal protagonista e la sua fuga precipitosa.
La struttura è quindi abbastanza tipica dei racconti di Lovecraft ed infatti segue lo stile cronachistico che gli è tipico: è un modo di scrivere efficace per il tipo di storie che racconta, perché riesce a tenere desta l’attenzione mediante l’aggiunta continua di pizzichi di informazioni che così insaporiscono lentamente il mistero; e, sorprendentemente, lo infittiscono invece di risolverlo.
Tuttavia, mentre questo approccio funziona molto bene in altre storie, come le tre già citate, qui fa acqua: perché la trama di questa storia regga servono infatti determinate reazioni da parte del protagonista, che però non sono né naturali né credibili ma suonano piuttosto forzate. Non c’è niente di male nello spingere un po’ la mano e pilotare la storia nella direzione che fa comodo ma qui il pugno dell’autore va giù pesante e finisce per spezzare l’incantesimo: un pizzico di ingenuità da parte del protagonista ci sta; il suo procedere bendato ignorando tutti gli ovvi indizi che continuano a spuntargli attorno è inverosimile, tanto più che Wilmarth già nutre parecchi dubbi di suo.
È proprio questo bisogno di una «restrictio mentis» da parte del lettore a rovinare il racconto nel suo insieme e ad impedirgli di essere migliore: perché la sua trama abbia un senso occorre infatti mettersi al livello del protagonista e fingere di non capire come stiano le cose. Che già sarebbe fastidioso di suo ma qui è pure illogico – fuori personaggio – perché Wilmarth viene presentato subito come uomo di grande cultura (è persino un docente universitario) e quindi meglio di altri dovrebbe essere capace di mettere in correlazione gli indizi e leggere al si là dell’apparenza.
E così si sprecano le buone idee alle quali si è accennato sopra, prima tra tutte l’aggiunta dell’elemento fantascientifico alla consolidata formula che unisce realtà e orrore: per le informazioni fornite, i Mi-Go infatti sono una razza aliena ricca di fascino, che riesce ancora più curiosa perché la loro indifferenza nei confronti dell’uomo costituisce una novità all’interno del Mito, dove tutto invece ambisce al caos e alla distruzione.
Anche l’idea del racconto epistolare – in buona parte – sarebbe una bella variante alla classica formula cronachistica dei racconti di Lovecraft: in sé non è altro che una variante dell’inclusione di un documento storico, solo che, raccontando un fatto recente e non sepolto nel tempo, permette di portare avanti la storia e di farne narrare gli sviluppi da una seconda voce. L’esperimento non è ancora perfettamente regolato ma già mostra il suo potenziale narrativo.
Nell’insieme quindi la storia ha alcuni elementi positivi ma questi sono schiacciati dai suoi problemi: l’inclusione dell’elemento fantascientifico infatti è riuscitissima – non è un caso se i Mi-Go sono tra i mostri che ricorrono più spesso nelle storie degli autori successivi, e pure nei giochi ispirati al Mito – ed è una novità gustosa per un genere che tende a divenire ripetitivo molto presto.
Ed è per questo che valuto così bene la storia, anche se i suoi meriti stilistici sarebbero ben minori.

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