Ho un debole, ormai si sa, per i libri di Murray Leinster: trovo che i suoi racconti abbiano un’attrattiva particolare, nonostante le trame solitamente semplici, quasi dimesse. C’è qualcosa infatti nel suo stile che comunica equilibrio e buon gusto: probabilmente perché Leinster descrive giusto il necessario senza perdersi nei dettagli; o perché non si lascia prendere la mano da situazioni esagerate, inverosimili; o ancora perché i suoi protagonisti non sono superuomini dotati di poteri straordinari ma uomini comuni armati solo di ingegno e tenacia.
Proprio come il protagonista del trascurato «Squadra di esplorazione» (Exploration Team, 1956; in seguito: Combat Team, 1957; a volte reso anche con «Colonia vietata»), un romanzo planetario che è prima di tutto un grande inno alla libertà individuale e allo spirito pionieristico come alternative alla burocrazia e alla schiavitù, che invece sono il prodotto della civiltà e della tecnologia.
L’unico premio vinto da Leinster
Pubblicato da Astounding nel marzo del 1956 – e quindi passato per il filtro di John Campbell, che sta alla fantascienza moderna come San Paolo al cristianesimo delle origini – questo romanzo lungo è valso a Murray Leinster l’unico premio della sua lunghissima carriera, l’Hugo del 1956 appunto, che è anche il più importante della fantascienza: l’anno successivo è stato incluso anche nel fixup «Colonial Survey» con leggere modifiche alla trama per armonizzarlo alle altre tre storie della raccolta, che nel 1958 è stata pubblicata anche in Italia grazie ad Urania col titolo di «Costante solare» (ma il volume nostrano contiene solo gli altri tre racconti, non questo).
Nella nuova versione cambia anche il nome del funzionario coloniale, che da Roane diventa Bordman, lo scialbo protagonista di tutte e quattro le avventure: ma, tolto il blocco relativo a «Squadra di esplorazione», gli altri tre racconti del fixup sono freddi e noiosi, semplici risoluzioni meccaniche di problemi ingegneristici con giusto una doratura fantascientifica, che mal si accompagnano al calore umano di questa storia e per tono ricordano semmai le avventure altrettanto piatte di un analogo ciclo di Leinster riuscito solo a metà, quello di Calhoun e dell’astronave medica (che però almeno ha una sua attrattiva nel simpatico compagno alieno Murgatroyd).
Nonostante i riconoscimenti (e nonostante la pubblicazione in parecchie antologie, come la collana delle Grandi storie della fantascienza di quel presuntuoso di un Asimov) il racconto è semidimenticato, probabilmente proprio perché affronta il tema dell’autodeterminazione, oggi così malvisto.
Sullo sfondo di un pianeta abitabile ma ancora troppo pericoloso per essere colonizzato – e quindi proibito agli insediamenti dall’immensa macchina burocratica della «koinè» umana: in altre parole, l’Onu – si scontrano due diverse ideologie: quella dell’uomo civilizzato, che non si rende conto di essere schiavo della tecnologia e della burocrazia; e quella del pioniere che rifiuta la falsa sicurezza del progresso ed invece aggredisce la frontiera per strapparle nuove terre da donare all’umanità a costo di pericoli e privazioni personali.
Superfluo dire quale ideologia risulterà superiore all’altra ben prima della fine del racconto.
Il criminale di Loren Due
Il protagonista della storia, un tale Huyghens (il nome di battesimo non viene mai detto), è un duplice criminale: non che abbia mai fatto nulla di criminoso in vita sua – almeno secondo i nostri criteri – ma tecnicamente, per le leggi dello spazio, è un delinquente e pure della peggior specie. Lo è infatti per il suo pianeta di origine, perché ha rubato o «rapito» quattro orsi mutati; e lo è anche per il resto dell’umanità, perché si è installato su un mondo che non è stato ancora aperto alla colonizzazione: e, come si affretta a spiegare l’autore, nello spazio non esiste crimine più grave dell’occupazione non autorizzata di un nuovo pianeta.
