Parlando non molto tempo fa di letture con la fidanzata di un caro amico, abbiamo finito inevitabilmente per discutere anche dei nostri libri preferiti: nel descrivere i suoi, quest’amica mi ha confidato che in linea di principio il fantasy (purtroppo intendeva l’high fantasy) le piacerebbe per temi ed ambientazioni ma alla fine non è così attratta dal genere perché non ci sono protagoniste femminili. Sebbene da un punto di vista generale abbia in parte ragione, la sua osservazione non è però del tutto veritiera: esistono infatti parecchi cicli, pubblicati soprattutto nell’ultimo ventennio, che seguono le vicende di eroine e non di eroi, anche se poi, nel tentativo di mostrarle emancipate e di conseguenza apparire essi stessi moderni (come da «virtue signaling», il flagello di questi anni), gli autori cadono nell’errore opposto, ossia di renderle così mascoline da essere o non credibili o poco interessanti; in ogni caso, caricature o scimmiottature degli eroi maschili che dovrebbero rimpiazzare. Ma in definitiva non sono attratto né dall’high fantasy né dai libri troppo recenti, quindi non voglio nemmeno sbilanciarmi sull’argomento.
Sono tuttavia appassionato di vecchi libri e di pulp e su questi ho quindi spostato la conversazione non appena mi è stato possibile, per portarla su un terreno che mi è più congeniale. E qui, proprio dalla carta a buon mercato delle riviste ingiallite dal tempo, ho estratto il mio asso nella manica: Jirel di Joiry (Jirel of Joiry, 1969), la protagonista dell’omonimo breve ciclo di sei racconti di sword and sorcery scritti negli anni Trenta da C.L. Moore, dove la C sta per Catherine e la L per Lucille. Una protagonista femminile, quindi, in una serie di storie fantastiche scritte da una donna.
A quel punto nei suoi occhi – gli occhi dell’amica con cui parlavo – ho visto accendersi l’interesse per questa serie: e, proprio per tenere vivo quell’interesse, che il repentino cambio di argomento ha lasciato in sospeso, mi sono affrettato a scrivere questa recensione.
La regina delle ambientazioni
Catherine Lucille Moore è una po’ la pioniera delle scrittrici d’azione, una delle prime donne ad essere state pubblicate sui pulp – incluso Weird Tales – a partire dagli anni Trenta: già questa informazione è preziosa perché dà un’idea della qualità delle sue storie, che dovevano rispettare determinati requisiti per soddisfare il pubblico quasi esclusivamente maschile dell’epoca. La Moore è nota soprattutto per due personaggi: Northwest Smith, archetipo dell’avventuriero spaziale, la sua prima creatura; e Jirel di Joiry, la seconda, un’intrepida guerriera medievale. È inoltre nota per essere stata la moglie di Henry Kuttner, altro nome famoso delle riviste degli anni Trenta e Quaranta, col quale ha collaborato così strettamente che, da un certo momento in poi, in molte delle loro collaborazioni è quasi impossibile capire dove finisca l’opera dell’uno e cominci il lavoro dell’altra.
La Moore era la regina delle ambientazioni: nelle sue storie riusciva infatti a dare descrizioni particolarmente vivaci ed evocative dei luoghi e a creare atmosfere suggestive, in particolare quando erano dominate da un’influenza malvagia. Nella raccolta di Jirel che costituisce l’argomento di questo articolo, ad esempio, gli ambienti soprannaturali in cui la protagonista si muove comunicano sempre un senso di estraneità e di minaccia incombente: spesso le descrizioni sono scene cinematografiche che, per esposizione e costruzione, potrebbero stare benissimo in un film, come quando Jirel entra nella sala dai mille specchi le cui immagini poi confluiscono in una sola o, nella nebbia notturna, le porte del castello infestato si spalancano davanti all’eroina, rivelando una luce intensa dall’altra parte ed una sagoma che si profila in controluce.
Ciononostante – nonostante la sua indubbia abilità descrittiva, intendo – la Moore non è ancora all’altezza di altri talenti della stessa epoca, a cominciare da Clark Ashton Smith, che sapeva tessere immagini e creare atmosfere in una maniera che invece ancora sfugge alla nostra autrice: qua e là, soprattutto nei primi racconti, si nota tuttavia qualche tentativo di evocare le stesse sensazioni del californiano ma le descrizioni della Moore tendono ad essere solo lunghe e pesanti tiritere prive della medesima efficacia. L’esempio più ovvio è, nel terzo racconto della serie, una certa sequenza di scene dominate dalla floridezza di piante e fiori, con frequenti richiami a odori e colori: ma l’effetto complessivo non raggiunge la capacità di suggestione delle analoghe descrizioni disseminate in numerosi racconti di Smith. Le sue sono buone descrizioni ma piatte, statiche, senza quel senso implicito di eccesso, decadenza e decomposizione che invece trasuda dalle storie di quest’ultimo.
Se le descrizioni sono comunque assai ricche e dettagliate, lo stesso però non si può certo dire per i personaggi, che tendono ad essere piatti, statici, bidimensionali, poco più che sagome di cartone mosse non tanto dalla storia o dagli eventi ma dalla mano dell’autrice, che è sempre visibile sullo sfondo: non si tratta solo di «plot armor», ossia di quell’invulnerabilità di cui godono i personaggi chiave dei racconti (e tanto più il protagonista), ma soprattutto delle azioni «binariate» che essi compiono, quando si comportano in maniera illogica, immotivata o del tutto casuale e ciononostante prendono la giusta decisione o fanno la sola cosa giusta. Non sono troppo severo al riguardo però, perché è un male assai diffuso nella narrativa del passato e, nonostante i voli pindarici degli autori che cercano di dimostrare che non è vero, abbastanza radicata anche in quella moderna: e, tutto sommato, a me sta bene anche così; cerco buone storie, infatti, non crisi di identità di personaggi fittizi. I pulp sono per l’azione, non per chi ha il pallino delle ricerche interiori o della maturazione dei personaggi.
