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John Jakes – Sangue di strega (Brak 2)

Come ben sanno tutti gli appassionati, la sword and sorcery è un genere che punta sull’azione, sull’immediatezza, sulla velocità: dettagli come la crescita del personaggio, i suoi dilemmi interiori, l’intreccio ingarbugliato non le appartengono, se non in dosi molto contenute. E quando proprio la trama si fa troppo intricata, deve essere sempre possibile risolverla non svolgendo pazientemente il nodo pezzettino per pezzettino ma tagliandolo di netto come Alessandro Magno a Gordio: in altre parole, tirare per le lunghe una storia di sword and sorcery significa snaturarla, ucciderla, perché è un po’ come usare una Ferrari per fare la spesa. E così si spiega anche perché «Sangue di strega» di John Jakes (Witch Of The Four Winds, 1963; anche: Brak Versus The Sorceress, 1969), secondo volume delle avventure di Brak il barbaro, è un naufragio completo: perché qui l’eroe esce dal suo ambiente naturale – le storie brevi o di media lunghezza – per essere trapiantato in un terreno che non gli appartiene, quello del romanzo completo, ingarbugliato e pure piuttosto lungo. Che infatti, orfano di un’identità, si trascina senz’anima e senza trasporto già dal primo capitolo.

Una delle quattro storie tradotte in italiano
Pubblicato in due puntate su Fantastic nel novembre e dicembre 1963 col titolo di «Witch of the Four Winds» e poi in volume già nel 1969 sotto il titolo di «Brak the Barbarian Versus the Sorceress» col quale è conosciuto ancora oggi, «Sangue di strega» è il secondo episodio in ordine cronologico (non di pubblicazione) delle avventure del barbaro protagonista, che erano cominciate con la raccolta «Brak the Barbarian», un’antologia – quasi un fixup – di cinque racconti superficialmente collegati tra loro: per un approfondimento sul personaggio e sull’ambientazione rimando quindi a quella recensione.
Ma «Sangue di strega» è anche una delle quattro avventure di Brak tradotte in italiano: anche se non è la prima ad essere apparsa nel nostro paese, in un certo senso rappresenta comunque il suo esordio in Italia, dal momento che nella cronologia interna viene prima di tutte le altre storie pubblicate da noi. Si tratta quindi probabilmente del primo contatto dei lettori italiani con questo gradevolissimo personaggio – uno dei migliori «clonan» in circolazione – ma, dal momento che è anche la meno rappresentativa, rischia anche di gustare il giudizio su Brak, che in questo romanzo non brilla affatto: ma la colpa è dell’intreccio, non del personaggio.
Già che siamo in tema di traduzioni italiane, Brak è arrivato in Italia nel 1979 con «Il giardino dello stregone» (Ghoul’s Garden, 1973), contenuto in una delle antologie della serie «Flashing Swords» poi confluite nella raccolta «Heroic Fantasy. Il meglio della fantasia eroica moderna» della Fanucci: il racconto è pubblicato anche nel volume conclusivo delle sue avventure, il quinto, «The Fortunes of Brak», del quale scriverò a tempo debito. Il secondo episodio della sua marcia verso Khurdisan uscito in Italia è il citato «Sangue di strega», pubblicato l’anno successivo nell’antologia «Alla corte degli eroi», l’oggetto di questa recensione. L’anno dopo ancora, il 1981, è invece uscito «Tempesta in bottiglia» (Brak in Chains/Storm in a Bottle, 1977) che, ancora una volta, da un’antologia della serie «Flashing Swords» è poi finito nel volume «Maghi e guerrieri. Altre storie di fantasia eroica» della Fanucci: anche questo è poi stato incluso in «The Fortunes of Brak». Il quarto e ultimo racconto del barbaro tradotto in italiano è «I diavoli nei muri» (Devils in the Walls, 1963), uscito nella raccolta «Fantasy» della collana Grandi Opere Nord (1985, con ristampe nel 1988 e 1996): anche questo è contenuto in «The Fortunes of Brak».
E, tanto per eliminare subito ogni incertezza, in tutti e tre gli altri racconti tradotti Brak è molto più in forma che in «Sangue di strega».