In realtà Huyghens è un dipendente della Kodius Company, un’azienda del suo pianeta natale, del quale pure non viene mai fatto il nome: stufo dei condizionamenti della civiltà, ha accettato di fare da osservatore e apripista per la Kodius su Loren Due, che sarebbe anche un bel pianeta per viverci se non fosse per la fauna un po’ troppo aggressiva e vorace. Questa è anche la ragione per cui il pianeta è ancora chiuso alla colonizzazione: ci sono infatti gli aggressivi camminatori notturni, che tra risatine soffocate e stridule vengono presi da crisi d’isterismo quando c’è troppa luce; poi ci sono le scimmiette volanti vampir-cannibali, che prima succhiano sangue come le zanzare e poi, uccisa la vittima per dissanguamento, ne divorano il corpo; ma soprattutto ci sono gli sphex, sorta di lucertolone carnivore intelligenti lunghe più di due metri e pesanti anche mezza tonnellata, caratterizzate da forza prodigiosa, voracità disumana e curiosità eccezionale. Cacciano in branco ed hanno un olfatto affinatissimo, che tra l’altro permette loro di sentire l’odore di un loro simile ucciso anche a decine o centinaia di chilometri di distanza: e quando ne afferrano l’usta, accorrono sul posto in quantità per vendicarlo. Merita, per il colore, la descrizione che ne fa Huyghens: «Se prende un cobra che sta per schizzare veleno e lo incrocia con un gatto selvatico, lo dipinge di bruno chiaro e di azzurro e ci aggiunge l’idrofobia e la mania omicida nello stesso tempo…ebbene, eccole uno sphex».
Da quando il suo collega è stato ferito o ucciso da un camminatore notturno ed evacuato dalle navi della Kodius, Huyghens è rimasto l’unico umano sul pianeta, o almeno crede di esserlo: gode tuttavia della compagnia di quattro orsi kodiak mutati – non nel senso di una manipolazione genetica ma di un’accurata selezione – e di un’aquila calva, Semper Tyrannis. Che non solo è un nome stupendo da darsi all’aquila simbolo degli Stati Uniti ma porta subito all’attenzione del lettore il tema libertariano che è alla base della storia: il nome infatti è un riferimento più che esplicito a quel «Sic semper tyrannis» («Così sempre ai tiranni») che Bruto avrebbe detto mentre pugnalava Cesare e che da allora è divenuto il grido di libertà di ogni tirannicida.
I discendenti di Kodius Champion
Le vere star dell’insediamento però sono gli orsi o almeno tre di essi, dato che il quarto, Nugget, è ancora un cucciolo, ma un cucciolo che pesa già trecento chili ed è alto quasi un metro e mezzo al garrese: si tratta di Sitka Pete, Sourdough Charley e Faro Nell (la madre di Nugget), tutti a cavallo della tonnellata di peso, e tutti anche discendenti dell’illustre Kodius Champion, il primo orso ad aver sviluppato certe caratteristiche particolarmente ricercate sul pianeta natale di Huyghens. Lì infatti c’era bisogno di un animale che potesse combattere come un demonio, vivere dei prodotti della terra, trasportare pesi e andar d’accordo con gli uomini almeno quanto un cane: scelte dunque le caratteristiche fisiche volute, gli allevatori hanno poi trovato i candidati ideali negli orsi kodiak, nei quali hanno quindi cercato di sviluppare la personalità e la psicologia. Il lavoro si è concluso circa un secolo prima degli eventi narrati nel racconto ed è culminato in Kodius Champion, il primo vero successo.
