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Frederik Pohl e Cyril Kornbluth – I mercanti dello spazio

Pur vecchio di quasi settant’anni, «I mercanti dello spazio» di Frederik Pohl e Cyril Kornbluth (The Space Merchants, 1953) è un libro di un’attualità straordinaria, perché mostra lo strapotere della pubblicità e delle multinazionali sulla nostra debole società e delinea un mondo fuori controllo, disumanizzato, dove conta solo il ciclo produzione-consumo: le analogie tra questo futuro cupo ed il nostro squallido presente non sfuggono certo al lettore moderno, che ogni giorno deve fare i conti con una realtà sempre più fosca e situazioni che sembrano saltar fuori dalle pagine del libro. Eppure Pohl e Kornbluth volevano solo fare satira, non prevedere ciò che sarebbe divento il mondo meno di un secolo più tardi.

Un pianeta da sfruttare
Pubblicato in tre puntate su Galaxy a partire dal giugno 1952 sotto il titolo di «Gravy Planet» (che, tradotto, suonerebbe come «Il pianeta della cuccagna») e poi in volume già nell’aprile dell’anno successivo con lo stesso titolo che conserva ancora oggi, «I mercanti dello spazio» è uno dei libri fondamentali della fantascienza sociologica, di cui Pohl – da solo e in coppia con Kornbluth, fino alla morte di questi pochi anni più tardi – è stato tra i principali esponenti: molto più tardi Pohl ne ha pubblicato un seguito, «Gli antimercanti dello spazio» (The Merchant’s War, 1984), che sfrutta l’ambientazione ma non aggiunge niente alla storia ed è anzi molto inferiore all’originale (l’ho recensito qui).
Chiaramente satirico, il libro si presenta come una distopia e si legge come una critica all’America delle grandi multinazionali, che già nei primi anni Cinquanta avevano iniziato a cambiare la società con una pubblicità aggressiva ed una visione consumistica del mondo: nel libro non si parla ancora di ambientalismo – che sarebbe nato solo nel decennio successivo per poi tramutarsi rapidamente in quella forma di culto dogmatico che mantiene ancora oggi – ma già si notano le ferite prodotte dall’intervento massiccio dell’uomo sull’ambiente, come il cupolone di Piccola America all’Antartide, luogo di villeggiatura; le piantagioni di «chlorella» che hanno devastato la Costa Rica; il cibo per lo più sintetico e senza sapore, per non parlare dell’acqua dolce che è diventata un lusso. E poi i risciò, o meglio taxi a pedali, che sostituiscono i veicoli a motore, perché la benzina scarseggia ma la manodopera è a buon mercato.

Un cyberpunk senza «cyber»
In questo mondo futuro – ma così simile al nostro – ciò che conta è il consumo: le multinazionali spadroneggiano e la pubblicità non è più nemmeno propaganda ma è diventata più di un’arte, perché è in grado di controllare le menti dei «consumatori» (i cittadini adesso si chiamano così) senza che questi nemmeno se ne rendano conto. L’ambientazione dei «Mercanti» anticipa così di quasi trent’anni quello che sarebbe divenuto il cyberpunk ma senza i suoi elementi deteriori, come l’insistenza sull’Oriente, l’integrazione uomo-macchina e l’ubiquità dei computer, se non altro perché qui l’informatica è giusto un supercalcolatore che avrebbe potuto guidare il primo razzo per Venere se non fosse stato così grande e pesante (ah, la miniaturizzazione!) e l’Asia è preda di un nuovo colonialismo, meno evidente ma molto più spietato, qui esemplificato dal caso dell’India, i cui consumatori pagano le tasse al governo indiano ma il governo indiano paga i suoi tributi alla Fowler Schocken, l’agenzia pubblicitaria del protagonista.
Ma per il resto c’è tutto quello che ci si aspetterebbe in una storia cyberpunk: il tatuaggio col numero di matricola (ancora niente codice a barre ma il senso è quello, forse perché qui ricorda ancora i campi di concentramento), i continui attentati (attribuiti ai terroristi ma compiuti dalle agenzie governative: molto, molto attuale), le avide «megacorp» ed i loro complessi industriali che assorbono interi continenti, i classici conflitti industriali, con tanto di dichiarazioni di guerra tra aziende e autentiche battaglie sulle scalinate dei palazzi pubblici, i microfoni spia, i politici corrotti e tenuti a libro paga dalle grandi imprese, la pubblicità subliminale (addirittura proiettata direttamente sulla retina), lo specchio del bagno sul quale scorrono le ultime notizie, le crisi alimentari ed energetiche, la sovrappopolazione e i diseredati che abitano sulle scale dei grattacieli delle aziende di cui sono clienti, i criminali psicopatici che si eccitano all’idea di torturare le vittime con spilloni, i lavoratori trattati come schiavi e tenuti di proposito in una catena di continuo indebitamento, inevitabile anche solo per provvedere alle necessità basilari, e così via.
La base è quella, perché i protagonisti sono gli stessi: multinazionali, controllo e avidità.

