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E.E. «Doc» Smith – L’Allodola dello Spazio (Skylark of Space 1)

Quando la fantascienza era ancora giovane e si chiamava «romanzo scientifico» o al massimo sfoggiava – oltreoceano – un termine di nuovissimo conio come «scientifiction», le avventure spaziali si spingevano raramente più in là di Giove: poi però è venuta l’Allodola dello Spazio e da quel momento il sistema solare è divenuto improvvisamente troppo stretto.
Era infatti appena nata la space opera.

Dove nessun uomo era mai stato prima
Già appena scritta (in due tempi, tra il 1915-16 ed il 1920) l’«Allodola dello Spazio» o «Astronave Skylark» che dir si voglia di Edward Elmer Smith – meglio noto come E.E. «Doc» Smith – era già troppo avanti coi tempi: rifiutata infatti per anni da tutte le riviste specializzate alle quali l’autore l’aveva proposta, la storia è stata infine accolta solo nel 1928 da Amazing Stories per essere pubblicata a puntate a partire dall’agosto di quell’anno. Subito divenuta un successo tra i lettori ed imitata da decine di scrittori, l’Allodola è stata tuttavia la prima ad aprire la strada all’esplorazione spaziale vera e con essa alla space opera, che da novant’anni filati non ha mai smesso di entusiasmare gli appassionati.
L’Allodola dello Spazio – che è sia il nome dell’astronave sia il titolo del romanzo che ne racconta le imprese (Skylark of Space, appunto) – è un’enorme sfera di una ventina di metri di diametro che, grazie alla scoperta accidentale di una nuova propulsione, può raggiungere velocità incredibili: così già nel primo episodio i protagonisti si avventurano fino ai margini della galassia, fermandosi su alcuni pianeti. Ancora troppo pochi, a dire il vero (solo tre nel romanzo d’esordio: e ai primi due vengono dedicate appena poche pagine), ma sufficienti a dare un’idea di ciò che sarebbe presto divenuto il più illustre sottogenere della fantascienza: e proprio per il ruolo che ha avuto nella nascita della space opera, l’ho inserita a pieno merito tra le dieci astronavi più influenti di sempre.

Protagonisti…
Il romanzo in sé è il classico prodotto da rivista «escapista» degli anni Venti, con alcune interessanti variazioni: il protagonista è infatti sì uno scienziato dal corpo e dalla mente sopraffini ma al suo fianco appare anche un coprotagonista – l’amicone miliardario – appena meno rilevante del precedente ai fini pratici ma altrettanto competente.
Questa coppia di superuomini sono Richard Seaton, detto Dick, e M. Reynolds Crane (dove la M. sta per Martin), detto Marty: l’uno è un chimico-fisico che, svolgendo ricerche sugli scarti della lavorazione del platino, scopre il nuovo elemento – prontamente battezzato «X» – che fa decollare la storia; l’altro è invece un esploratore-archeologo-sportivo dalla disponibilità finanziaria illimitata che si diletta anche di scienza. Entrambi hanno il fisico possente, scolpito dalla vita all’aria aperta e dalla passione comune per il tennis: anzi, proprio sulla terra rossa si sono incontrati, scontrati (con vittoria di Crane nel singolo e di entrambi nel doppio) e subito rispettati. In quell’occasione infatti «ognuno dei due conobbe ben presto nell’altro un uomo della propria razza»: il solito esito possibile era la nascita di un’amicizia strettissima, che infatti al tempo di questa storia è già consolidata.
Mentre Seaton è fidanzato con Dorothy Vaneman, detta Dottie, Fossette o Testarossa a seconda delle occasioni, unica figlia di una ricca famiglia, Crane è uno scapolo impenitente che tuttavia durante la storia rimarrà impigliato nella rete di Margaret Spencer, detta Peggy, la sola che punti all’uomo in sé e non alla sua immensa fortuna.