Toglietemi tutto ma non la mia rabbia
Il titolo della raccolta già tradisce qualche indizio sulla protagonista dei sei racconti che la compongono: Jirel è infatti l’«alto comandante» di Joiry, un feudo fittizio della Francia del quattordicesimo secolo che, a giudicare dall’incipit delle storie, è in guerra costante con tutte le baronie vicine per questioni che spesso sfiorano il puntiglio. Jirel viene descritta come una donna non proprio attraente («il volto che si ergeva sopra l’armatura forse non sarebbe stato bellissimo sopra un lungo abito da gran sera») quanto piuttosto «un tipo», per la sua «bellezza feroce, affilata e scintillante come la lama di una spada»: alta come un uomo e selvaggia come il più feroce degli uomini, ha i capelli rossi (che tiene corti) e gli occhi gialli, «da leonessa». Armatura o no, indossa sempre una giubba di pelle di daino e ha il vezzo tenere le gambe scoperte, protette solo da un paio di gambali che erano appartenuti ad un legionario romano.
Aspetto fisico a parte, Jirel è rilevante per essere la prima eroina della sword and sorcery, solitamente un territorio dominato dai protagonisti maschili: viene infatti presentata come una superguerriera che non solo non è inferiore a nessun uomo ma è anche capace di farsi rispettare dagli uomini più valorosi. Abilissima con le armi, coraggiosa ed ardita in battaglia, tutto ciò che sappiamo di lei però proviene solo dalle voci e dalla reputazione che la accompagnano, perché in realtà non la vediamo mai combattere ma dobbiamo prendere per buono quello che ci dice l’autrice, una fonte non proprio attendibile: tutte le sue battaglie infatti avvengono fuori scena. Nei suoi racconti però si trova soprattutto alle prese con minacce soprannaturali, contro le quali le armi e le tattiche consuete non hanno alcun effetto. Ed è un bene, perché quando deve vedersela con un avversario in carne ed ossa non pare poi troppo competente: ad esempio, il racconto d’esordio si apre sulla sua sconfitta nel suo castello mentre un altro la presenta nel proprio letto, ferita a morte in battaglia (e guarirà solo per l’intervento dell’ultraterreno).
In sostanza, sebbene sia descritta almeno altrettanto capace, non è all’altezza della sua controparte maschile ed in particolare di Conan, al quale viene spesso paragonata: infatti, laddove il barbaro usa i muscoli con l’intelligenza e l’agilità, la forza di Jirel viene solo dalla sua rabbia, dall’ira, dall’odio, mai dal ragionamento, dalla tattica o anche solo dalla capacità di individuare e sfruttare i punti deboli dell’avversario. La sua strategia è semplicemente attaccare a testa basta e poi, quando s’imbatte in un ostacolo, attendere un nuovo accesso d’ira.
Così nei racconti vediamo che nelle difficoltà se la cava sempre per colpi di fortuna o per l’intervento di soggetti terzi, mai per la sua capacità: anzi, a giudicare dai risultati, Jirel appare piuttosto stupida ed ottusa, incapace di prevedere l’effetto delle sue azioni. Infatti prima si getta a capofitto in un’impresa e poi si getta a capofitto contro il nemico, mossa semplicemente dalle emozioni del momento: il suo solo attributo è la rabbia, che la trasforma in una furia ed accende in lei una forza sovrumana, capace di farla resistere anche al soprannaturale. Conan invece viene mostrato più abile in battaglia: e non solo vediamo quello che sa fare davvero ma le sue scene d’azione sono anche molto più movimentate e meglio descritte; al contrario, quelle di Jirel sono più statiche, avare di azione, e solitamente si risolvono nel già citato attacco di ira che la toglie dai guai.
A proposito di sentimenti o, meglio, risentimenti: nonostante il tentativo di apparire maschile, Jirel rimane un personaggio molto femminile, schiava dell’emotività improvvisa. Quando infatti l’irrazionale prende il sopravvento in lei (e questo accade almeno un paio di volte per racconto) scoppia in lacrime, ha gli occhi lucidi o semplicemente piange, anche per minuzie, come quando nel primo racconto scorge un branco di cavalli ciechi al galoppo, che potrebbero anche essere anime dannate: probabilmente questa emotività dovrebbe farla apparire più umana o almeno un’eroina tragica (e l’epilogo della stessa storia va proprio in questa direzione); in realtà però dimostra solo che, nonostante tutto, la sua mascolinità è solo di facciata e nell’intimo la natura di Jirel rimane quella femminile.
E finalmente: i racconti
L’influenza che le storie di Jirel – tutte pubblicate da Weird Tales negli anni Trenta – hanno avuto sul fantastico è innegabile, come confermano l’inclusione di questa raccolta e la sua motivazione nel catalogo dei cento libri fantasy più influenti compilato da Michael Moorcock verso la fine degli anni Ottanta (Fantasy: The 100 Best Books, 1988): come già osservato in precedenza, ciò che la rende così rilevante è proprio la presenza di Jirel, la protoeroina fantasy, che fornisce il modello a tutte le donne guerriere venute successivamente.