I quattro orsi protagonisti del racconto sono dunque orsi normali ma anche molto intelligenti: infatti non sono addestrati ma si addestrano da soli e vogliono andare d’accordo con gli uomini, dai quali dipendono emotivamente come compagni ed amici fedeli. In altre parole, gli orsi «hanno simpatia per noi», spiega il protagonista, «ed io ammetto di aver simpatia per loro. Forse perché hanno simpatia per me».
L’utilità degli orsi in un pianeta selvaggio di frontiera è evidente: non solo sono un’unità da combattimento notevole ma sono anche in grado sia di portare grossi pesi senza esserne intralciati sia di procacciarsi da soli il sostentamento.
Il casco blu galattico
Quando la storia si apre, fatta rapidamente la conoscenza di Huyghens e dei suoi compagni animali, si presenta subito un problema per il protagonista: un’astronave, che non può essere della Kodius Company, ha intercettato il radiofaro della sua capanna e cerca di mettersi in contatto con lui. È una nave commerciale inaspettata, che deve far sbarcare un passeggero: è un certo Roane, si scoprirà, un ufficiale superiore della Ricognizione Coloniale, ossia uno che ha l’autorità per creare non pochi problemi al protagonista e ne ha tutta la voglia. Ma nello scenario surreale dell’incontro (è notte e lo spiazzo d’atterraggio è illuminato dalle lampade) Huyghens sa di avere il coltello dalla parte del manico: così, lasciato ripartire il razzo, dichiara candidamente al nuovo arrivato di essere un criminale e di mantenere un insediamento illegale, quello appunto dove Roane è appena sbarcato. Sa di poterlo fare perché non solo è protetto dai suoi orsi ma, come visto, la fauna locale è molto pericolosa, soprattutto per qualcuno che, come il casco blu spaziale, crede di essere sceso al sicuro nell’Installazione Robot Loren Due.
A onore di Roane, che si dimostrerà un tipo convinto delle sue idee e delle regole ma anche assai ragionevole, va detto che non si scompone ma dichiara comunque Huyghens in arresto e gli promette di mandarlo in prigione, «se appena sarò in grado di farlo».
Ad ogni buon conto, la resa dei conti viene rimandata ad un’altra occasione.
I guai della colonia robotizzata
Nei successivi dialoghi tra i due umani, che nel frattempo sono tornati alla base di Huyghens, si scopre che Roane era stato mandato sul pianeta per controllare lo stato di avanzamento di una colonia robotizzata che, impiantata mesi prima, non solo ha smesso di mandare segnalazioni ma non ha nemmeno risposto ai continui tentativi di contatto lanciati nei tre giorni precedenti dalla nave che ha scaricato l’osservatore sul pianeta. Tutto lascia intendere che l’insediamento non esista più. E che probabilmente la causa sia da ascrivere agli sphex.
A sentire ciò Huyghens, del tutto irrazionalmente, decide su due piedi di montare una spedizione di soccorso, anche se non ha la più pallida idea di dove possa essere la colonia: fino ad un attimo prima nemmeno sapeva della sua esistenza ed anzi era convinto di essere l’unico umano sul pianeta. Ma adesso che lo sa sente che è suo dovere di uomo libero fare il possibile per portare aiuto agli eventuali superstiti: lo esige il rispetto di se stesso.
Così quella notte costruisce un’antenna portatile, nella speranza che gli eventuali superstiti siano riusciti a lanciare un segnale di soccorso – per quanto debole – e di poterne triangolare l’origine; e l’indomani parte, seguito da Roane, con i quattro orsi e Semper, il cui compito nel gruppo è di fare da esploratore mediante una telecamera applicatale con un’imbracatura al petto e collegata ad una piastra di ricezione manovrata dal protagonista. C’è così tempo per scoprire il pianeta, che pare molto accogliente, e per farsi un’idea degli sphex, che attaccano in gruppo la spedizione ma vengono anche facilmente eliminati dagli orsi (che impiegano una nuova tattica escogitata il giorno precedente da Sitka Pete: due sberle alla Bud Spencer che schiacciano la testa ed il cervello della vittima come se fosse un uovo) e dalle pallottole esplosive dei fucili dei due umani. Alla fine del combattimento, i corpi dei rettili vengono rapidamente eliminati e le zampe degli orsi disinfettate, non tanto per il rischio di infezioni quanto per evitare che l’odore del sangue dei mostri ne richiami altri sulle loro tracce.
