Ultimamente mi sono trovato a leggere parecchie storie di «sword and planet», quel sottogenere della narrativa fantastica a cavallo tra fantasy e fantascienza che andava forte soprattutto negli anni Sessanta e Settanta: in altre parole, una via di mezzo tra il romanzo planetario o «planetary romance» (che appartiene al repertorio classico della fantascienza) e la sword and sorcery, che invece è la forma più divertente del fantasy. Ciò che però lo distingue dall’uno e dall’altra e che quindi giustifica la nuova etichetta è il protagonista: si tratta sempre di un terrestre che, ferma restando la miscela anzidetta di fantasy e fantascienza (e nelle giuste proporzioni), all’improvviso si trova sbalzato in un altro mondo, dimensione, realtà o tempo dove dovrà sopravvivere contando solo sul proprio ingegno, forza e capacità di adattamento.
L’esempio tipico, oltre che l’origine di questo sottogenere del fantastico, è il ciclo marziano di Edgar Rice Burroughs di cui ho già scritto spesso, dove però l’elemento fantascientifico è ancora a cavallo tra scienza e magia: per questo infatti nel caso di Barsoom si parla anche di «science fantasy». Ma alla fine questa o quella etichetta non sono altro che sfumature della stessa idea base.
Per restare in argomento, l’ultima lettura di «sword and planet» in cui mi sono imbattuto è «Chieftain of Andor» di Andrew J. Offutt (1976; dal 1979 cambiato in «Clansman of Andor») che, pur senza avere particolari meriti artistici, mi ha lasciato un’ottima impressione: il lavoro di creazione dell’ambientazione infatti è ottimo e, sebbene la trama principale sia chiaramente incompleta, racconta una storia avvincente, leggermente insolita, con un protagonista solido, col quale non è difficile simpatizzare.
Un finale così aperto da essere incompleto
Tutto in «Chieftain of Andor» lascia intendere che il libro fosse stato pensato come primo volume di una serie: il finale infatti è apertissimo e lascia il protagonista ancora ben distante dalla risoluzione del motivo per cui in origine era stato mandato sul pianeta.
Già, perché a differenza dei suoi colleghi eroi Robert Cleve, il protagonista (da notare che uno degli pseudonimi usati altrove dall’autore era John Cleve), finisce volontariamente su Andor e ci arriva con una missione da compiere, che però viene interrotta bruscamente verso il primo terzo del libro: e alla conclusione del volume quella storia principale è ancora sospesa, ferma esattamente al punto in cui l’abbiamo lasciata, anche se non c’è dubbio che sia proseguita fuori scena.
Proprio per questo viene da pensare che fosse prevista una continuazione delle avventure andoriane, che però non sono mai proseguite: e certo non per la scomparsa improvvisa dell’autore, visto che il libro – noto anche col titolo di «Clansman of Andor» (ma non è mai stato tradotto in italiano) – è uscito nel 1976 ed il prolifico Offutt è morto quasi quarant’anni più tardi, nel 2013.
Di suo in Italia è uscito poco, soprattutto racconti brevi e per lo più di fantasy, tra cui uno spurio di Conan ed alcune storie del «Mondo dei ladri»: ma nulla di questo poco viene più ripubblicato da decenni. Grande appassionato lui stesso di sword and sorcery («I was a closet heroic fantasy fan for years»), viene invece ricordato soprattutto per aver curato i cinque volumi della serie di antologie «Swords Against Darkness», pubblicati negli anni 1977-1979, che hanno avuto un ruolo chiave nel grande successo del fantasy eroico di quegli anni ed ancora oggi vengono giudicate tra le opere più influenti del genere.