Dal punto di vista della qualità infatti i racconti in sé, per quanto molto creativi, non sono nulla di speciale: anzi, a voler ben vedere le trame si sviluppano per lo più attorno ad un «idiot plot», con salti logici o buchi narrativi non appena la situazione si fa troppo ingarbugliata o ingestibile. Dal punto di vista della struttura invece le descrizioni e l’ambientazione sono il vero nucleo delle storie che, costruite su una successione ininterrotta di immagini e suggestioni, finiscono poi per trascurare l’azione: così la lettura procede a rilento, spesso l’attenzione divaga ed occorre rileggere più volte un paragrafo per capire cosa stia accadendo.
No, anche se appartengono ad un genere come la sword and sorcery, che dovrebbe essere l’epitome della letteratura d’evasione, le avventure di Jirel non sono affatto una lettura leggera.
– Il bacio del dio nero (The Black God’s Kiss, 1934)
Il racconto d’esordio di Jirel si apre sulla sconfitta dell’eroina ad opera dell’odiato Guillaume, che ha preso possesso del castello della protagonista ma ne ignora l’identità: quando infatti viene condotta alla sua presenza e le viene tolto l’elmo, il conquistatore appare genuinamente sorpreso di scoprire che in realtà ha di fronte una donna. Bello e sicuro di sé, a questo punto Guillaume vuole strapparle un bacio: lei si ribella ma alla fine il vincitore ottiene ciò che voleva, più un bel morso sul collo. E così per farla sbollire la rinchiude nelle segrete da cui, nemmeno a dirsi, riesce a fuggire col trucco più vecchio del mondo: chiama la guardia che, non appena fa capolino nella cella, stordisce con un provvidenziale sgabello trovato nell’oscurità.
Tornata in camera a cambiarsi ed armarsi e poi recatasi da padre Gervase per una confessione al volo, Jirel dichiara le sue intenzioni al sant’uomo: vuole tornare all’inferno per trovare un’arma capace di sconfiggere Guillaume; Gervase cerca di farla desistere ma lei è irremovibile. Molti anni prima infatti, perlustrando il corridoio più profondo del castello, i due avevano scoperto e seguito un passaggio scavato da o per creature non umane che scende nelle viscere della terra e si apre su un mondo sotterraneo: in quell’occasione lei, impietrita dall’ambiente alieno, si era bloccata non appena era sbucata dal passaggio mentre lui (il prete) era andato poco più avanti ma poi era tornato indietro di corsa, spaventato. E così erano ritornati in superficie di corsa, nascondendo la galleria alla vista.
Questo passaggio è il classico espediente usato da uno scrittore per non far capire dove sia esattamente questo inferno, se esista veramente, se stia in un’altra dimensione o in un altro tempo: è un interminabile tunnel circolare che scende a strette spirali, troppo grande per un serpente ma troppo piccolo per un uomo. Jirel deve sdraiarsi e spingersi con le mani per scendere e ad un certo punto ha come l’impressione di uno sdoppiamento o di un trapasso dalla realtà conosciuta ad un’altra dove esistono diverse leggi fisiche. Toccato finalmente il fondo, Jirel inizia la sua ricerca, favorita da due cose: dall’oscurità quasi totale dell’abisso in cui è piombata e da una colonna di luce che vede nella distanza.
Questa colonna, si scoprirà, è in realtà un palazzo di luce abitato da un demone di luce, che si trasforma nella copia di Jirel e le ordina di entrare: lei intuisce che c’è sotto qualcosa, così gli scaglia addosso il pugnale che un attimo dopo scompare. Il demone è deliziato dalla dimostrazione di intelligenza della protagonista e, appreso che lei sta cercando un’arma per sconfiggere un uomo che odia, decide di darle l’indicazione di andare al Tempio del Lago, dove troverà ciò che trova.
Giunta al lago guidata dalle stelle cadenti, Jirel trova anche un ponte scurissimo e strettissimo, quasi invisibile nell’oscurità, che attraversa le acque nere e la conduce dritta nel tempio, al cui interno si trova la statua di una creatura mostruosa, con la testa proiettata in avanti e le labbra tese nella promessa di un bacio. Quasi incantata, Jirel si avvicina e bacia – a lungo e con passione – la statua, salvo poi rendersi conto della bizzarria dell’atto e ritrarsi con orrore: adesso però avverte un peso, una colpa, un rimorso sull’anima. Fugge impaurita e, quando sta per far giorno, raggiunge la caverna da cui era arrivata proprio mentre la luce nascente getta un’ombra distorta – la sua – accanto a lei: l’eroina sente che se avesse la possibilità di vedere il mondo in cui si trova con la luce del giorno impazzirebbe.
Tornata in superficie, trova padre Gervase, Guillaume ed alcuni soldati ad attenderla all’uscita del passaggio: con sicurezza lei va incontro a Guillaume e lo bacia. Capisce infatti che se non riesce a liberarsi al più presto del peso – o della colpa – che porta addosso rischierebbe di morirne lei stessa: durante il lungo bacio sente quindi alleggerirsi la pressione che le gravava sull’animo e vede invece irrigidirsi Guillaume, i cui occhi mostrano terrore e dolore; poi l’uomo stramazza a terra, morto.
In quella Jirel si rende conto dell’errore che ha appena commesso: in realtà lei amava Guillaume, e l’odio che credeva di provare per lui era solo la sua passione per quell’uomo così sicuro di sé, che però lei non era riuscita a comprendere fino a quel momento.