Nel corso del viaggio però i due umani trovano anche il tempo per parlare: e nei colloqui, soprattutto nei pistolotti di Huyghens, spunta finalmente la carica libertariana del racconto.
La schiavitù delle macchine
Durante queste conversazioni emergono dunque tutte le convinzioni di Huyghens, che afferma di aver scelto di fare il criminale «perché mi sembra più adatto a quello che penso di essere». Ossia un uomo libero, che ha rispetto di sé: per divenirlo però ha dovuto fare qualcosa di irragionevole, ossia spezzare le catene che lo tenevano legato alla vita civilizzata e in un certo senso fuggire su Loren Due. «Io sono un pazzo, naturalmente. Ma su questo pianeta vivo come un uomo. Vado dove voglio e faccio quello che voglio».
Il suo non è tanto un rifiuto della vita comoda quanto una ribellione alla schiavitù implicita in qualsiasi tipo di civiltà, qui rappresentata dai robot, il volto ammiccante del progresso e della tecnologia, che col pretesto di rendere migliore la vita dell’uomo in realtà lo hanno asservito: «Un numero sempre maggiore di persone – afferma infatti Huyghens – viene privato del suo potere decisionale, e vien consentito loro soltanto il potere di scegliere fra le cose permesse dai robot. Più dipendiamo dai robot, più queste scelte diventano limitate. Non vogliamo che i nostri figli si limitino a volere ciò che i robot possono dargli! Non vogliamo che si riducano al punto di abbandonare tutto ciò che i robot non possono fornirgli o non vogliono fornirgli! Vogliamo che siano uomini e donne. Non dannati automi che vivono soltanto pigiando i comandi dei robot per poter pigiare i comandi dei robot. Se questa non è subordinazione ai robot…».
Basta sostituire i robot con i malanni dei nostri tempi – come l’informatica, i social network, i telefonini, le app, la domotica e tutti gli altri gadget tecnologici «intelligenti» – e ci troviamo di fronte una descrizione piuttosto accurata della società moderna che, per lo più incapace di pensiero autonomo e fortemente dipendente dalla tecnologia soprattutto per soddisfare i bisogni indotti, ormai pensa e si comporta secondo schemi prefissati da altri.
Quando infatti si opera con la tecnologia – ossia quando si delega ad altri ogni decisione che ci riguarda o si lascia che siano altri a scegliere per conto nostro cos’è bene o sicuro o accettabile per noi – si finisce per diventare schiavi, anche se si crede di essere i padroni, perché così ci viene lasciato credere: ma «voglio decidere io quello che voglio», ribadisce Huyghens con voce pacata, «invece di dover limitare la mia scelta fra quelle che mi vengono offerte».
È qui infatti il cuore del problema: «Se la colonia dei robot fosse stata un successo, lei pensa che gli umani che l’avrebbero abitata sarebbero vissuti come uomini? No di certo! Dovrebbero vivere così come i robot li lascerebbero vivere! Dovrebbero rimanere dentro un recinto costruito dai robot. Dovrebbero alimentarsi di ciò che i robot allevano o coltivano, e di nient’altro. Un uomo non potrebbe neppure spostare il proprio letto accanto alla finestra, poiché se lo facesse i robot domestici non potrebbero lavorare! I robot li servirebbero – alla maniera stabilita dai robot – ma gli unici lavori ad essi possibili sarebbero quelli relativi alla manutenzione dei robot stessi»!
Sembra proprio di vivere sotto il giogo dell’Unione Europea.