…e antagonisti
Per trovare un personaggio che sappia suscitare davvero l’interesse del lettore o almeno sorprenderlo occorre quindi spostarsi sul versante dell’antagonista: Marc DuQuesne, detto Blackie, e probabilmente non solo perché tutto in lui è nero, dai folti capelli leggermente ondulati agli occhi passando per le sopracciglia e la fitta barba «che traspariva anche dopo la più energica rasatura».
A differenza dei due manichini usati per protagonisti, DuQuesne – che pure ha un fisico possente ed una mente sopraffina, l’opposto quindi del malvagio archetipico che è reso anche deforme dalla sua stessa corruzione morale – è un personaggio tridimensionale ed uno dei cattivi più intriganti, più credibili e meglio motivati che abbiano mai trovato spazio in un’opera di fantasia: e, per dirla tutta, ha pure una ragione per avercela con i protagonisti, dato che, senza troppa pubblicità, Seaton gli ha soffiato l’idea del «cosotrone», una macchina tanto vaga nel nome quanto nelle funzioni che però è necessaria per attivare X.
DuQuesne, uno dei migliori esperti nel suo campo (mai esplicitato però), viene sempre presentato come un uomo calmo, freddo, padrone di sé e della situazione, un robot umano oltre che un’enciclopedia vivente. È pure consapevole del proprio talento, che vuole mettere a frutto non tanto per la gloria o il progresso dell’umanità ma per tornaconto personale, ovvero arricchirsi: «Un uomo modesto attira le lodi ma io preferisco il contante», riferisce infatti nei primi capitoli al capo della World Steel Corporation con cui collabora da tempo, che invece incarna l’immagine più tipica dell’organizzazione stupidamente malvagia guidata da incapaci incompetenti.
Nel suo pragmatismo assoluto DuQuesne – «logico quanto basta» – non si tira indietro nemmeno di fronte all’omicidio: ma l’assassinio deve essere uno strumento per ottenere un risultato altrimenti irraggiungibile, mai un piacere o un divertimento e nemmeno un atto superfluo o tanto per fare. Perciò è pronto ad uccidere lui stesso ma solo se lo ritiene necessario o vantaggioso: agli inizi del romanzo vuole infatti eliminare Seaton perché questi rappresenta un ostacolo alle sue ricerche su X; poi, catturato dai nostri nello spazio, DuQuesne accetta la prigionia e promette di collaborare alla salvezza comune, finché la comitiva non sarà tornata sulla terra. Ed infatti, pur trovandosi ad un certo punto armato, non rivolge le armi sugli eroi bensì sui nemici comuni e sempre si comporta in modo irreprensibile, finché alla fine non gli si presenta l’occasione di fuggire.
Ciò non toglie che anche DuQuesne commetta errori stupidi o prenda decisioni sbagliate ma nell’insieme, posto che nell’economia della storia i suoi piani devono fallire, è tutt’altra cosa dalla solita macchietta da cattivo dei cartoni animati.

Un nuovo elemento
Nel suo laboratorio presso l’università di Washington, Richard Seaton, il chimico-fisico protagonista della storia, ha appena fatto una scoperta stupefacente: lavorando sugli scarti della lavorazione del platino si è imbattuto casualmente in un nuovo elemento dalle proprietà sbalorditive, che subito battezza X. È bastato infatti che alcune gocce della soluzione che aveva in mano cadessero su un essiccatoio perché questo immediatamente schizzasse via come un proiettile: ulteriori esperimenti condotti quel giorno stesso mostrano inoltre che non solo gli oggetti vengono sparati a velocità e distanza pazzesche ma hanno anche una potenza tale da perforare persino le pareti in stile Wilcoyote senza esserne rallentati.
Così, dopo una notte meditabonda, l’indomani Seaton organizza una dimostrazione per i colleghi, che però fallisce miseramente: l’oggetto bagnato da X non si sposta di un millimetro. E dopo un’altra giornata trascorsa a meditare, il protagonista, ormai deriso da tutti, comprende finalmente la ragione del fiasco: il «cosotrone» sul quale nella stanza accanto stava lavorando il collega Marc DuQuesne era acceso la prima volta ma spento in occasione della dimostrazione fallita. In passato Seaton stesso aveva aiutato più volte DuQuesne ad assemblare questo macchinario e quindi ne conosce benissimo sia il funzionamento sia le proprietà: è quindi il cosotrone – noto anche come «forsetrone» o «scioccotrone» – ad aver attivato X, su questo non ha dubbi.
Illustrata perciò la faccenda all’amicone Martin Crane, di professione miliardario, riceve da quest’ultimo un consiglio: acquista i diritti su X, abbandona l’università e vieni a lavorare da me. Anzi, con me: intuito il valore dell’elemento, il ricco imprenditore costituisce infatti immediatamente la Società Tecnica Seaton-Crane con capitale di un milione di dollari (di un secolo fa), con la quale medita di produrre energia elettrica a bassissimo costo – si parla di milioni di chilowatt a pochi centesimi – e, cosa che sta più a cuore all’apprensivo lettore moderno, pure pulita.
Solo che anche DuQuesne ha mangiato la foglia e, attirato più dal tornaconto personale che dalla filantropia, offre l’informazione sul nuovo elemento alla World Steel Corporation, con cui ha già lavorato in passato: quest’azienda è il paravento di una più vasta organizzazione criminale presente in tutto il mondo ma, come si conviene, è anche guidata da una manica di inetti, a cominciare dal suo capo, Brookings.
Gli uffici di Washington dell’organizzazione, la sua cosiddetta «filiale diplomatica», includono persino un ristorante sulla Pennsylvania Avenue (il vialone che porta alla Casa Bianca…), il Perkins Café, frequentato dall’elite diplomatica, finanziaria e politica della capitale americana: tuttavia «nessuno dei clienti abituali sospettava che fosse stato progettato e finanziato dalla World Steel Corporation come centro delle sue nefaste attività che si estendevano in tutto il mondo come tentacoli».
Tutto come da copione.