Una trama tirata per i capelli
Questo romanzo infatti non ha mordente: tradisce tutto quello che contribuisce a rendere così avvincenti le altre storie di Brak, non solo quelle pubblicate nel volume precedente, quello per così dire d’esordio, ma anche le tre tradotte in italiano, che sono tra le più saporite.
Prima di tutto è lenta: impiega quattro capitoli (su dodici) per entrare nel vivo della storia. Poi ne spreca altri tre per una «side quest» inutile: uccidere un serpente gigante che se ne stava tranquillo nel suo buco (dal quale non poteva nemmeno uscire) finché non veniva disturbato.
Non ci vuole molto per capirne la ragione: nella storia non c’è polpa sufficiente per reggere un intero romanzo. Così quel poco che c’è viene tirato per le lunghe, spesso con artifici grotteschi e anticlimatici che rallentano il ritmo della vicenda e servono solo per allungare il conto delle parole. Che poi è il peccato mortale della sword and sorcery: quando il lettore inizia ad annoiarsi, l’autore ha fallito.
In secondo luogo, ci sono troppi personaggi, quando una delle virtù delle storie delle storie di Brak più riuscite è proprio l’economia del cast: non dico che potrebbero essere eliminati – tutti hanno una loro funzione, per lo più modestissima – ma la loro presenza sovraccarica la trama di informazioni superflue. Basti dire che ci sono ben quattro antagonisti, di cui due non umani: questo presuppone quattro scene risolutive, che già di loro appesantiscono la narrazione perché non possono certo essere liquidate in due righe.
Ed invece è proprio quello che accade: mentre Jakes da un lato spreca ben tre capitoli per il citato serpentone (che si può considerare l’antagonista neutrale, il meno rilevante dei quattro) e allunga l’intreccio con scene non necessarie, dall’altro liquida i restanti tre oppositori l’uno al termine di una piazzata dettata dalla gelosia che suscita soprattutto compassione per la fragilità emotiva del rivale; e degli altri due si sbarazza con un provvidenziale intervento dall’esterno (il classico «deus ex machina») che provoca una catena di eventi insensati, senza che Brak possa nemmeno far cantare la sua spada per ribadire chi è che comanda.

Un personaggio fuori personaggio
Così il nostro barbaro esce sì vincitore ma più per una combinazione di circostanze che per la sua abilità, tanto fisica quanto mentale: perché se è vero che la fortuna è una delle caratteristiche fondamentali di un eroe della sword and sorcery è anche vero che questo eroe deve saper usare la sua intelligenza o scaltrezza almeno tanto quanto la sua forza fisica. Ed invece in «Sangue di strega» si comporta da cretino e, quel che è peggio, a ripetizione: ad esempio, aiuta il principe ad evadere dalla prigione ma poi, per evitare che le guardie lo scoprano e possano mettersi all’inseguimento, decide di rimanere nella cella sostituendosi all’evaso sino al mattino, quando si lascia prendere, disarmare e condurre al cospetto della strega del titolo, l’antagonista principale, senza nemmeno accennare un briciolo di resistenza.
Poi, tornato in cella (un’altra), si lascia prendere docilmente una seconda volta e murare vivo in una sorta di caverna senza fondo, sempre senza combattere. E più tardi ancora, di fronte alle consuete minacce di ritorsione, invece di tentare la sorte con la strega che è a pochi passi da lui, abbassa mansueto la testa, consegna la spada e torna da sé all’interno del castello, dove viene prontamente imprigionato per l’ennesima volta: e ancora una volta senza combattere.
Non che cambi molto, sia chiaro, perché quando lo fa – quando combatte cioè – viene steso facilmente: in almeno quattro occasioni (con una quinta dubbia) viene colpito alla testa in battaglia e perde i sensi come una donnicciola ma se la cava solo perché così vuole la trama. Per carità, lo svenimento ci sta (capita persino a Conan), ma dev’essere un caso isolato: quando diventa l’espediente prediletto per chiudere una scena e passare alla successiva è impossibile non perdere la stima nei confronti di un eroe che così barbarico proprio non sembra. Un vero eroe non può essere atterrato così facilmente.
Nell’insieme quindi questo Brak è un personaggio ben diverso dal barbaro combattivo e pieno di risorse che si era messo in mostra nella raccolta precedente e che solitamente si può apprezzare anche negli altri racconti: la ragione quindi non può che essere una sola, la lunghezza forzata della storia, che per riempire un libro intero deve essere stirata in qualche modo, a costo di forzare la logica e di snaturare il personaggio.
Così esorto il lettore italiano che dovesse essersi imbattuto in questo libro senza conoscerne già il protagonista e dovesse averlo giudicato scadente per qualche ragione – probabilmente le stesse che ho appena esposto – a non lasciarsi ingannare da «Sangue di strega»: Brak e le sue storie sono molto migliori di questa. Basta solo dargli una seconda possibilità.

