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Edgar Rice Burroughs – La principessa di Marte (Barsoom 1)

La sonda Viking prima ed i più recenti rover poi hanno ormai spogliato Marte di ogni fantasia e l’hanno mostrato per quello che è: un mondo morto ed ostile alla vita, che probabilmente non ha nemmeno mai conosciuto. Eppure, quando si pensa al pianeta rosso, ancora oggi non si può fare a meno di sentire un’eco delle fantasticherie di un tempo, di quell’epoca più ingenua magari ma anche più affascinante in cui tutti i mondi interni del sistema solare – persino Mercurio – erano abitati ed offrivano uno scenario incredibile per avventure mozzafiato: e così l’immagine classica associata a Marte è ancora quella di un pianeta morente, per lo più deserto, disseminato delle rovine di antiche civiltà e solcato da canali che convogliano verso i pochi centri abitati la scarsa acqua rimasta.
Non tutti però sanno che questa raffigurazione del quarto pianeta, così radicata nell’immaginario comune, è soprattutto eredità di un libro che, pur vecchio più di un secolo, rimane ancora tra i più importanti del genere fantastico: questo romanzo è «La principessa di Marte» di Edgar Rice Burroughs (A Princess of Mars, 1917), capostipite di una serie che si sviluppa in ben undici volumi, il cosiddetto ciclo di Barsoom o di John Carter di Marte, dal nome del primo protagonista.

Il romanzo planetario nasce qui
Nonostante un titolo che oggi suona imbarazzante, «La principessa di Marte» continua ad esercitare una forte influenza sulla narrativa fantastica: a questo libro e ai suoi numerosi seguiti si devono infatti non solo l’immagine classica di Marte – ripresa da una pletora di autori, tra cui Leigh Brackett – ma anche un intero genere letterario, il «romanzo planetario», al quale in tempi più recenti se ne è affiancato un secondo, la cosiddetta «science fantasy», ossia la fantascienza con elementi fantasy. Non sorprende infatti che il ciclo marziano di Burroughs sia stato una delle principali fonti di ispirazione di Guerre Stellari, ancora negli anni Settanta.
Pubblicato dunque in sei puntate col titolo «Under the Moons of Mars» (Sotto le lune di Marte) dal febbraio al luglio 1912 su The All-Story, una delle quattro maggiori riviste pulp di inizio secolo, il romanzo è stato poi ripreso, ampliato e pubblicato in volume nel 1917 col titolo che conserva ancora oggi, quando Burroughs era ormai divenuto un autore affermato, grazie anche al successo di Pellucidar e soprattutto di Tarzan, il cui esordio risale pure al 1912. In Italia tuttavia la storia è arrivata solo nel 1973 e ha avuto poche edizioni, l’ultima delle quali nel 2012.
Nella trentina di anni successivi all’esordio della «Principessa» Burroughs ha pubblicato un gran numero di seguiti, che assieme formano il già citato ciclo di Barsoom, il nome marziano di Marte: nella lingua locale significa «l’ottavo astro» del sistema solare. Nel conteggio sono inclusi non solo gli altri tre pianeti interni (Mercurio, Venere e la terra) ma anche le tre lune (quella della terra e le due di Marte) ed il sole stesso.
Raccontato in prima persona dal protagonista, che presenta gli eventi come un memoriale delle sue esperienze straordinarie, la storia inizia l’anno successivo alla fine della guerra di secessione americana, quando John Carter della Virginia, ex capitano dell’esercito confederato, trova una miniera d’oro nell’Arizona: per sfuggire agli indiani, si rifugia in una caverna temuta persino dai suoi inseguitori, dove vive un’esperienza di sdoppiamento. Per ragioni che sanno di magia (viene usato il concetto di «proiezione astrale») abbandona il suo corpo per trovarsi all’improvviso in carne e ossa su Marte, dove rimane dieci anni.