La pubblicità, dominatrice del mondo
I veri padroni del mondo tuttavia sono i pubblicitari, che decidono cosa deve pensare – e soprattutto consumare – la gente comune: per dare un’idea del loro potere, in una scena il Presidente degli Stati Uniti viene descritto come un «ometto servizievole» che scatta in piedi per offrire la sedia a Mitchell Courtenay, il protagonista, da poco divenuto presidente della principale agenzia pubblicitaria d’America.
Pur così potenti, i pubblicitari tuttavia mancano di morale e cultura: ad esempio, Courtenay, caduto in disgrazia, è disgustato dall’operaio suo amico che passa ore in biblioteca a leggere il Moby Dick, perché «l’idea di tutte quelle pagine senza annunci pubblicitari mi dava le vertigini»; e al tempo stesso dichiara anche che «nessuno deve giocare con la vita della gente, come facciamo noi, se non è mosso dai più alti ideali». Solo che, poco dopo, confessa che i suoi «“più alti ideali” stavano nelle cifre delle Vendite».
Così tutto è giustificato, anche la manipolazione delle menti ed i trucchetti più sporchi per creare bisogni indotti nei consumatori, anche bambini: infatti, quando la suggestione psicologica non basta, i prodotti vengono arricchiti di ingredienti «innocui» che però sviluppano dipendenza e una sorta di assuefazione a questa o quella marca, in concatenazioni subconsce diaboliche. Sempre Courtenay narra che, durante il suo periodo di avversità, «andavo allo spaccio dove acquistavo a credito, in conto paga, dei biscotti Crunchies. I Crunchies mi procuravano dei sintomi che riuscivo a tacitare solo con altre due razioni di Popsie. E l’acqua Popsie mi procurava dei sintomi che solo una sigaretta Starr poteva domare. La Starr mi faceva venir voglia di altri Crunchies. (…) Stavo diventando il tipo di consumatore che noi preferiamo. “Pensa di fumare, pensa alle Starr, accendi una Starr. Accesa una Starr pensa alla Popsie, prendine una razione. Bevuta la Popsie pensa ai Crunchies, comprane una scatola. Comprata la scatola pensa alle sigarette, accendi una Starr”».
In altre parole, un uomo macchina riempito di falsi bisogni e reazioni indotte.