La strega in cerca di oro
Nel suo lungo viaggio a sud verso la lontana Khurdisan, Brak trova la strada sbarrata da una frana ed è quindi costretto a procedere in un’altra direzione, inoltrandosi in una regione che altrimenti avrebbe ignorato: qui salva subito Elinor, una pastorella che si era introdotta nella tana dell’Uomoverme – un serpente gigante – per recuperare una pecora sfuggita; e poi scambia due parole con un certo Ambrose, uno stilita nestoriano che ha la sua colonna proprio fuori dalla tana della bestia e, invocando l’intervento del Dio Senza Nome, lo aveva aiutato nel salvataggio con un’improvvisa infusione di forza prodigiosa.
Durante questa sua breve assenza qualcosa fa a pezzi il suo pony (lo scempio iniziale della cavalcatura è una costante di quasi tutte le storie di Brak: strano che la protezione animali non sia mai intervenuta), così il barbaro è costretto a proseguire a piedi attraverso una terra che un tempo era fertile e ricca ma ora è arida, povera, deserta, disabitata: alla prima locanda in cui si ferma riceve i primi scampoli di informazioni e, quella sera, incontra anche la causa sia dei mali della regione sia della morte del suo cavallo.
Su un cocchio giungono infatti Nordica Fire-Hair ed un mago dall’aspetto misterioso di nome Tamar Zed che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, è subordinato alla splendida ragazza dai capelli rossi. Alla scomparsa del padre – Celsus Hyrcanus, un alchimista – Nordica infatti ha subito un cambiamento radicale: dalla fanciulla cara e buona che era è diventata una donna crudele e malvagia. Si dice addirittura che sia stata lei stessa a sbarazzarsi del padre, che poco prima di morire avrebbe scoperto come tramutare il piombo in oro: e questa sarebbe stata la causa del patricidio.
Con loro arriva anche il cagnolino di Nordica, Scarletjaw, una creatura infernale lunga tre metri e ricoperta da una pelliccia di metallo, impossibile da scalfire: per ammissione di una divertita Nordica, è stato proprio Scarletjaw a fare a pezzi il cavallo di Brak, che perciò si scaglia dissennatamente contro la bestia nonostante i tentativi di dissuasione dei soldati presenti. Dal gesto il barbaro ricava solo alcuni graffi ed una brutta figura, perché non riesce a ferire il mostro e viene salvato solo da un secco ordine di Nordica, che mette a cuccia la bestia.