Il racconto non è eccezionale ed anzi è molto femminile nello stile ma nell’insieme è costruito assai bene: lo stile della narrazione costruisce un’atmosfera di mistero e di anticipazione, resa più solida dal silenzio quasi totale (sono pochissimi i discorsi diretti: il resto è quasi tutto descrizioni), dal paesaggio quasi familiare ma completamente alieno del mondo infero e dal buio in cui si svolge praticamente tutta la storia. È buia la cella in cui Jirel si risveglia, è buio il castello mentre si aggira nei suoi corridoi, è buio l’inferno o l’abisso o il vuoto, rischiarato solo dalle stelle (diventa visibile solo dopo che lei si è sbarazzata del crocefisso che portava addosso, che le impediva misericordiosamente di vedere l’ambiente finché lo teneva con sé).
La stessa Jirel è una protagonista con un abbozzo di personalità: ha la grinta guerriera di un’eroina da sword and sorcery e lo spirito libero di una donna che non si definisce affatto «innocente per ciò che riguarda l’amore libero» (siamo negli anni Trenta!) ma rimane abbastanza femminile da conoscere la paura ed il terrore – o addirittura il panico – quando si rende conto di quello che ha appena fatto con l’empio dio del lago. E piange pure, quando si imbatte in situazioni pietose. (6)
– L’ombra del dio nero (Black God’s Shadow, 1934)
Un’autentica porcheria: è un racconto lentissimo, una serie di descrizioni interminabili senza un solo dialogo od una scena d’azione, solo descrizioni nebbiose di un ambiente onirico che ricorda i peggiori racconti di Lovecraft (a cominciare dall’illeggibile «Dream Quest of Unknown Kadath»).
Non è passato molto dalla fine del racconto precedente. Jirel si sveglia nel cuore della notte: nel sonno ha appena sentito la voce di Guillaume che la chiama e la implora di aiutarlo, perché ora è prigioniero del dio nero il cui bacio lo ha ucciso. Così Jirel si alza, si veste e torna nell’abisso, che qui viene stabilito chiaramente essere un mondo in un’altra dimensione, come dimostrano la volta celeste, le stelle, la luna (verde) e la brezza che soffia non appena la protagonista esce dalla caverna: solo che il panorama che ora le si offre è radicalmente cambiato rispetto alla precedente visita. Non solo perché è giorno (e per evitare di impazzire la protagonista si rifugia nella caverna finché non cala la notte) ma anche perché sono spariti i punti di riferimento che aveva, come il palazzo di luce, la palude che lo circondava e gli altri elementi. Iniziano così le nuove descrizioni del mondo da incubo in cui si trova, come campi illuminati di un’erba che è un ibrido di spighe e lucciole, ruscelli animati, alberi predatori, suolo gelatinoso e via dicendo, con una creatività assai encomiabile.
Muovendosi a caso ma seguendo un fruscio nel vento che sussurra il suo nome, Jirel raggiunge la vetta di una collina dove si imbatte in una statua del dio nero, nelle cui fattezze riconosce gli aspetti peggiori di Guillaume, contro i quali gli aspetti migliori del morto sembrano ribellarsi. Qui l’eroina subisce il primo di tre attacchi da parte del dio nero, che cerca di spegnere la sua volontà e congelarla: ma sempre trova nella miscela di amore ed odio la scintilla con cui torna ad infervorarsi e combattere – psicologicamente o emotivamente – contro il dio.
Così la statua si scioglie e diventa un’ombra, che si porta via l’ombra di Guillaume: Jirel la insegue (in mezzo ad una nuova trafila di descrizioni interminabili) finché, scesa in un crepaccio ed immersa nelle ombre, non viene nuovamente attaccata dal dio nero, che come prima sconfigge. Nuova fuga dell’ombra con inseguimento, che la porta al tempio già visto nel racconto precedente, quello dove si trova la statua che è l’origine di tutto: nuova aggressione, la più violenta, da parte del dio nero, che sembra aver ormai avuto ragione della protagonista quando le giunge un piccolo aiuto di Guillaume, sufficiente però a riaccendere l’ultima scintilla di volontà che le era rimasta. Con quella Jirel riesce a scrollarsi di dosso il ghiaccio che le ricopriva il corpo e sconfiggere definitivamente il dio nero: a questo punto sente di aver liberato Guillaume e può tornarsene a casa serena e soddisfatta.
Anche in questo racconto a Jirel non mancano le occasioni per lasciarsi andare a qualche pianto, come quando crede di sentire nel vento dei lamenti o dei gemiti lontani, le sofferenze dei dannati.
La storia non ha grandi elementi di interesse perché, se è vero che la creatività e la capacità descrittiva degli ambienti sono di primissima qualità (ricordano i paesaggi alieni di Lovecraft e dei suoi epigoni), è anche vero che alla storia manca tutto il resto, a cominciare dal ritmo: come in un sogno, tutto è lentissimo, una descrizione dietro l’altra, senza alcuno di quei momenti in cui l’autore getta una scena d’azione anche solo per risvegliare l’attenzione del lettore. Pure la trama è deboluccia: anzi, si può quasi dire che manchi una vera storia, dal momento che l’intero racconto è solo un catalogo di immagini, una catena di descrizioni senza nulla di concreto che le tenga unite, a parte i tre scontri di volontà col dio nero, che però rappresentano anche i momenti più bassi del racconto. (3)
– Jirel e la magia (Jirel Meets Magic, 1935)
Nell’insieme è un racconto decoroso anche se non proprio entusiasmante: comincia molto meglio di come finisce ed il degrado comincia presto, già verso la fine del primo quarto di storia.