Crollano le certezze dell’uomo civilizzato
Pian piano le convinzioni da uomo civilizzato di Roane iniziano a traballare e, quando infine vengono frantumate dalle idee di Huyghens, il casco blu apre finalmente gli occhi: si rende conto che il suo antagonista non ha affatto torto. È il momento tanto atteso da Leinster, che così può descrivere il ravvedimento dell’osservatore rinsavito: «I robot erano compagni meravigliosi per fare ciò che ci si attendeva che facessero: compiere quant’era stato progettato, copiare quello che era stato previsto. Ma avevano anche difetti. I robot erano soltanto in grado di seguire le istruzioni: se accade questo, fai questo; se accade quest’altro, fai quest’altro. Ma davanti a qualcos’altro ancora, né questo né quello, i robot erano impotenti. Perciò una civiltà robotica funzionava soltanto in un ambiente dove non accadeva mai niente d’imprevisto e i supervisori umani non esigevano mai niente d’inaspettato. Roane era sgomento. Mai prima di allora, durante tutta la sua vita e la sua carriera, aveva incontrato qualcosa di veramente imprevedibile».
E questa è proprio la ragione per cui Huyghens e pochi altri come lui hanno chiesto di essere mandati su Loren Due: colonizzarlo alla vecchia maniera, quella del pioniere, dell’uomo libero. «Ci è stato rifiutato. Troppo pericoloso», dice, «Ma gli uomini possono colonizzare dovunque, se sono uomini. Così, sono venuto qui a studiare il pianeta. Specialmente gli sphex. Alla fine speravamo di poter chiedere di nuovo una licenza, dimostrando di essere in grado di tenere a bada perfino quelle bestie. Io lo sto già facendo, anche se in misura limitata. Ma la ricognizione ha concesso la licenza per una colonia robotica, e adesso, come sono ridotti?»
Il lettore lo ha già intuito: ma prima di riceverne la conferma, la spedizione farà un scoperta ancora più importante.
Il punto debole delle lucertolone
Appena prima del combattimento con i rettili descritto alcuni paragrafi fa, Huyghens era dunque riuscito a captare un segnale di soccorso con la sua antenna improvvisata e a risalirne all’origine: un qualche punto in una certa direzione, al di là dell’altopiano Sere, un’imponente catena montuosa che rappresenta il confine delle terre conosciute. È quindi in quella direzione che il gruppo si avvia: il viaggio richiederà alcune settimane.
Lungo il cammino, i nostri incontrano branchi di sphex sempre più numerosi: solo che i rettili non hanno l’aria di essere in caccia bensì di trovarsi come in piena migrazione, perché formano lunghe file che scorrono rapide invece di coprire un ampio ventaglio. In passato Huyghens aveva già notato che nella stagione fredda (l’anno di Loren Due è più lungo di quello terrestre) gli sphex scomparivano per lunghi periodi, probabilmente per svernare in terre più calde, ma non aveva idea di dove andassero. Adesso però inizia a farsene un’idea, perché la spedizione umana è costretta a percorrere ed attraversare quegli stessi sentieri migratori, che puntano tutti nella stessa direzione: proprio l’altopiano Sere, un tavolato deserto in mezzo alle foreste lussuriose del pianeta. La causa di questa pianura desolata è una montagna altissima alla sua estremità che blocca i venti dominanti e li divide allo stesso modo in cui la prua di una nave divide le acque: le correnti d’aria che trasportano l’umidità scorrono quindi accanto al pianoro, non sopra di esso, e così il suo interno è un deserto riarso dal sole di alta quota.
Costretto dunque ad attraversare l’altopiano per raggiungere la colonia, Huyghens fa anche la scoperta più importante del suo soggiorno su Loren Due: quel deserto è uno dei luoghi di procreazione dei terribili rettili.