Un avventuriero insoddisfatto
Il protagonista di «Chieftain of Andor» è dunque un terrestre, un certo Robert Cleve di Louisville, il classico amante del rischio e dell’avventura che è insoddisfatto del mondo tranquillo in cui è costretto a vivere, quello della metà degli anni Settanta: così risponde ad un annuncio sul giornale e viene subito scelto da un’azienda come agente con un incarico da svolgere su un distante pianeta, per ragioni e con finalità che non vengono mai spiegate.
Posto in animazione sospesa nel retrobottega, la sua coscienza viene trasferita nella mente di un certo Doralan Andrah, capo di un clan del pianeta Andor, il classico mondo primitivo dove esiste la magia ma non la polvere da sparo ed ogni questione viene decisa dal più forte: Andrah aveva riunito attorno a sé numerosi altri clan della terra di Elgain (era infatti il «morgrof») e si preparava alla conquista della città di Mor quando gli stadi finali di un tumore al cervello lo hanno fatto piomabre nel coma che precede la morte. Il compito di Cleve è in pratica quello di diventare Andrah: deve prendere il controllo del suo corpo e dei suoi ricordi pur rimanendo consapevole della propria identità. E, sì, a quanto pare non c’è bisogno del cervello dell’ospite perché la cosa sia fattibile: bastano i suoi muscoli.
Tornato dunque miracolosamente in vita, in pochi giorni il nuovo Andrah riprende il controllo dei clan alleati e studia il piano di conquista della città, che riesce alla perfezione: subito dopo l’introduzione infatti la storia entra già nel vivo e bastano pochi capitoli perché i clan prendano possesso della città con un minimo spargimento di sangue. Come segno di apprezzamento, Andrah viene acclamato re.
Ma quella parte di Andrah che è Cleve fa ancora fatica a credere nell’esistenza della magia e non presta attenzione ai continui avvertimenti di una giovane strega che gli è affezionata, Ledni di Starinor: questa maga infatti lo mette in guardia in particolare da Shansi, la strega di Khoramor, ambiziosa e bellissima sorella di un certo Shant, debole capo di una tribù alleata con Andrah che pure ambiva al trono di Mor. Così una notte Shansi, che nelle pagine precedenti aveva già dato prova di essere una fattucchiera assai pericolosa e capace, compie un sortilegio che separa la mente di Andrah dal suo corpo.
Poi, invece di ucciderlo, mentre è ancora privo di coscienza lo corica nudo e privo di armi o segni identificativi su una zattera che affida alla corrente del grande fiume Sky, che scorre inesplorato verso sud: e qui, col trionfo di Shansi e la morte di Ledni, si conclude la prima parte, quella che dà il titolo al libro.
E sulla quale la storia non tornerà più.
La magia esiste davvero
A questo punto apro due parentesi: la prima riguarda la magia su Andor, che nell’ambientazione è una disciplina solo femminile e viene praticata soltanto da quelle donne che nascono con una propensione per i sortilegi o, nella lingua locale, gli «Starpowers», con la maiuscola. Nessun uomo è mai stato in grado di lanciare alcun tipo di incantesimo, nemmeno i trucchetti più semplici: nulla invece è impossibile per le streghe potenti come Shansi (il titolo che accompagna queste donne è sempre «witch», mai «sorceress» o sinonimi), che sono capaci persino di evocare demoni e piegarli alla propria volontà e, con gli ingredienti giusti (come frammenti del corpo della vittima, anche solo i capelli appena tagliati: è la magia che Frazier definisce «contagiosa», quella che funziona per contagio o contatto), possono far cadere ogni tipo di sortilegio sulla vittima, se non c’è un’altra strega che vigila ed è pronta ad intervenire con dei controincantesimi.
In tutta la storia compaiono solo quattro streghe: le due già citate, la buona Ledni di Starinor e la malvagia Shansi di Khoramor; più altre due a Sharne, l’ultima città che verrà visitata dal protagonista, una delle quali un’impostora che però è stata così abile a spacciarsi per una fattucchiera potente che nessuno, nemmeno le streghe vere, ha il coraggio di mettersi contro di lei.