Jirel ha condotto i suoi uomini (si ha l’idea che sia una piccola banda raccogliticcia, proprio come dovevano essere gli eserciti medievali) alla conquista del castello del mago Giraud, temuto da tutti: la causa dell’aspra contesa è un’imboscata tesa la settimana precedente dagli uomini dello stregone agli uomini di Jirel. Bello spunto: una piccola questioncella di puntiglio e cattivo vicinato. Solo che nel castello non c’è traccia del mago: Jirel lo cerca dappertutto, finché nella stanza più alta dell’ultima torre non trova una strana finestra, che si apre non sull’esterno ma su un altro mondo, splendido e florido. Senza pensarci due volte, Jirel attraversa la finestra da sola e si trova subito dall’altra parte: le tracce di sangue dicono che anche il mago è passato di là.
Seguendo il sentiero che si snoda nella foresta a partire dalle rovine da cui è appena sbucata, presto la nostra eroina si imbatte in un albero appena abbattuto col fuoco: dall’altra parte una donna moribonda è sovrastata da un’altra donna, che indossa una tunica viola. Quest’ultima è la maga Jarisme, sovrana di questo mondo: col fuoco magico ha abbattuto l’albero della donna morente (una driade) che l’aveva sfidata, per dare una lezione anche alle altre. L’odio di Jirel per la fattucchiera è immediato e reciproco: tuttavia la protagonista non vuole esigere vendetta dalla fattucchiera (non le interessa quello che ha fatto all’albero e alla driade: le dà solo fastidio il suo aspetto) ma sapere dove si stia nascondendo Giraud. Segue uno scambio di parolone, minacce e convenevoli vari che non porta a nulla, anche perché la maga svanisce all’improvviso, come se avesse attraversato una porta.
Rimasta sola con la driade, Jirel mostra un po’ di pietà per la morente che, per ringraziarla, le svela un segreto: se fruga tra i suoi capelli troverà un talismano, che tutti gli abitanti di questo mondo devono portare; Jarisme, presa dalla collera per le minacce di Jirel, si è dimenticata di riprenderselo. Questo talismano funziona come una bussola – indica cioè sempre la direzione in cui si trova la maga – e, se venisse frantumato in sua presenza, ne causerebbe la morte, assieme probabilmente alla morte di chi le sta attorno.
Seguendo quindi le indicazioni del talismano, Jirel raggiunge la torre della strega, che trova in terrazza in compagnia del mago Giraud: questi è poco più di un cagnetto da compagnia, ben felice di essere usato come scendiletto. Jirel rivendica ancora una volta la vita del suo nemico con le minacce ma Jarisme rifiuta nuovamente e, infastidita, la fa scomparire e riapparire in un intrico di fiori ipnotici giganteschi. Uscita dalla foresta, Jirel ritrova la torre, che adesso è in cima ad una catena di montagne: quando sta per terminare la scalata, viene affrontata da una tigre dai denti a sciabola (Jarisme che ha cambiato forma), che le balza addosso e, per evitare il pugnale di Jirel levato ad uccidere, all’ultimo momento apre nuovamente una porta per scomparire.
La protagonista può così entrare indisturbata nella torre per la seconda volta: appena varcata la soglia, scompare la porta d’ingresso ma ne appaiono molte altre. Spalanca la prima, che si apre su un corridoio senza fine dal quale riappare la maga: seguono nuove minacce. Finalmente la maga si stufa e promette vendetta per Jirel: non una vendetta normale però bensì «una vendetta femminea, più terribile di quelle che potevano infliggere il ferro e il fuoco», come si affretta a sottolineare l’autrice.
Molte porte e lunghe descrizioni più tardi, Jirel trova finalmente il modo di uscire dall’atrio in cui si trova: una rampa di scale che scendono nella montagna. In fondo ai gradini l’eroina entra in una sala circolare, di cui solo metà è visibile; l’altra metà è nascosta da un velo di nebbia. Al centro della stanza si trova Jarisme che suona un flauto magico: così, evocati gli abitanti dei fantastici mondi su cui si aprivano le porte del piano superiore e rivelata l’altra metà della sala (nella quale si trova un’enorme sfera al cui interno arde una fiamma: è la fonte del suo potere), Jarisme finalmente si vendica su Jirel, che condanna a rivedere la propria vita a ritroso. La protagonista torna così al momento della morte di Guillaume, da cui trae rabbia e con essa la forza per resistere all’incantesimo, tornare in sé e finalmente frantumare il talismano davanti alla maga: perché non l’avesse fatto le altre volte in cui ne aveva avuta l’occasione non viene spiegato.
L’intero episodio è un esempio da manuale dell’inettitudine caratteristica dei cattivi da fumetti: dopo aver permesso a Jirel di giungere fino alla sua centrale di controllo, quasi a contatto della fiamma magica da cui trae il suo potere, la maga rassicura il supplicante Giraud che non può essere sconfitta. Quella certa profezia alla quale l’ometto si riferisce dice infatti che la maga verrà sconfitta da una donna che l’avrà sfidata tre volte: ma quell’evenienza non può verificarsi, perché Jarisme ha permesso a Jirel di sfidarla solo due volte, spezzando così la sequenza fissata del fato. Tanto può fare una «vendetta femminea».
Ma a quel punto la protagonista, trovata nel ricordo della morte di Guillaume la forza per reagire all’incantesimo di Jarisme, lancia la sua terza sfida, leva la mano e scaglia a terra il cristallo. Nel cataclisma che segue, per lo più fuori scena, la torre crolla, tutti i presenti muoiono e Jarisme viene in qualche modo ingoiata dal non dio del vuoto.