Catturato. Senza nemmeno combattere
L’indomani Pemma, il figlio del re, passa alla locanda con un dono del padre: uno splendido cavallino già sellato, la ricompensa per aver almeno tentato di opporsi alla strega. Da quasi un anno infatti, da quando cioè è avvenuto il cambiamento nella figlia di Celsus, il terrore si è impadronito degli abitanti di quella terra, inclusi i soldati, che ogni giorno disertano a decine per unirsi al nuovo esercito di Nordica.
Assieme i due cavalcano verso il castello del re Strann, vecchio e malato: ma ad un bivio Pemma abbandona l’eroe per andare a lavorare nel campi, perché più che uno statista o un guerriero lui è un contadino, come tradiscono i semplici indumenti da lavoro che indossa.
Al castello finalmente viene rivelata tutta la storia: meno di un anno prima l’alchimista Celsus Hyrcanus, uomo di indole buona, aveva scoperto il modo per tramutare il piombo in oro ma proprio nello stesso momento la figlia Nordica, un tempo così gentile, è cambiata all’improvviso ed è diventata la strega che Brak ha incontrato. Si sospetta che si sia persino sbarazzata del padre, che infatti è scomparso senza lasciare traccia. Adesso la donna sta costruendo un esercito con i disertori di quello del re e, se persino i soldati mancano del coraggio per fronteggiarla, si può comprendere perché nessuno abbia provato ad opporsi a lei, tanto più che è sempre protetta da Scarletjaw. Di conseguenza, il regno sta morendo.
Mentre i due stanno ancora parlando le truppe di Nordica attaccano i campi in cui lavora Pemma: Brak accorre ma viene colpito alla testa e perde i sensi. Ridestatosi, la notte successiva organizza il salvataggio del principe, che è stato catturato e rinchiuso nel castello della strega, in cima ad un monte: le pareti di roccia sarebbero impossibili da scalare per chiunque tranne il barbaro, che infatti si intrufola nella cella con una corda, libera il principe e con un lampo di genio improvviso si sostituisce a lui, per ingannare le guardie ed impedire che lo inseguano.
Nelle vicende che seguono, Brak rifiuta l’amore di Nordica, nella quale inizia a scorgere qualche somiglianza con Ariane, la figlia di Septegundus, il sommo sacerdote di Yob-Haggoth che aveva sconfitto nel primo racconto della serie: ed infatti lo spirito della donna demoniaca ha preso possesso del corpo della ragazza (è la causa della sua improvvisa trasformazione) ed ora per conto del padre e del suo dio sta preparando un esercito con cui conquistare il mondo, sfruttando le ricchezze illimitate assicurate dalla formula alchemica di Celsus. Dietro tutto c’è anche la mano di Septegundus, che non appare direttamente nella storia ma aveva giurato di vendicarsi dell’eroe: tuttavia la resa dei conti tra i due continua ad essere rimandata.
Per il suo rifiuto, Brak viene condannato ad essere sacrificato nel rituale che attiverà la formula alchemica: servono infatti quattro vittime in rappresentanza dei quattro elementi e un’altra di esse è Elinor la pastorella.

Il rituale cade a pezzi
Tuttavia i piani di Nordica vengono mandati all’aria subito dopo dall’amore del geloso Tamar Zed, che desidera Nordica tutta per sé: il mago fa murare vivo Brak in una caverna che si crede porti direttamente all’inferno, la stessa in cui tempo prima era stato rinchiuso anche Celsus. Proprio all’ultimo momento, quando la lastra di pietra ha quasi sigillato l’accesso, Elinor si scioglie dalla stretta dei suoi guardiani e si getta nella galleria assieme a Brak. Preferisce l’ignoto al noto, in questo caso.
Dove conduca in realtà si scopre presto: la galleria sbuca proprio nella tana dell’Uomoverme, che Brak è costretto a combattere ed uccidere; qui incontrano anche Celsus, vivo ma pazzo. Dalla tana però non c’è uscita perché nella battaglia il serpentone ha causato una frana che ha sigillato l’unico accesso alla superficie: così Brak ed Elinor sono costretti a tornare sui loro passi e rientrare nel castello di Nordica, dove liberano le altre due vittime del sacrificio. Ma vengono scoperti presto, grazie al tradimento di uno dei due, un fabbro di nome Runga che voleva farsi Nordica e durante l’assenza di Brak ci è anche riuscito.
Sfruttando la gelosia di Tamar Zed, il barbaro informa il mago della scappatella della strega e approfittando del caos che ne deriva riesce a liberarsi ed aprire le porte del castello, per permettere all’esercito assediante di Strann e Pemma di entrare: ma i soldati non hanno alcuna intenzione di combattere ed anzi stanno per disertare in massa. All’esterno l’eroe trova infatti Nordica che fronteggia da sola l’esercito e minaccia di liberare Scarletjaw: così per evitare che la bestia faccia scempio del re e del principe, accetta di mollare la spada e tornare indietro nel castello, dove viene catturato prima di perdere i sensi per l’ennesima volta.
Quando torna in sé inizia l’ultima parte del romanzo: nella sala del sacrificio comincia il rituale. Legato e impossibilitato a muoversi, Brak si mette in contatto telepatico con Ambrose lo stilita e lo esorta a trasportare Celsus nella sala: quando finalmente l’alchimista appare, aggredisce subito colei che era sua figlia – comprende dagli occhi che è posseduta – e così interrompe il rituale, dando a Brak l’opportunità di liberarsi e liberare Elinor, mentre il castello inizia a crollare.
Più tardi, in un cortile interno della fortezza, il barbaro si vede comparire davanti Nordica, ferita, che gli scaglia addosso Scarletjaw: Brak getta via la spada, inutile contro la pelliccia metallica del mostro, si prepara ad assorbire l’impatto e ne sfrutta la spinta per scagliare la bestia al di là delle mura e farla schiantare più in basso. La bestia non muore ma, attratta dall’odore del sangue di Nordica, balza addosso alla strega per dilaniarla: e in quella crolla una torre che seppellisce entrambi.
Nel finale Pemma, divenuto re, è geloso delle attenzioni di Elinor per Brak: ma quando questi annuncia di volersene andare ritrova il sorriso. Così Brak si rimette sulla strada per Khurisan.