Questa falsa maga, Lahri di Karikal o Sharne, è in realtà una telepate che di quando in quando riesce a leggere i pensieri dei suoi interlocutori e in questo modo dà prova evidente delle sue capacità: per le sue diviniazioni infatti non ha nemmeno bisogno del fuoco, degli ingredienti e degli altri strumenti solitamente necessari ad una strega per esercitare la propria arte. E questo per un profano è dimostrazione più che sufficiente del suo potere: e deve esserlo anche per le streghe autentiche, dal momento che non hanno mai messo in dubbio il suo talento. E così nella storia compare anche una sfumatura leggermente umoristica, probabilmente non voluta.
L’ultima strega ad apparire è la regina di Sharne, Shaman Kelas, colei che detiene il vero potere in città: il suo cruccio è di non avere un successore in famiglia, dal momento che il figlio Reven è tagliato fuori dalla magia in quanto uomo e la figlia Selka non ha ereditato nemmeno un briciolo del suo talento. Così la regina ha deciso che il principe Reven debba almeno sposare una strega per tenere viva la tradizione di famiglia.
Cenni di ambientazione
La seconda parentesi riguarda invece una panoramica sui luoghi, sui popoli e sui personaggi incontrati da Cleve non appena abbandona Elgain: perché all’improvviso, nel passaggio dalla prima alla seconda parte del libro, il lettore si trova spaesato e perde tutti i punti di riferimento che si era costruito fino a quel momento. Infatti nulla di questo bagaglio di conoscenze servirà ancora e dovrà invece essere sostituito con informazioni sempre nuove che d’ora in poi verranno fornite a raffica.
– Luoghi e popoli
Per prima cosa i luoghi: dopo aver trascorso alcune settimane nella terra di Elgain e nella città di Mor, l’eroe soggiorna abbastanza a lungo in altre tre diverse località e deve inoltre confrontarsi con due ulteriori popoli poco socievoli solo per attraversarne il territorio. Le città o i luoghi in cui si ferma per un tempo imprecisato sono Orisana (ossia «terra dell’acqua» nella lingua universale parlata su Andor) e, per un periodo molto più breve, Oridorna (ossia «terra della roccia»), che si trovano l’una sopra l’altra all’interno della medesima montagna; ed infine la città di Sharne, ai piedi ma all’esterno della stessa catena montuosa, dove rimane per un mese.
Si fa così la conoscenza degli abitanti di questi luoghi, in particolare degli Orisani e degli Oridorni, che non è difficile intuire dove vivano: i primi sono una sorta di uomini tritone dalla pelle fredda e bianchissima con le dita palmate che risiedono nei livelli più bassi della montagna innominata, dove possono accedere facilmente sia all’acqua del fiume Sky sia ad una rete di caverne illuminate da frammenti di una roccia particolare, pericolosa solo per chi la maneggia a mani nude.
Anche gli Oridorni sono umani dalla pelle bianchissima ma sono completamente ciechi, privi persino degli occhi: dal momento che vivono nel buio perpetuo delle caverne da cui non possono uscire – sono bloccati dai loro nemici: gli Orisani in basso e gli Orimori in alto, specie di yeti che vivono sulle nevi perenni all’esterno della montagna (Orimor è la «terra superiore») – hanno perso l’uso della vista, sostituito da una sorta di sonar naturale. Anche loro conoscono la roccia luminosa degli Orisani ma la loro varietà è molto più pericolosa, dal momento che basta la sua luce per uccidere un uomo: perciò, dal momento che sono pacifici, la usano solo come arma di difesa. Ciononostante sono cannibali, ma solo per necessità, perché oltre ai funghi che coltivano hanno bisogno anche di proteine che non potrebbero assumere in nessun altro modo se non divorando i corpi dei morti, nemici inclusi: e così convincono Cleve, disgustato da questa pratica alimentare, che per loro questa dieta è inevitabile. Ma per tutto il suo soggiorno Cleve si accontenterà dei semplici funghi.