Solo Jirel e Giraud se la cavano: lei perché era la sola che poteva sperare di salvarsi in quella circostanza, lui perché…un attimo prima dell’esplosione le si era aggrappato alle caviglie, nella convinzione che il semplice contatto fisico con lei l’avrebbe in qualche modo protetto. Ma Jirel è di cattivo umore e, udita la spiegazione del mago, conficca il suo pugnale – che ha portato tutto il tempo con sé e non era ancora riuscita ad usare – nel petto di Giraud, che già fantasticava di poter diventare il nuovo signore di questa terra.
Soprattutto nella prima metà del racconto si può notare il tentativo della Moore di costruire descrizioni più complesse del solito: lo sforzo è evidente nei passi in cui parla di piante e fiori, una sottotrama che pareva dover avere un ruolo rilevante ma che a metà storia viene abbandonata. L’impressione è che, facendo frequenti riferimenti a odori e colori sovrabbondanti, la Moore abbia cercato di imitare lo stile di Clark Ashton Smith ma nell’insieme le manca ancora qualcosa: gli eccessi che invece sono caratteristici di quest’ultimo.
Jirel si rafforza nell’immagine di un’eroina forte e coraggiosa ma anche stupida ed ottusa: non cerca mai di affrontare le situazioni con intelligenza ma la sua sola strategia è sempre caricare a testa bassa e poi lasciare che siano la rabbia e l’ira a darle lo stimolo per superare i guai in cui si è cacciata. (5/6)
– La cerca della pietra stellare (Quest of the Starstone, 1937; scritta con Henry Kuttner)
Questa è soprattutto una storia di Northwest Smith, l’altro eroe (il primo) della Moore, che vede anche la partecipazione di Jirel. La storia non ha molto senso ed è soprattutto una scusa per il «team up» dei due protagonisti: Jirel ha appena conquistato il castello del mago Fraga – che è fuggito all’ultimo istante attraverso una porta d’ombra – e così si è impossessata della pietra stellare, un qualche talismano custodito dallo stregone. Tuttavia Fraga è deciso a riprendersi l’amuleto, perciò va nel futuro e recluta Smith, che si sta ubriacando in un’osteria venusiana: gli basta semplicemente aprire una porta d’ombra nella stanzetta in cui l’eroe si trova per convincerlo facilmente; lo seguirà, non invitato, il suo compagno venusiano Yarol.
Il piano del mago è piuttosto convoluto e quindi per definizione votato al fallimento: Smith, riportato indietro nel tempo nella Francia del quattordicesimo secolo, deve prima farsi accogliere nel castello di Jirel e poi, quando è in privato con l’eroina, lanciare l’incantesimo che Fraga gli ha insegnato (apre la solita porta d’ombra), che farà piombare entrambi in un altro pianeta o dimensione, più familiare al mago. Qui Smith deve strappare la pietra a Jirel e consegnarla al mago, che, superfluo a dirsi, medita di non rispettare la sua parte del patto ma di abbandonare i tre (non dimentichiamo Yarol) in questa dimensione. Perché la pietra stellare conservi il suo potere infatti deve essere o strappata con la violenza o donata liberamente: prenderla dal corpo di un suicida invalida espressamente le proprietà dell’amuleto. Non è ben chiaro perché il mago cerchi un intermediario e non provi lui stesso a riprendersi la pietra, se non forse il timore per la forza della guerriera e la necessità da parte della coppia di autori – nella storia c’è anche lo zampino di Kuttner, e si vede – di mettere assieme i due protagonisti.
Comunque sia, nell’altra dimensione – spoglia, buia, con l’aria densa di stelle ed il suolo spugnoso – Smith decide di non aiutare più il mago ma di mettersi dalla parte di Jirel, che pure suo malgrado collabora: qui l’eroina sembra ancora più un automa di quanto appaia nelle storie ufficiali. Il mago, che teme la pistola a raggi del protagonista, continua ad apparire e sollecitare la collaborazione di Smith, che invece continua a rifiutarla, ed ogni volta il gruppo viene punito: prima li attacca un’orda di zombi d’aspetto canino; poi ceppi magici bloccano i polsi di Smith e Yarol (ma non di Jirel) e li inchiodano alla roccia; infine sciami di stelle magiche scorticano vivi l’eroe fantascientifico ed il suo tirapiedi. Nonostante l’odio del mago per la guerriera, Jirel viene sempre risparmiata, quasi ignorata: così alla fine, vedendo il coraggio con cui Smith subisce la tortura per lei, si commuove ed offre liberamente la pietra al mago (in questo modo l’amuleto non perderebbe i suoi poteri). Ma Smith, che ha i polsi bloccati ma non le caviglie, le colpisce la mano con un calcio: così la pietra cade e si frantuma. Da essa si sprigiona una grande luce ed una grande calma si irradia nella dimensione in cui si trovano: l’essere «non euclideo» che ne esce, buono e generoso oltre misura, si affretta a spiegare che è rimasto prigioniero della pietra per tempo incalcolabile, ringrazia i suoi liberatori e garantisce loro un desiderio. Tornare a casa.
L’ultima immagine è per Smith e Yarol ormai ubriachi nell’osteria da cui erano partiti: di Jirel nemmeno un accenno.
La storia ha tutti i difetti e nessun pregio (che solitamente sono già pochi) dei team up: racconti forzati il cui unico scopo è mettere assieme personaggi di diversa provenienza – qui addirittura un eroe da space opera con un’eroina da sword and sorcery – che per qualche ragione sono costretti a collaborare per la durata della storia. Più buona volontà che idee. (4)
– Il paese delle tenebre (The Dark Land, 1936)
Un racconto tutto sommato scorrevole anche se è il più sconclusionato della serie: Jirel, che viene presentata come una guerriera formidabile ma che non vediamo mai in azione, è stata ferita gravemente ed è morente nel suo letto, circondata dai servitori. Quando finalmente arriva padre Gervase per l’estrema unzione però il suo corpo sparisce improvvisamente dal letto. È ciò che capita a chi, come lei, si è scontrato troppo spesso con le tenebre, conclude il sant’uomo.