Un pianeta morente ma ancora abitato
Il Marte dell’ambientazione è un pianeta scarsamente abitato e antichissimo, che in passato ha conosciuto grandi civiltà: ma il progressivo ritirarsi delle acque ha provocato il crollo della civilizzazione. Così adesso è un deserto costellato di rovine grandiose – le città continuavano ad essere abbandonate e ricostruite in riva ai mari che andavano restringendosi sempre più – e ricoperto di un muschio giallastro che da un lato è sufficiente per nutrire gli animali ed attutire i rumori, dall’altro evita che il passaggio delle carovane alzi nuvole di polvere. Privo non solo di vento e di precipitazioni ma anche di uccelli e di vegetazione (tranne nelle zone coltivate), è un mondo caldo di giorno e gelido di notte che si rifiuta di morire ma si aggrappa alla vita con tutte le forze.
Il pianeta è un misto di superscienza e barbarie: si combatte ancora con le spade ma esistono le armi a raggio; gli spostamenti avvengono per lo più a dorso di animale ma aerei e navi volanti sono di uso comune; e c’è persino una «fabbrica dell’aria», importantissima perché permette la sopravvivenza. Ci sono anche città maestose tuttora abitate, con edifici alti centinaia di metri e riccamente ornati, dotati di ogni comodità e abbelliti con decorazioni di gusto squisito; ma ci sono anche le rovine usate come campi provvisori dalle tribù nomadi che, ignare del bello, percorrono gli sconfinati deserti solo per fare razzia: su Marte infatti tutti sono sempre in guerra gli uni con gli altri.
Oltre che longeve e telepatiche, quasi tutte le specie sono ovipare (lo sono senz’altro tutte quelle senzienti) e con l’eccezione dei marziani rossi, d’aspetto identici ai terrestri, sono caratterizzate da un numero sovrabbondante di arti: sei tra braccia e gambe per gli umanoidi, addirittura otto o anche dieci per gli altri animali. Per ragioni che non vengono mai spiegate (e che hanno anche poco senso, dato che la notte marziana è gelida) è costume girare nudi, ricoperti solo di un mantello e una sovrabbondanza di monili, cinghie, buffetteria e altre decorazioni.
Come detto, gli abitanti di Marte sono molto bellicosi: la principale rivalità è tra i marziani rossi (civilizzatissimi e umani in tutto e per tutto, a parte il dettaglio delle uova) ed i marziani verdi, i crudeli barbari dalle quattro braccia che, si apprenderà nei seguiti, sono il risultato di un esperimento genetico; ma anche tra loro i marziani rossi – che invece sono il risultato della mescolanza di più razze – non disdegnano di farsi guerra, magari solo in virtù di odi e costumi millenari che la tradizione, alla quale tutti si attaccano ottusamente, impedisce di risolvere in altra maniera.

Il protagonista più che umano: John Carter
Come detto, il protagonista è il capitano sudista John Carter che, per sfuggire agli indiani, entra in una caverna magica e in virtù di un qualche fenomeno inspiegato all’improvviso si ritrova su Marte: qui, favorito dalla minore gravità, il nostro si distingue immediatamente per la capacità di spiccare balzi incredibili, che gli guadagnano la stima dei Thark, la tribù di marziani verdi presso cui è capitato. Poi, per una combinazione di intelligenza, agilità e attitudine al comando, Carter diventa rapidamente un capo degli spietati selvaggi, nei quali scopre un lato umano e lo sfrutta a proprio vantaggio per conquistare Dejah Thoris, la bella principessa del titolo, e salvarne la città stato, assediata da un’altra città, tradizionalmente sua nemica.
Dopo aver espugnato il cuore di Dejah Thoris, Carter passa una decina di anni felici sul pianeta rosso: ma la sua ultima avventura – il tentativo di aprire le porte della fabbrica dell’aria, che improvvisamente ha smesso di funzionare, per riattivarla – lo riporta forzatamente sulla terra, quando sembra collassare soffocato: così dedica i dieci anni successivi al suo ritorno a scovare il modo di tornare su Marte, favorito dall’agiatezza derivante dai diritti di sfruttamento della miniera d’oro che aveva scoperto prima di compiere il viaggio. Ed una mattina il suo corpo viene trovato privo di vita: ma tutto lascia intendere che è riuscito a tornare dalla sua principessa con un metodo analogo a quello da cui tutto era cominciato, perché per sua disposizione il corpo terreno dovrà essere sepolto in una tomba la cui porta può essere aperta solo dall’interno.
Pur senza essere telepatico, in breve scopre di esserlo diventato: è infatti un requisito fondamentale per riuscire a comunicare con i marziani, perché il loro linguaggio (comune a tutti, di qualunque colore siano, verdi inclusi) è un misto di parole ed immagini mentali. Ovviamente il nostro ha un piccolo spunto sugli indigeni: infatti non solo riesce a leggere le menti di tutti ma è anche capace di tenere la propria chiusa agli altri.