Gli ultimi superstiti
Diverse settimane dopo aver lasciato la relativa sicurezza della base di Huyghens e dopo aver superato numerose avversità (parecchi giorni senza acqua né cibo; un attacco notturno da parte delle scimmiette volanti durante l’ascesa; un altro attacco da parte di un paio di sphex isolati nel deserto), i nostri raggiungono infine ciò che resta della base, dove trovano ancora tre sopravvissuti, tutti in condizioni spaventose: nei loro racconti, questi superstiti confermano i sospetti di Huyghens, cioè che la base è stata attaccata dagli sphex. Attratte dalla loro curiosità, le prime lucertole sono rimaste fulminate dalla barriera elettrificata costruita dai robot ma l’odore dei rettili morti ne ha richiamati altri e poi altri e poi altri ancora e così via finché la barriera non ha ceduto sotto la pressione degli sphex, che hanno invaso la base e fatto scempio degli occupanti, mentre i robot, concepiti per altri compiti, non erano in grado né di difendere né aiutare gli umani.
Con l’aiuto dei tre superstiti, che ormai «odiavano i robot ed ogni cosa che avesse relazione con essi soltanto un po’ meno di quanto odiavano gli sphex», i protagonisti riprendono il controllo della base e poi, sempre armati di lanciafiamme cingolati e sterilizzatori del terreno pensati per bruciare la vegetazione e liberare rapidamente ampi spiazzi, tornano sull’altopiano per fare piazza pulita delle lucertolone e delle loro uova.
Dalle descrizioni si intuisce che quello è solo uno dei tanti luoghi di procreazione dei terribili rettili sul pianeta ma intanto, grazie all’azione rapida e decisa dei nostri nel deserto, l’anno prossimo gli sphex dell’altopiano saranno assai ridotti di numero: e attacchi ancora più massicci che verranno compiuti con i mezzi adatti negli anni successivi saranno sufficienti per sterminarli definitivamente. Individuati quindi gli altri luoghi di procreazione e fatto lo stesso con quelle orde, entro pochi anni la minaccia degli sphex sarà finalmente debellata e Loren Due perfettamente colonizzabile.
Tutto grazie ad un criminale o, meglio, allo spirito d’iniziativa di un uomo irrazionale che non ha rinunciato ad essere libero.
La conclusione, sia del libro sia della recensione
Nel finale Roane riconosce implicitamente che Huyghens ha avuto ragione sin dall’inizio: afferma infatti di non credere più ai robot come un tempo, fatto salvo il posto che ad essi compete, «e il loro posto non è qui». Così nel suo rapporto dirà che la colonia così com’era stata progettata non era proponibile e lancerà al protagonista un salvagente: dichiarerà cioè che la colonia attaccata aveva lanciato una chiamata di soccorso che è stata ricevuta dalla nave su cui viaggiavano i nostri, che sono accorsi in suo aiuto, perciò non era illegale per Huyghens trovarsi sul pianeta.
Ma il protagonista è scettico: «Non ci crederei nemmeno se fossi io stesso a raccontarlo. Crede che la Ricognizione ci crederà»?
«Non sono sciocchi» riconosce Roane. «Certo che non ci crederanno! Ma quando il mio rapporto dirà che a causa di questa improbabile serie di eventi la colonizzazione del pianeta è praticabile, mentre prima non lo era…e quando il mio rapporto dimostrerà che una colonia puramente robotica è una grande sciocchezza, ma che aggiungendo orsi e uomini del suo pianeta, un certo numero di coloni, nell’ordine delle migliaia, potrà essere accolto ogni anno…».
Con queste parole il patto è concluso: Huyghens accetta, «non fosse altro perché significa che qualche altra generazione di uomini vivrà da uomini su un pianeta che richiederà parecchio per essere domato».
E se a questo punto non siete stati ancora presi dal fervore del pioniere e non vi è venuta voglia di mollare tutto per lanciarvi alla ricerca di nuove terre da scoprire e domare, decisamente il romanzo planetario non è il genere che fa per voi!
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