Jirel è stata infatti reclamata da Pav, re di Romne, il regno dell’oscurità, per diventare sua moglie: senza il suo intervento, si affretta a dichiarare il demone, la protagonista sarebbe già morta dissanguata mentre ora la sua ferita è stata completamente risanata. Per spregio verso il suo salvatore però lei si rifiuta di sposarlo e continua anzi a mostrarsi ostile, nonostante la pazienza e le ripetute prove di forza che Pav le fornisce: Jirel vuole solo tornare a casa, oppure uccidere Pav, oppure in alternativa uccidersi. Non riesce proprio a decidersi.
Il demone, che è sin troppo accondiscendente, la lascia quindi girovagare per Romne in cerca di un’arma: questa è una contrada buia, dove un cielo nero costellato di stelle getta una luce fioca su alberi contorti, acque nere, montagne spoglie e tutti gli altri classici elementi da terra delle tenebre. A Romne ci si muove rapidamente però, basta fissare la propria destinazione e desiderare di raggiungerla per esservi proiettati immediatamente: Jirel lo scopre per caso, quando si trova all’improvviso su un costone in cima alle montagne, in compagnia di una creatura spaventosa, una sorta di scheletro vestito di un sudario bianco.
È la strega bianca, gelosa dell’amore di Pav per Jirel: vuole quindi uccidere la protagonista, che vede come una rivale. Poi però accetta di lasciarla andare, quando apprende che Jirel vuole solo uccidere Pav: anzi, le spiega anche come fare. Ha appena terminato di darle le istruzioni quando ricompare il demone, che si porta via la guerriera.
Il sistema per uccidere Pav è di una banalità incredibile: la prima cosa che Jirel ha visto quando è comparsa a Romne è stata un’enorme statua (nera) di Pav sulla quale ardeva una corona di fuoco. Tutto ciò che deve fare adesso è proiettarvi dentro le fiammelle blu mediante le quali il demone crea o fa apparire le cose: così Jirel, finalmente costretta al matrimonio perché ha fallito la sua ricerca, chiede almeno un abito da sposa adeguato, che Pav è felice di materializzare sul suo corpo mediante le citate fiammelle blu. Usando il sistema di spostamento rapido che è proprio di Romne, la protagonista sposta le fiammelle da sé alla corona e, resa sorda agli avvertimenti di Pav dalla solita rabbia incontrollata con cui affronta ogni difficoltà, causa il collasso di Romne. O meglio, crede: perché in realtà così facendo ha solo interrotto solo le illusioni in cui ha potuto muoversi sinora, perché Romne è in realtà l’Oscurità totale.
Apprende ciò ancora dalla strega bianca, che è riapparsa proprio in questo momento per gridare il suo trionfo sulla stupidità di Jirel, che ha seguito le sue indicazioni alla lettera: infatti, ora che Romne si è manifestata nella sua vera forma, Jirel sta per essere schiacciata dalle tenebre e così impara a cercare di strapparle il fidanzato.
Tuttavia Pav, sebbene sia stato respinto più volte, è ancora innamorato e con un ultimo intervento salva Jirel e la rispedisce a Joiry, nella cappella di palazzo. (4)
– Hellsgarde (Hellsgarde, 1939)
Senza dubbio la miglior storia di Jirel, oltre che l’unica ad essere interamente ambientata nella nostra realtà e non in mondi o dimensioni parallele: non è senza riserve comunque, dal momento che alcuni punti non fanno molto senso.
Per salvare una ventina dei suoi uomini catturati dal malvagio barone Guy di Garlot, detto Guy il Nero, che minaccia di ucciderli sotto tortura, Jirel acconsente a sfidare le terribili rovine del castello di Hellsgarde, da cui mai nessuno ha fatto ritorno: conquistato dai nemici duecento anni prima, si dice che il castello custodisca ancora il piccolo tesoro di Andred Hellsgarde, contenuto in una sacca o un modesto scrigno ma così prezioso che non solo è stato la causa dell’espugnazione ma lo stesso Andred ha preferito morire sotto tortura piuttosto che rivelarne il nascondiglio. Il suo corpo poi sarebbe stato fatto a pezzi e sparpagliato nelle paludi che circondano il maniero.
Il castello stesso può essere trovato solo al tramonto: ed è proprio sul fare della sera che Jirel lo scorge in lontananza. Quando finalmente lo raggiunge si è ormai fatta notte: vorrebbe passare la notte all’ombra della torre d’ingresso ma viene colpita – spaventata sarebbe più corretto – dallo spettacolo di venti uomini immobili disposti su due file che si intravedono nella nebbia; da un esame ravvicinato la protagonista scopre che si tratta di venti cadaveri freschi, sostenuti da picche conficcate nella gola: più avanti si apprenderà che erano briganti, così disposti per dissuadere gli emulatori.
In quella si aprono anche le porte del castello e ne esce un uomo che pare deforme pur senza esserlo e dà il benvenuto alla viaggiatrice: anche se nessuno pare saperlo o almeno averlo riferito alla protagonista, Hellsgarde infatti è nuovamente abitato. Condotta presso il signore, Alaric, che si riscalda al fuoco con la famiglia in un’enorme sala buia, Jirel si fa un’impressione tutt’altro che buona dei suoi ospiti: tutti paiono avere una deformità che, non essendo fisica (a parte il buffone nano che strimpella un liuto), deve per forza essere morale. E tutti sembrano nascondere un terribile segreto. Nei loro racconti affermano di essere discendenti di Andred, tornati ad occupare la dimora avita.