I quasi del tutto umani: i marziani rossi
I marziani rossi sono il prodotto della fusione delle tre antiche razze del pianeta: i bianchi ormai estinti, i gialli e i neri, che sopravvivono ai poli. Più adatti alla sopravvivenza nell’ambiente sempre più arido di quanto sarebbero state le tre razze prese singolarmente, i marziani rossi vivono in città stato in perenne conflitto tra loro: le due di cui si parla nella «Principessa» sono le città gemelle di Helium, dalle quali proviene Dejah Thoris, e Zodanga, la sua rivale, ma ne esistono parecchie altre. Lungo i canali sorgono poi fattorie e campi coltivati che dipendono direttamente dalle città nel cui territorio si trovano.
Longevi (arrivano al migliaio di anni), ovipari e leggermente telepatici come tutte le creature marziane, i rossi sono un popolo nobile e acculturato, dedito alla scienza e alle arti, inclusa l’arte militare: sono anche incapaci di mentire e, come si conviene, rispettano ottusamente consuetudini e tradizioni millenarie che non mettono mai in discussione, nemmeno quando il divario culturale tra i costumi marziani e quelli terrestri giustificherebbe almeno il dubbio di un’incomprensione. Ma questo è un espediente molto sfruttato dalla vecchia fantascienza, perché permette di aggiungere una serie di scene che altrimenti non si sarebbero potute giustificare; in soldoni, aiuta ad allungare la storia.
Sono due i marziani rossi rilevanti in questo romanzo: Dejah Thoris, la principessa del titolo, e, in misura minore, Kantos Kan, un guerriero di Helium.
Dejah Thoris è la figlia del Jed (o «signore») di Helium minore, che a sua volta è figlio del Jed di Helium maggiore: catturata dai Thark (la stessa tribù di marziani verdi che aveva appena adottato John Carter) quando la nave volante su cui viaggiava viene abbattuta in un’imboscata, viene salvata più volte dal protagonista, al quale si lega sentimentalmente ben prima della fine del romanzo.
Kantos Kan invece è un guerriero di Helium che John Carter conosce quando viene catturato da un’altra tribù di marziani verdi (i Warhoon) e aiuta a fuggire dalla prigionia: si rivelerà un’utile pedina nei piani dell’eroe per liberare Dejah Thoris, spezzare l’assedio di Helium e distruggere Zodanga una volta per tutte.