Ultime considerazioni
Terrò molto brevi le conclusioni: ho infatti già spiegato nei paragrafi precedenti tutto quello che non funziona in questo libro. Per stile e contenuti «Sangue di strega» non è una storia rappresentativa di Brak il barbaro: c’è il rischio infatti che possa influenzare negativamente il giudizio di chi dovesse leggerla senza conoscere già il personaggio, al quale come detto non rende affatto giustizia perché lo fa sembrare un «clonan» senz’anima, autentica copia senza originalità. Non c’è dubbio che Brak sia modellato su Conan – lo ha dichiarato più volte lo stesso autore – ma il suo vuole essere un omaggio al padre di tutti i barbari, verso il quale Jakes ha sempre mostrato un grande rispetto.
A dire il vero, il nucleo della storia sarebbe anche buono, così come lo sono le scene di combattimento, in particolare quello con l’Uomoverme, che è caratteristico dei combattimenti ipervitaminizzati da sword and sorcery: anche la minaccia della vendetta di Septegundus che corre sottotraccia aggiunge un bel tocco, perché contestualizza la storia e le dà un senso, dal momento che la colloca in un punto preciso della sequenza di eventi iniziata col primo racconto della serie.
È vero, la rivalità col vicario di Yob-Haggoth è un’aggiunta successiva alla manciata di avventure originali apparse su Fantastic nei primi anni Sessanta ma offre una cornice funzionale all’interno della quale la marcia dell’eroe attraverso un mondo selvaggio, misterioso e soprattutto pericoloso assume un senso: questa lotta tra il campione del Bene ed il rappresentante del Male infatti è stata introdotta solo in un secondo tempo, quando Jakes ha raccolto le storie di Brak in una serie di volumi e le ha ordinate – a volte accomodate – secondo una cronologia interna, seguendo così una pratica molto in voga all’epoca, si pensi ad esempio alla sistematizzazione cronologica delle avventure di Fafhrd e del Gray Mouser svolta da Leiber, o all’analogo scempio compiuto da De Camp e Carter con le storie di Conan.
Tuttavia, nonostante questo tentativo di contestualizzazione, alcune parti continuano a non avere senso: ad esempio, non viene detto perché Nordica, che ormai è già sotto il controllo dello spirito di Ariane, non mostri di riconoscere l’eroe. Se è vero che nella prima storia Ariane ardeva d’amore per Brak – al punto di tentarlo diabolicamente col dominio del mondo pur di averlo tutto per sé – e che qui è ancora attratta dal barbaro e offesa dal suo rifiuto, ci si aspetterebbe almeno un vago riferimento a quel primo incontro e al modo tutt’altro che cavalleresco con cui Brak si è sbarazzato di lei, usandola come scudo per proteggersi dal pugnale scagliato da suo padre. E invece solo silenzio.
Così ci sono alcune buone idee sparse qua e là ma si perdono nel mare di riempitivi che annacquano il nucleo del racconto: perciò, ancora una volta, non posso far altro che esortare un lettore casuale a non demordere e a provare invece a leggere almeno una delle altre storie tradotte in italiano – «Tempesta in bottiglia», che è la migliore del lotto, o anche «Il giardino dello stregone», che le è di poco inferiore – prima di dare un giudizio definitivo sul personaggio.
Perché Brak è davvero il miglior clonan in circolazione.

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