Gli abitanti di Sharne sono invece umani normalissimi con un brutto carattere: riducono infatti in schiavitù chiunque entri nel loro territorio e non sia già cittadino di Sharne.
Ci sono poi i due popoli con cui Cleve, suo malgrado, deve combattere per poterne attraversare i territori, ossia i già citati Orimori, umanoidi selvaggi alti più di due metri e ricoperti di una morbidissima pelliccia bianca che viene conciata da Orisani e Oridorni per confezionare coperte e tasche portatutto; ed un popolo di cannibali dai denti limati e affilati che attaccano Cleve a vista mentre si trova ancora sulla zattera sul fiume Sky, all’indomani del sortilegio di Shansi di cui è stato vittima. Ma ad entrambi questi popoli Offutt non dedica troppa attenzione, sono solo uno dei tanti ostacoli che Cleve deve superare.
Brillantemente.
– Personaggi
Al contrario, in ciascuna delle località in cui soggiorna Cleve si fa amici, qualche nemico e…si lega sentimentalmente ad una donna: ad Orisana diventa il bersaglio di una rete di intrighi che include la stessa Siraa, la tritona che lo aveva salvato dai cannibali e alla quale si è accompagnato. Siraa infatti preferisce vederlo morto o paralizzato (per tenerlo con sé) piuttosto che lasciarlo andare via in cerca della superficie: e questo suo piano si intreccia con quelli tessuti da Shilaat, il sovrano della città, e da Bavuraat, guardia di palazzo, che pure hanno messo gli occhi su Siraa e, ciascuno per sé, ambiscono a sbarazzarsi del concorrente. Solo Zivaat, fratello di Siraa (la doppia A è la caratteristica dei nomi degli Orisani), è amico di Cleve ma ad un certo punto esce di scena.
L’accoglienza tra gli Oridorni è invece più tranquilla, dal momento che il nostro viene accolto da eroe: per fuggire da Orisana infatti accetta di accompagnare due schiave di Shilaat – Jaire e Gaise – il cui sonar naturale è prezioso al buio ma inutile quando un nemico che può vederle rimane immobile. A Oridorna Cleve si lega sentimentalmente a Jaire e diventa amico di suo fratello Zaire e del nonno Zaide (come si vede, la caratteristica dei nomi degli Oridorni è invece il dittongo AI), che è una sorta di capo: è infatti il custode della pietra luminosa, un tipo di roccia radioattiva che uccide non solo chi la tocca ma anche chi viene colpito dalla sua luce. Il compito di Zaide è fabbricare alla bisogna una specie di pistola, la «sidsorn» (o «scatola della morte»: in pratica un «raggio della morte» che brucia la carne), che è l’unica ragione per cui gli Oridorni non sono ancora stati travolti dai nemici: e il momento di fabbricarne di nuove è arrivato. Così, dal momento che produrne una o cento non fa differenza, l’artigiano è condannato comunque, Zaide fa dono di una «sidsorn» allo stesso Cleve, che sarà risolutiva nella prosecuzione delle sue avventure.
A Sharne infine si lega sentimentalmente alla finta strega, Lahri di Karikal o Sharne, che lo aiuterà a ritrovare la memoria: ma si fa anche due amici che valgono almeno per quattro, perché il giovane capitano di nave Barke è legato alla capricciosa principessa Selka mentre la schiava Sovane che prende sotto la sua protezione è l’amante del principe Reven, i due rampolli del re Vreen (anagramma!) e soprattutto della regina, la strega Kelas (altro anagramma!), che dominano la città.
Ma a questo punto è ora di tornare alla storia.