I non proprio umani: i marziani verdi
I marziani verdi sono i principali antagonisti dell’ambientazione: umanoidi dalla pelle verde, sono alti più di quattro metri e hanno un secondo paio di braccia che all’occorrenza possono essere usate come gambe. Il loro volto è una via di mezzo tra quello di una bestia e quello di un insetto: hanno infatti due zanne spaventose che spuntano dalla mandibola e arrivano fin quasi alla fronte, gli occhi completamente neri a lato della testa – indipendenti l’uno dall’altro: così possono vedere in tutte le direzioni – e due antenne in cima al cranio che fungono da orecchie.
Come quasi tutte le creature marziane, sono leggermente telepatici, sono ovipari e non indossano abiti, se non i consueti gingilli metallici e pelli per proteggersi dal freddo notturno: anche loro sarebbero longevi – un migliaio di anni – ma a causa della società violenta in cui vivono l’aspettativa di vita non supera i trecento anni. Sono anche guerrieri sopraffini: anche se preferiscono le armi bianche, all’occorrenza usano una specie di fucile che spara proiettili esplosivi ed è in grado di colpire con precisione fino a trecento chilometri di distanza.
Barbari e violenti, non conoscono né famiglia né amicizia né amore né pietà, nemmeno tra loro. Sono infatti guidati dal capo più forte (come si diventi capo è facile intuirlo) e risolvono ogni disputa con la violenza: chi sopravvive aveva ragione e, se era inferiore di grado, prende pure il posto dello sconfitto. Sono divisi in un ventina abbondante di tribù nomadi, che contano diverse decine di migliaia di individui ciascuna, rette da un sommo capo: non disdegnano però di farsi la guerra tra loro quando si incontrano né di sabotarsi a vicenda, ad esempio distruggendo le uova dei clan rivali quando ne rinvengono le incubatrici.
Alla schiusa delle uova i nuovi nati – già completamente formati e di dimensioni paragonabili a quelle di un umano adulto – vengono scelti a caso dalle donne della tribù, che diventeranno le loro istruttrici per quanto riguarda i rudimenti della lingua e della cultura: nessuno sa a chi appartengano le uova scelte per la riproduzione, quindi nessun marziano verde sa chi siano i suoi genitori.
Un fervorino di Dejah Thoris aiuta a inquadrare il nichlismo di questa razza, che suona di grande attualità nel panorama storico e politico dell’epoca in cui Burroughs scriveva: «Un popolo senza un linguaggio scritto, senza arti, senza una casa, senza amore, vittima da innumerevoli millenni di un’orribile idea comunitaria! Avete tutto in comune, perfino le donne e i bambini, al punto che oggi, in realtà, non avete nulla! Vi odiate l’un l’altro, così come odiate tutto e tutti, fuorché voi stessi».
Delle venticinque i tribù in cui sono divisi, in questo libro se ne incontrano solo due: i selvaggi ma leggermente più trattabili Thark e i sadici e sanguinari Warhoon, dal nome delle antiche città abbandonate in cui risiedono i rispettivi capi o Jeddak (plurale di Jed). Tutti i nomi che vale la pena menzionare appartengono ai Thark: senz’altro Tars Tarkas, secondo per importanza nella gerarchia della tribù (ma su istigazione del protagonista a tre quarti della storia Tars uccide il suo superiore e ne prede il posto), d’indole più sensibile e quasi umano, il solo che Carter possa considerare vero amico; e sua figlia Sola, pure buona e amorevole, della cui paternità però Tars è ignaro.
Anche se non è propriamente un marziano verde, a questi si deve aggiungere il «cane» Woola, un mostro a dieci zampe e dalla testa di rana, con tre file di zanne nell’ampia bocca: i Thark lo mettono a guardia di Carter ma il terrestre stabilisce subito una relazione di reciproco affetto con l’animale, un «calot».

Primi salti su Marte
I precedenti di John Carter già si sono detti: capitano confederato, terminata la guerra di secessione americana cerca la fortuna in Arizona e trova una miniera d’oro. Inseguito dagli indiani, si rifugia in una caverna dove strani poteri dissociano la sua anima dal corpo e così all’improvviso si trova su Marte.
Appare proprio accanto ad un’incubatrice dei marziani verdi, che sospettano abbia cattive intenzioni: ma in virtù della gravità ridotta Carter non solo evita facilmente ogni tentativo di aggressione ma dà anche sfoggio di grandi doti atletiche, compiendo salti anche di trenta metri. Impressionati così i marziani verdi, viene accolto dalla tribù dei Thark. della quale diventa un capo minore già dopo pochi giorni: per il loro costume basta infatti sconfiggere un superiore per prenderne il posto, oltre che le armi e il nome (che diventa una specie di cognome). In breve, grazie all’intelligenza e alle capacità fisiche, si guadagna anche la stima del capoclan, Tars Tarkas, e di Sola, la Thark cui è stato assegnato per imparare la lingua e le usanze dei suoi ospiti: ottiene anche la fedeltà di Woola, una sorta di cane dall’aspetto spaventoso, al quale era stato ordinato di impedire che il terrestre si allontanasse o si mettesse nei guai. Presto l’eroe scopre inoltre di aver sbloccato facoltà telepatiche sorprendenti anche per i marziani, che lo sono già di natura: è infatti in grado di leggere tutte le menti mentre la sua rimane chiusa a tutti.
Dopo neanche due settimane di permanenza tra i Thark, Carter assiste ad un’azione di guerra dei bellicosi marziani verdi, che con i loro fucili a lunghissima gittata attaccano una flotta di venti navi volanti, abbattendone un buon numero: soprattutto, tirano giù l’ammiraglia, a bordo della quale viaggiava la principessa Dejah Thoris, unica superstite e figlia del capo di Helium, una delle principali città dei marziani rossi, d’aspetto identici ai terrestri e nemici giurati dei marziani verdi,
Subito catturata dai Thark, la principessa crede che Carter sia un rinnegato del suo popolo, tanto più che lei aveva fatto un certo gesto al quale l’eroe avrebbe dovuto rispondere in un certo modo: ma dato che il terrestre è straniero ed ignora le usanze locali, Carter rimane indifferente alla richiesta d’aiuto della donna, che interpreta l’assenza della reazione sperata come un insulto.
Così si chiude in se stessa e per giorni rifiuta di avere contatti col terrestre.