Gli aspetti singolari della compagnia si moltiplicano: parlano tra loro in una lingua strana, sconosciuta; vedono al buio; mangiano cibo putrido; sono serviti da servitori orribili, quasi bestiali, puzzolenti, dalle vesti lacere. Finito il pasto, Alaric accompagna Jirel in una visita della sala d’armi del castello, tra tappeti ammuffiti, arazzi resi grigi dalla polvere e dall’incuria, armi arrugginite, armature abbandonate per terra: raggiungono così una grande macchia irregolare sul pavimento, lasciato dal sangue – spiega il signore – versato da Andred quand’è stato ucciso (ma non era morto sotto tortura?).
In quella soffia un forte vento, che spegne tutte le fonti di luce, rapisce Jirel e, afferratala in un abbraccio d’acciaio, la rovescia per terra e le strappa un bacio, mentre le pareti sembrano stringersi attorno a lei come una tomba. Tutto dura un attimo: quando il resto della famiglia riaccende il fuoco, la presenza scompare e lei si trova al centro della sala, lontana da tutti, soprattutto Alaric, che aveva sospettato essere il suo aggressore.
L’evento eccita i presenti, che in sostanza la disarmano e la obbligano a fare ancora da esca al buio per Andred: perché, come tutti tranne hanno già capito, quel vento era il fantasma dell’antico signore, attratto dallo spirito indomito di Jirel, così affine al suo. L’eroina non può scappare perché i membri della famiglia – che vedono al buio – presidiano tutte le vie d’uscita e minacciano di ucciderla se dovesse tentare la fuga.
La veglia tuttavia è infruttuosa e così ore più tardi viene prelevata e condotta in una cella, dalla quale riesce a fuggire con una facilità disarmante (aveva uno stiletto nascosto nei gambali che nessuno si era peritato di perquisire o toglierle): ha infatti capito che per trovare il tesoro di Hellsgarde deve farsi nuovamente rapire dal fantasma di Andred. Torna così alla macchia di sangue sul pavimento, spegne la lampada che ha preso alla guardia uccisa (tanto era uno dei servitori bestiali) ed immediatamente torna il vento, che la abbraccia nuovamente e la porta con sé in una tomba dove, effettivamente, sono sparpagliate le ossa dei precedenti cercatori. Qui riesce in qualche modo a dissociare la sua anima dal corpo e, mentre quella rimane avvinghiata al fantasma maniaco, il corpo, agendo quasi meccanicamente, trova ed afferra un antico scrigno arrugginito ed ammuffito, evidentemente il tesoro di Andred. Tuttavia il piano non funziona come aveva in mente, perché tutti i colpi che sferra al fantasma con lo stiletto non gli fanno nemmeno il solletico.
Ma Jirel indossa un’armatura a prova di fallimento: all’improvviso sente infatti la musica folle di un liuto (quello del nano), che si fa sempre più veloce e travolgente. Così viene come richiamata nella sala, assieme al fantasma che ancora la stringe in un vortice: inginocchiata ma incapace di agire, con lo scrigno stretto al petto, Jirel vede i membri della famiglia danzare a velocità folle tutt’attorno a sé, in senso opposto a quello del vortice, che lentamente si fa sempre meno violento, poi perde i sensi.
Quando si risveglia, la luce del sole entra dalle finestre della sala: i baccanti sono sdraiati in un cerchio irregolare attorno a lei, i loro volti hanno un’espressione di sazietà ed abbandono. Solo Alaric si trascina stancamente nella sala, tutto spettinato e disordinato, come all’indomani di una notte di bagordi: così le spiega brevemente la verità. La finta famiglia è in realtà un gruppo di cacciatori di fantasmi: meglio, di bevitori di fantasmi, che appunto cacciano e poi suggono per godere della forza, del piacere, dell’ebbrezza conferite da questa esperienza. Disinteressati al tesoro, cacciavano Andred in quanto fantasma: adesso che il loro desiderio è stato soddisfatto, stanno per abbandonare il castello, quindi è inutile che Jirel progetti di esigere vendetta, perché tanto prima che lei ritorni si saranno già spostati altrove. Per ricompensa, le dà un consiglio: non apra mai lo scrigno di Andred, perché ciò che contiene – scuotendolo, sembra una polvere fine e densa, come farina – è in realtà qualcosa di spaventoso.
Jirel, che da pagine meditava di sfregiare Guy per l’ordalia a cui l’aveva obbligata a sottoporsi, decide invece di rifarsi tenendo per sé questa informazione, quando finalmente gli consegnerà lo scrigno per riscattare i suoi uomini.
Senza ombra di dubbio questo è il miglior racconto dell’intera serie: soprattutto nella prima metà ha un’ambientazione intrigante e riesce a costruire quel senso di mistero e di minaccia incombente che tengono incollati alla lettura. Verso metà però inizia a traballare – all’incirca dal momento in cui Jirel viene rapita dal fantasma per la prima volta – e l’ambientazione di mistero crolla: appare chiaro che il signore ed i familiari non sono creature soprannaturali (si era portati a credere che potessero essere vampiri o non morti di qualche sorta) ma più che umane, incapaci persino di controllare le emozioni. Questo e diverse altre incongruenze e aggiustamenti della trama rendono meno avvincente la seconda parte: ad un certo punto infatti interessa solo scoprire cosa sia il tesoro di Hellsgarde, dal momento che non ci sono dubbi sulla riuscita della missione della protagonista. Nell’insieme rimane però godibile. (6/7)
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