Gli Indietristi, gli ultimi umanisti
Va da sé che in questo mondo di predoni e di lobotomizzati deve esistere anche un movimento o una corrente di gente che si oppone alla disumanizzazione della vita: sono i cosiddetti «Indietristi», ossia i conservatori (il termine «Consie» dell’originale tradisce questo legame) costretti a vivere nell’ombra e quasi a nascondersi per evitare l’odio ed il disprezzo nei loro confronti che pubblicitari e multinazionali sono riusciti instillare nelle menti semplici degli uomini qualunque. Ma tutto quello che i conservatori vogliono sarebbe vivere secondo la legge naturale in un mondo più sano, dove coltivare il cibo naturalmente nel terreno e non sinteticamente nei tini e dove crescere liberi dai condizionamenti della pubblicità e delle grandi aziende. In altre parole, un mondo popolato di uomini e non automi.
Così sui pacifici Indietristi viene fatta ricadere la colpa di tutti gli attentati terroristici o anche solo sabotaggi che quasi quotidianamente colpiscono le città americane ma che in realtà vengono compiuti da uomini di fiducia dei potenti: i conservatori vengono così bollati come quel gruppo retrogrado che blocca il vero progresso e causa tutti i problemi. In altre parole, sono il classico capro espiatorio di cui ogni potente si serve per coprire le proprie malefatte e giustificare provvedimenti impopolari come, per restare sull’attualità, uno stato di emergenza continuo e la soppressione di ogni libertà per una semplice influenza.
Quando però Courtenay, caduto in disgrazia, viene avvicinato dagli Indietristi e ritiene di sfruttare la loro rete per riprendere la sua posizione di prestigio a New York, si scopre che i membri di questo gruppo non sono quei mostri che la propaganda vuole far credere ma sono persone intelligenti, di cultura, mosse da autentico amore per ciò che ci rende uomini e disprezzo per il mondo disumanizzato delle multinazionali. Tutti i personaggi positivi della storia sono Indietristi: Kathy, la moglie medico di Courtenay, che lo aveva abbandonato proprio per la sua (di Courtenay) ristrettezza mentale; Herrera, il capo sorvegliante allo stabilimento Chlorella, che legge il Moby Dick e preferisce la morte al tradimento; il perfido Matthew Runstead, presentato come un adulatore incompetente – e nemico giurato di Courtnenay, di cui è collega parigrado – ma in realtà abilissimo infiltrato degli Indietristi nel comitato direttivo della Fowler Schocken, disposto a sacrificare la propria carriera e identità per la causa, e senza battere ciglio.
Gli Indietristi sono tutto ciò che di buono ancora sopravvive sulla terra del futuro, e non sono più molti.

Venere, il luogo meno incantevole del sistema solare
E così si arriva a Venere. L’intera vicenda muove attorno al secondo pianeta, sul quale tutti vogliono mettere le mani: la terra, per risolvere i problemi di sovrappopolazione; le agenzie pubblicitarie, per assicurarsi i diritti commerciali; gli Indietristi, per conquistare un mondo vergine dove poter costruire una società sana.
Poco importa che il pianeta sia ostile alla vita e i primi coloni condannati a vivere una vita peggiore persino di quella degli ergastolani: quello che conta è solo trovare i millecinquecento volontari disposti a mollare tutto – che nella terra del prossimo futuro non è molto (spaventosa anticipazione del «non possederete nulla e sarete felici» già minacciato dal Forum Economico Mondiale come obiettivo per il 2030) – per trasferirsi sulla Stella del mattino, senza biglietto di ritorno.
Promosso responsabile del progetto dalla Fowler Schocken, che si è assicurata l’esclusiva, Courtenay avvia quindi una campagna di propaganda che edulcora la realtà e la riempie di romanticismo mescolato a menzogne: paragona infatti l’esperienza dei primi coloni venusiani a quella dei pionieri che hanno conquistato il West ma tace le misere condizioni di vita che attendono i volontari, costretti a passare il resto dell’esistenza in «una scatola di sardine appoggiata su un fornello acceso». Solo dopo un massiccio intervento di quella che oggi chiameremmo terraformazione le generazioni future potranno vivere all’aperto: ma si tratta di studi e informazioni che giungono da reparti interni alle stesse agenzie pubblicitarie, quindi da prendere con molta cautela.
Tuttavia gli Indietristi, mossi dal più alto ideale di un futuro a dimensione d’uomo, sono disposti al sacrificio e per questo Runstead, collega di Courtenay, sabota abilmente l’intero progetto dall’interno senza esporsi: vuole infatti assicurare almeno millequattrocento di quei millecinquecento posti ai suoi compari. Da qui nasce la storia, che include anche le mosse molto meno caute della Taunton, l’agenzia pubblicitaria concorrente, che vuole assicurarsi la campagna per Venere e non è disposta a tirarsi indietro per nessuna ragione al mondo.