La fabbrica dell’aria
Finalmente i due si chiariscono e si promettono eterno amore: ma i guai sono appena cominciati, perché la ragazza sta per essere offerta in dono al sadico capo dei Thark, Tal Hajus, che già pregusta le torture: così con un’azione improvvisa ed avventata, Carter riesce a liberarla e, assieme a Sola, metterla in salvo. Per guadagnare tempo infatti rimane indietro e impegna un’altra tribù di marziani verdi, i Warhoon con i loro trofei di teschi umani e mani mozzate, che li aveva attaccati a vista: il terrestre viene sopraffatto dai numeri e catturato giusto in tempo per essere gettato nell’arena, dove stringe amicizia con un guerriero di Helium, Kantos Kan, prima di menar fendenti a destra e a manca.
D’accordo col suo nuovo amico, nel combattimento finale il terrestre finge di essere ucciso da Kantos e così gli garantisce la vittoria e la libertà: col favore delle tenebre trova poi il modo di sgattaiolare via dall’arena ma manca l’appuntamento tra le colline con Kantos e così si trova solo.
Nelle sue peregrinazioni si imbatte nella fabbrica dell’aria, l’edificio più importante di tutto Marte, rispettato persino dai marziani verdi: ed il vecchio guardiano, che vive da solo nella fortezza, gli permette anche di entrare, salvo pentirsene subito dopo. E così cerca di ucciderlo; ma Carter riesce a fuggire, dopo aver frugato telepaticamente nella mente del guardino ed avervi trovato il comando mentale necessario per aprire le porte (che sarà importantissimo anni più tardi).
Con l’aiuto di qualche marziano rosso, riesce a camuffarsi per assomigliare ad un abitante della città di Zodanga, acerrima nemica di Helium, dove non solo incontra nuovamente Kantos Kan ma, col suo aiuto, viene anche accettato nel corpo degli esploratori, in pratica gli spericolati aviatori. Qui ritrova anche Dejah Thoris, che era stata catturata dai suoi tradizionali nemici: per garantire la pace tra le due città, la donna ha appena accettato di sposare Sab Than, il figlio del Jed locale, e così rifiuta l’aiuto offertole dal nostro eroe.
Su Marte infatti non solo le bugie sono sconosciute ma addirittura le promesse, anche quelle estorte con la forza, devono essere mantenute: pur di liberare Dejah, Carter sarebbe disposto ad uccidere il suo promesso sposo ma, per un altro di questi costumi assurdi cui i marziani si aggrappano ottusamente, la tradizione proibisce ad una donna di sposare l’assassino del proprio marito o promesso sposo, anche se non lo sa nessun altro oltre a lei.
Così Carter è costretto ad accettare la situazione.