Il seduttore dei due mondi
Quando l’indomani Cleve si risveglia, completamente nudo e privo di armi, non ha più ricordi di quello che è successo nelle settimane precedenti: sa di essere stato spedito su Andor per prendere il posto di Andrah ma ritiene che qualcosa nel trasferimento sia andato storto, perché comprende immediatamente di non trovarsi dove dovrebbe. Conosce la lingua, che su Andor è come al solito universale, perché gli è stata impiantata ipnoticamente nel cervello prima del trasferimento ma non sa dove si trova né ha idea di dove siano Eldain e Mor né a chi appartenga il bel corpo che occupa.
Ben presto però viene distolto da questi pensieri: mentre giace ancora sulla zattera nel mezzo dell’ampio fiume Sky viene attaccato da un gruppo di cannibali. Cleve, disarmato, si difende come può ma gli attaccanti sono troppi e sarebbe condannato a soccombere se all’improvviso non intervenisse una specie di tritone, una donna pesce di nome Siraa, che lo aiuta nella battaglia acquatica e poi lo porta in salvo nella sua città sotterranea, Orisana: e qui inizia la vera storia di questo libro, perché il resto della trama si svolge dentro e attorno alla catena montuosa innominata al cui interno è stato appena condotto.
Per non farla troppo lunga, nonostante l’amore a prima vista destato in Siraa (e forse proprio a causa di questo, perché è considerata la donna più bella della città), Cleve viene accolto molto male dai tritoni suoi simili e sta per essere fatto schiavo quando dà dimostrazione di valore combattendo contro un mostro acquatico che stava per mangiarsi Siraa: così all’improvviso cambia l’atteggiamento degli Orisani nei suoi confronti, viene accettato da quasi tutti e se ne va a vivere con Siraa per qualche tempo.
Ma l’eroe ambisce a tornare in superficie e così, convinto dalle voci di diversi complotti alle sue spalle organizzati da pretendenti gelosi e persino dalla stessa Siraa – che preferirebbe vederlo morto o anche solo paralizzato piuttosto che essere abbandonata, per non perdere la faccia davanti alle amiche che le invidiano l’amante – decide infine di tentare la fuga nelle buie gallerie dei livelli superiori della montagna, accompagnato da due schiave desiderose di riacquistare la libertà, Jaire e Gaise.
Queste donne appartengono ad un altro popolo di umani, gli Oridorni, che occupano i livelli superiori della montagna e hanno perso l’uso della vista, sostituito da un sonar naturale: vivono infatti nel buio perpetuo e gli occhi sarebbero inutili nell’oscurità.
Nuovamente all’aria aperta
La fuga riesce e Cleve rimane ospite degli Oridorni per un po’, giusto il tempo di sedurre anche Jaire e di fare amicizia con suo nonno Zaide, che riveste una carica importante, quella di custode della pietra luminosa: in altre parole una sostanza radioattiva che si trova da qualche parte nella montagna. Gli Oridorni la usano come arma perché la sua luce consuma la carne ed infatti è l’unica ragione per cui non sono ancora stati schiacciati dagli aggressivi vicini, gli Orisani in basso e gli Orimori (sorta di yeti) in alto, all’esterno: il compito del custode è confezionare, a costo della propria vita, queste armi quando c’è il bisogno di sostituire quelle che si sono perse o scaricate. Zaide sta giusto lavorando ad una di queste pistole e così, visto che è già spacciato comunque, decide di crearne una seconda per far dono di una di queste armi a Cleve: si tratta di un manico di pietra sul quale è fissata una scatoletta pure di pietra. Una sorta di interruttore azionato col pollice permette di aprire uno sportello sul davanti che espone la sostanza al suo interno, il cui bagliore incenerisce la carne di chiunque venga toccato dalla luce. In sostanza è il raggio della morte, anche se per gli Oridorni si chiama solo «sidsorn», ossia «scatola della morte».