Un libro da leggere per intero
La storia dei «Mercanti» è molto articolata e quindi difficile da sintetizzare senza perdersi in lunghe spiegazioni, che vanificherebbero in partenza il senso stesso di un riassunto: ma la storia è anche breve e scorrevole, quindi riassumerla con troppa precisione sarebbe fare un cattivo servizio ai lettori, perché il libro merita davvero di essere letto e gustato nella sua interezza.
Come detto, la vicenda è narrata in prima persona da Mitchell Courtenay, pubblicitario di prima classe della Fowler Schocken, una delle due principali agenzie pubblicitarie d’America: è in pratica colui che decide cosa pensa e consuma l’americano medio, il buon «consumatore». Presuntuoso e prepotente, Courtenay, che vive per la pubblicità e crede nella sua funzione pedagogica, è stato appena promosso capo dell’ambito progetto Venere: in pratica deve convincere millecinquecento terrestri ad abbandonare la miseria delle loro vite per trasferirsi su Venere, dove le loro vite saranno ancora più misere.
Nel primo terzo del libro si ha così un assaggio dell’America delle elite, che vivono in un mondo dorato e credono che anche le classi più basse conducano una vita spensierata grazie a loro: così quando Courtnenay finisce vittima di un complotto e al risveglio si ritrova con una nuova identità in una piantagione di chlorella – una sostanza con cui viene prodotto il pollo (sintetico) Chicken, alimento base delle classi più umili – in Costa Rica, legato con un contratto capestro di cinque anni, uno di quelli da cui in sostanza è impossibile liberarsi perché nel periodo di lavoro si finisce per contrarre così tanti debiti solo per sopravvivere che si è costretti a prolungare la durata del contratto per pagarli tutti, ma nel frattempo se ne contraggono di nuovi che mai si riuscirà a saldare, arriva anche un salutare cambio di prospettiva.
L’esperienza infatti gli apre gli occhi ma non cambia le sue convinzioni: tuttavia le sue capacità attirano le attenzioni degli agenti degli Indietristi presenti nel campo di lavoro, che lo contattano e lo arruolano nella loro organizzazione. Anche se Courtenay non ne condivide le idee non si lascia sfuggire l’occasione, perché significa condizioni di lavoro leggermente migliori (uno degli Indietristi decide le assegnazioni dei turni e reparti) e l’occasione di tornare nel mondo civile. Che si presenta non molto più tardi.
Vista la sua esperienza nel settore, Courtenay non ci mette molto a mettersi in mostra con la propaganda e così dopo pochi mesi gli viene offerto di tornare a New York per ricoprire importanti incarichi all’interno dell’organizzazione: ma in cuor suo è ancora un pubblicitario di prima classe che disprezza l’ottusità reazionaria degli Indietristi.
Dopo una serie di disavventure, tra cui un rapimento con inclusa tortura da parte dell’agenzia rivale ed un viaggio della speranza a Luna City (che sta proprio sulla luna), Courtenay può finalmente riprendere la sua identità e, soprattutto, il suo posto alla guida del progetto Venere che, affidato in sua assenza alla capace incapacità di Runstead, è prossimo al fallimento: ma arriva anche a cambiare la sua opinione sul movimento conservatore, quando scopre che la moglie Kathy, di cui è ancora innamorato ma dalla quale è stato respinto per la sua ottusità, è lei stessa un’Indietrista, tra i quali occupa una posizione piuttosto rilevante.
Così con l’aiuto di Runstead (lui stesso un Indietrista, che aveva fatto un ottimo lavoro per tenere l’interesse del pubblico lontano da Venere) organizza il volo dei primi millecinquecento coloni per Venere, scelti quasi esclusivamente dagli Indietristi tra i loro simpatizzanti: tutto sembra sistemato ma, accusato davanti al Congresso di essere un Indietrista lui stesso, Courtenay è costretto a una fuga precipitosa e a riparare proprio nel razzo che dall’Arizona sta per decollare alla volta del secondo pianeta, a bordo del quale ritrova Kathy, con la quale si è ormai rappacificato definitivamente.