L’eroe di tutto un pianeta
Più avanti un incidente di volo lo fa precipitare nel mezzo di una battaglia tra marziani verdi: qui incontra nuovamente Tars Tarkas e combatte al suo fianco – anzi, schiena contro schiena – rinnovando così l’amicizia col guerriero, che poi induce a sfidare il grasso Tal Hajus, per prenderne il posto di capo dei Thark. Il combattimento tra i due dura poco.
Così, con l’aiuto di tutti i Thark e di altre tribù, allettate all’idea di un ricco bottino, Carter dà libero sfogo alla propria immaginazione: guida un esercito di centocinquantamila marziani verdi (mai visti prima così tanti assieme) all’assalto di Zodanga, che espugna proprio mentre si sta per celebrare il matrimonio tra Dejah Thoris e Sab Than, che Carter lascia sia Tars Tarkas ad uccidere, per salvare le circostanze. Così adesso i due possono finalmente sposarsi.
Prima però rimane da spezzare l’assedio di Helium: così il terrestre guida l’onda verde ad un’altra vittoria, che gli vale non solo l’ammirazione smodata degli abitanti di Helium ma anche il matrimonio con l’amata, con la benedizione del padre e del nonno della sposa.
Ma anni dopo, quando l’uovo generato dalla nuova coppia sta per schiudersi, succede il disastro: il custode della fabbrica dell’aria muore all’improvviso (da giorni non risponde più alle chiamate) ed il suo unico assistente viene trovato assassinato. Nessuno sa come entrare nell’enorme complesso, impenetrabile anche dal cielo, e così presto l’aria sul pianeta sarà esaurita. Giorni dopo, quando i primi marziani iniziano a morire per asfissia e anche alla famiglia reale di Helium restano ormai poche ore di vita, Carter ricorda finalmente che lui, unico vivente, conosce la combinazione mentale che apre le tre spesse porte dell’edificio: così con le ultime forze vola alla fabbrica, dove migliaia di marziani stanno tentando inutilmente di aprire una breccia nelle mura titaniche, e con l’ultimo respiro ne apre le porte, prima di cadere a terra «nel coma che precede la morte».
Al risveglio, si ritrova nella caverna in cui era cominciata la sua esperienza extracorporea: dedicherà i dieci anni successivi a scovare un modo per tornare su Marte. E da come si è aperto il libro – oltre che dai dieci seguiti, dei quali i prossimi due, «Gli dei di Marte» e «Il signore della guerra di Marte», lo vedono ancora protagonista – si intuisce che deve averlo trovato.

Un ritmo mozzafiato
Per quanto ottima e godibilissima, la storia risente dell’epoca in cui è stata scritta: per certi versi è ingenua e sin troppo ottimistica, una caratteristica che suona strana al lettore contemporaneo, abituato più all’ambiguità e ai chiaroscuri, oltre che a una maggiore introspezione. Qui invece di analisi interiore non c’è traccia, sebbene sia narrato tutto in prima persona: anche quando Carter esprime un dubbio o una perplessità non si avverte quello struggimento interiore, quell’incertezza che rende così insopportabili certi personaggi più recenti (e così difficoltosa la lettura, ad esempio, del pur ottimo «Dune»). Carter sa sempre che, qualunque decisione prenda, farà la cosa giusta, anche quando teme per il buon esito delle sue azioni: e questo rende così squisitamente gradevole la storia perché non sono le incertezze ma le azioni a fare di un uomo un eroe. E proprio per questo Carter è, nella finzione, un vero eroe, tutto d’un pezzo.
L’altra faccia della medaglia è che un simile personaggio rimane abbastanza piatto: Carter si distingue dagli altri eroi dei pulp solo perché a differenza della maggior parte dei protagonisti delle vecchie storie di fantascienza – nella loro perfetta adeguatezza alle situazioni più simili a sagome di cartone che a uomini reali – pare essere dotato di un minimo di personalità in più, ma si parla sempre di dosi assai ridotte. Nell’insieme però riesce un personaggio gradevole, capace di suscitare simpatia, uno per il quale è facile parteggiare.
Quanto al romanzo in sé, la storia scorre liscia e mantiene un ritmo formidabile dall’inizio alla fine: ci sono, è vero, dei momenti in cui l’azione ristagna – in particolare i siparietti amorosi con Dejah Thoris – ma per il resto il lettore viene sopraffatto dalla catena di eventi che avvengono quasi senza pausa. Per tenere il lettore col fiato in sospeso ed indurlo a leggere «ancora una pagina», Burroughs non dedica più di alcune righe ad ogni avvenimento: e persino gli eventi più rilevanti, che pure vengono tirati per le lunghe, non suonano mai troppo noiosi o ripetitivi ma anzi trovano sempre il perfetto equilibrio tra ritmo, lunghezza e contenuti.
La narrazione è perfetta: e d’altronde è da aspettarselo, visto l’enorme successo che Burroughs ha avuto come scrittore, con oltre cinquanta libri pubblicati ed un gran numero di serie e personaggi che sono divenuti dei classici: non si può affatto sbagliare quando si sceglie di leggere uno dei suoi romanzi, uno qualsiasi.

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