Con quest’arma, e un abito di pellicce di Orimori confezionato da Jaire, Cleve può quindi tentare di tornare nel mondo esterno: e subito la pistola gli viene utile, perché appena sbucato dalle caverne in cima alla montagna viene attaccato dagli Orimori, gli umanoidi selvaggi che infestano questi picchi innevati. Salva anche un altro umano, un certo Barke di Sharne, che si era inerpicato in cima alla montagna in cerca di pellicce di Orimori, indispensabili come ingrediente per un incantesimo d’amore che aveva commissionato ad una certa Lahri, la strega di Sharne.
Un finale aperto
I due legano subito e scendono a valle senza ulteriori difficoltà: ma una volta giunti alla periferia della città di Sharne vengono fermati da una pattuglia e lì cominciano i guai. Perché a Sharne si è o cittadini o schiavi: e dato che Cleve non è dei primi è necessariamente dei secondi. L’eroe però si spaccia per un potente mago: le sue affermazioni sono corroborate dalla testimonianza di Barke, che sulla montagna lo aveva visto uccidere gli Orimori senza armi, solo proiettando una luce dalla mano. Anche se questo contrasta con ciò che è conoscenza comune della magia, e cioè che è una disciplina solo femminile, le guardie hanno il buon senso di non mettere alla prova Cleve – con i maghi è sempre meglio non rischiare – tanto più che l’eroe accetta di seguirle pacificamente in città.
Il nostro resterà nel recinto degli schiavi per brevissimo tempo, giusto il tempo di promettere protezione ad una certa Sovane, una giovane schiava di cui la padrona – la regina di Sharne – ha deciso di disfarsi: così quando la strega Lahri, incuriosita dall’apparizione del primo uomo capace di usare la magia, manda un suo emissario per acquistarlo, Cleve pretenderà di portare con sé anche la ragazza, che poi scomparirà fino alla sorpresa finale.
Anche se tutti credono che sia una strega potente – e lei non fa niente per contraddire questa opinione – Lahri non ha nemmeno un briciolo di potere magico: ha invece una leggera telepatia che in certi momenti le permette di leggere le menti dei suoi interlocutori. Proprio mediante la telepatia Lahri smaschera subito Cleve anche se poi decide di aiutarlo: anzi, se ne innamora, e così Cleve può aggiungere la quarta tacca da quando è piombato su Andor. Grazie a Lahri, che mette al lavoro un paio di streghe minori, Cleve riconquista presto la memoria e i ricordi delle prime settimane su Andor e così sa che deve tornare ad Elgain per completare il compito che aveva iniziato: tuttavia accetta di fermarsi un altro mese con Lahri come pagamento per l’aiuto prestato.
Il finale del libro è tutto un crescendo. Settimane più tardi Cleve viene convocato dalla regina Kelas, strega pure lei, che con l’inganno vuole incarcerarlo: in una visione infatti ha appreso che per causa sua perderà entrambi i figli. Ma l’eroe, sempre con l’aiuto della sua sidosorn, riesce a fuggire da palazzo e si accorda con Barke – che nel frattempo è diventato capitano della Bluerover, il mercantile di cui era primo ufficiale – per una fuga precipitosa con la sua nave quella notte stessa.
Poco prima della partenza salgono a bordo tutti i protagonisti: Lahri, che non vuole separarsi dal suo amato; Barke, che accompagna la sua neosposa, la principessa Selka (figlia di Kelas); e Sovane, che pure sta fuggendo col suo amante, il principe Reven (pure figlio di Kelas): proprio la relazione tra i due era stata la ragione per cui la regina si era disfatta di Sovane. E così la visione di Kelas trova conferma, perché quella notte perde entrambi gli eredi a causa di Cleve, anche se non in maniera tragica come si era creduto.
Dopo una battaglia nella spessa nebbia magica che ricopre la città, commissionata da Lahri alle streghe minori che lavorano per lei, la Bluerover può finalmente salpare per il lontano nord: nessuno sa dove si trovi Elgain, se non che è ancora più a nord e all’interno di Rivshar, la città di cui è originaria Sovane.