Cui prodest?
Come ogni distopia che si rispetti, «I mercanti dello spazio» coglie le tendenze del momento e le proietta nel futuro, immaginando come potrebbero svilupparsi in un secolo o due se venissero lasciate libere di crescere: solo che il futuro degli anni Cinquanta è il nostro presente e molte di quelle tendenze sono divenute la nostra realtà quotidiana.
Leggere questo libro (così come il suo gemello, «Gladiatore in legge», di due anni successivo) sorprende quindi per la sua attualità e per il messaggio che lo accompagna, che non è proprio di speranza: anzi, la storia sembra voler dire che quando il mondo è dominato dalle grandi aziende e dalla pubblicità non c’è più futuro per il genere umano. È sicuramente questa la ragione per cui più volte nel testo si cita la biometria, la disciplina che studia le dinamiche demografiche dal punto di vista della statistica e della matematica per stimolare determinati comportamenti e reazioni nei destinatari: chi detiene il potere infatti controlla facilmente anche ciò che la gente pensa e con messaggi ben calibrati non ha nessuna difficoltà a fare il lavaggio del cervello agli inconsapevoli cittadini, ben felici anzi di non dover più pensare con la propria testa ma di ricevere idee e slogan già confezionati e pronti all’uso; basta vedere cosa sta accadendo nel mondo da un anno e mezzo. E così, sopita l’immaginazione, a nessuno viene nemmeno in mente di opporre alla propaganda martellante la più ovvia delle domande: «Cui prodest»? A chi giova davvero tutto ciò?
L’unico modo per salvarsi è ricominciare da capo su un altro pianeta, perché questo ormai è irrecuperabile: ma a differenza del libro noi non abbiamo ancora (e forse mai l’avremo) lo sfogo rappresentato dalla colonizzazione di Venere. Anzi, se non fosse per certi imprenditori privati, discutibili ma encomiabili per la passione e lo spirito d’iniziativa, l’esplorazione spaziale sarebbe morta da almeno vent’anni.
Scritto a quattro mani, il libro soffre un po’ della collaborazione tra due autori che andavano molto d’accordo e avevano idee molto simili ma non potevano certo essere l’uno nella testa dell’altro: così ci sono diverse incongruenze che spiccano qua e là, come ad esempio la capienza del razzo per Venere, che all’inizio si dice possa portare ottocento persone e alla fine ne tiene millecinquecento; o il giudizio degli Indietristi, che all’inizio paiono essere solo un elemento retrogrado e folcloristico e verso la fine sono invece considerati l’epitome del male, tanto che solo nominarli basta a suscitare la reazione accalorata di tutto l’uditorio.
Altre di queste contraddizioni però parrebbero volute, come per sottolineare il cambio che è avvenuto nel protagonista tra il prima e il dopo la sua caduta: tra quando cioè viveva la vita comoda e spensierata delle elite e, novello Maria Antonietta, ignorava genuinamente le difficoltà in cui versa la gente qualunque; e quando invece sperimenta sulla propria pelle la schiavitù di fatto (le manca solo il nome) alla quale sono soggetti tutti i «buoni consumatori», un’esperienza che lo segna più di quanto vorrebbe ammettere e lo prepara alla sua conversione finale all’Indietrismo.
Non è pensabile infatti che prima del complotto di cui è vittima ignorasse che molti del popolino, per la mancanza di spazi e denaro, si accontentano di vivere sulle scale interne dei grattacieli delle grandi compagnie di cui sono clienti, un gradino a persona: ma questa informazione viene fornita solo oltre la metà del libro, quando ormai Courtenay sta preparando il ritorno alla sua vecchia posizione, come per suggerire che ora si è umanizzato e si accorge anche di fatti prima ritenuti irrilevanti.
Pur nel pessimismo della storia infatti c’è spazio anche per un certo umorismo amaro, come quando Courtenay osserva che «non è difficile persuadere la gente che in un altro posto l’erba è più verde»; o che un quoziente di intelligenza più basso nella popolazione significa un aumento nelle vendite; o ancora che gli slogan scientifici hanno un successo particolare quando affermano gli effetti benefici del pianeta Venere sulla virilità dei terrestri. Queste affermazioni dimostrano un’ottima conoscenza della mentalità umana e la voglia di sorridere da parte degli autori nonostante lo scenario tetro che stanno tratteggiando.
Nel complesso infatti «I mercanti dello spazio» vorrebbe essere un avvertimento, non un manuale delle istruzioni su quello che ci riserva il futuro: anzi, il presente, per essere precisi.

Aggiornamento – Negli anni Ottanta Pohl è tornato sull’ambientazione e ha scritto una specie di seguito, più satirico che critico ma incredibilmente profetico: «Gli antimercanti dello spazio» (The Merchants’ War, 1984), ambientato circa un secolo più tardi. Qui ne ho pubblicata la recensione, nella quale metto in evidenza l’attualità del libro, che riesce incredibilmente ottimistico nonostante il pessimismo di Pohl: in questo caso infatti la realtà infatti ha superato la fantasia.

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