Ed è lì che i nostri si stanno dirigendo quando termina il libro.
Una bella scampagnata
Come tutto il filone del romanzo planetario al quale appartiene, «Chieftain of Andor» non ha alcun merito letterario né lo cerca: è solo una bella scampagnata; e quel giorno splende pure il sole. Racconta infatti un’ottima storia d’avventura senza preoccuparsi di nient’altro: e così la trama scorre liscia e non annoia mai, nemmeno quando l’azione rallenta ed occorre fermarsi per qualche pagina su questioni di contorno o descrizioni a volte poco chiare.
Il protagonista, Robert Cleve, è il tipico protagonista di questo genere di storie: sempre all’altezza della situazione, che servano i muscoli, il cervello o qualsiasi altra caratteristica. A differenza degli analoghi eroi però occupa una posizione particolare, perché su Andor di suo arriva solo la coscienza: il suo corpo rimane sulla terra e così deve usarne un altro, che per fortuna è della sua misura. Non è dato di capire quanto delle azioni del proprietario originale di questo corpo dipenda dall’abilità e dalla volontà di Cleve ma – quando a causa dell’incantesimo praticato su di lui da Shansi si risveglia e prende coscienza del nuovo sé – dimostra di possedere da sé tutte le capacità necessarie, sostenuto da un corpo che trova già pronto ma è comunque sempre all’altezza: se fosse piombato nel corpo obeso di un capo fiacco non sarebbe andato troppo lontano.
Però proprio questa differenza tra l’Andrah/Cleve ed il Cleve risvegliato fa nascere almeno un dubbio: dato che dopo il risveglio il protagonista non ricorda più nulla di ciò che era accaduto in precedenza, viene da pensare che quando era ancora Andrah la sua coscienza servisse solo per animare il corpo di quell’uomo e che Cleve non vivesse realmente bensì gli fornisse semplicemente la forza vitale. Il diverso comportamento tra l’Andrah/Cleve ed il Cleve seconda maniera sembrerebbe sostenere questa ipotesi. Ma è solo una mia speculazione.
L’ambientazione sembra attraente, tipica del genere, ma purtroppo se ne vede troppo poco per poterla giudicare: la magia riservata alle donne è forse l’aspetto più affascinante, perché introduce una distinzione nella pratica magica che non capita di trovare spesso in questo genere di storie. Per il resto è la classica rivisitazione fantastica di un’epoca primitiva approssimabile alla nostra età del bronzo, abitata da sottorazze umane singolari, come appunto i tritoni, gli uomini sonar e gli yeti, che si sono sviluppate nella loro forma attuale in seguito all’adattamento evolutivo. C’è una forte separazione tra le due società dell’esterno, quella barbarica di Eldain e quella da città stato di Sharne, e le due che si sono sviluppate sotto la montagna, Orisana ed Oridorna: queste ultime due stridono con le precedenti ma, occorre anche dire, sono pure due civiltà fantasma, che si sono sviluppate senza contatti con l’esterno e perciò sono sconosciute al resto del mondo. E Cleve fa in modo che tali restino.
Nell’insieme «Chieftain of Andor» si può paragonare a tutte le altre innumerevoli serie di romanzi planetari o «sword and planet», che poi ne sono solo una sfumatura, con un’unica, grossa differenza: è un libro unico invece che una serie, a volte anche corposa, di volumi; e pare pure incompleto. Questo è il grosso handicap del libro, perché si rischia di restare delusi se non si è consapevoli che il finale è apertissimo: anzi, che non è nemmeno un vero finale, dato che la conclusione della storia principale è ancora ben lontana e tutto lascia intendere che nuove avventure aspettino il gruppo dei protagonisti prima del vero epilogo.
Ma, tolto questo difettuccio, il libro è gradevole da leggere, proprio come ci si aspetta da questo genere di storie.
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