Un cambio di ritmo
A questo punto inizia la parte meno interessante della storia, che per un po’ sposta il suo fulcro dalla superscienza allo spionaggio industriale: per diversi capitoli la trama si fa convoluta, confusa e per lo più frammentaria, un minestrone di scene scollegate tra loro e giustapposte alla meno peggio che si trascinano senza capo né coda. Una selezione del meglio di queste pagine include una serie di luoghi comuni come il passaggio segreto sotterraneo che collega la casa di DuQuesne al letto di un fiume distante chilometri; il locale paravento dei cattivi già visto; il supercattivo (sempre DuQuesne) circondato da incapaci che deve fare tutto da solo perché riesca; i piani inutilmente complicati e votati al fallimento…
Tuttavia qua e là emergono però anche frammenti di informazioni necessarie alla storia: Seaton e Crane, rubata senza fare troppo rumore l’idea del «cosotrone» a DuQuesne (e poi ci si chiede perché Blackie se la sia presa), hanno ricostruito il macchinario nei loro capannoni e con esso hanno potuto riprendere le ricerche su X che, concludono, deve essere giunto sul nostro pianeta con un meteorite perché sulla terra non se ne trova traccia altrove. Questo elemento non solo brucia il rame per una conversione totale ma controllabile della materia in energia ma è anche altamente instabile: bastano infatti poche gocce per causare esplosioni terrificanti. Così, mentre proseguono i lavori sull’Allodola, i nostri dedicano il loro tempo libero allo sviluppo degli accessori, come le potentissime pallottole «X-plosive», classificate da uno a dieci in base al loro potere dirompente.
Nel frattempo però il progetto stesso rischia di fallire per il sabotaggio dei concorrenti: Seaton e Crane hanno infatti commissionato le lastre d’acciaio per lo scafo dell’Allodola proprio alla World Steel Corporation, che non perde l’occasione per fornirle difettose, «resistenti quanto basta per sopportare il trasporto e il montaggio, e forse anche qualcosa di più: forse l’accelerazione di un G durante il volo. Ma alla prima intensa erogazione di energia, alla prima virata improvvisata, crac!, tutto si sfascerà come una bolla di sapone», come appare all’esame a raggi X cui vengono sottoposte.
Ma i nostri non si lasciano intimorire ed anzi colgono l’occasione per proseguire i lavori altrove, indisturbati: fingono infatti di non essersi accorti del sabotaggio ed invece commissionano segretamente le nuove paratie per un’altra Allodola, molto più grande (è quella che poi spiccherà il volo), ad una piccola acciaieria di un amico di Crane.
Ed intanto i nostri continuano a sfornare nuove meraviglie superscientifiche: come la bussola spaziale, che anche a distanza di anni luce rimane sempre bloccata su un punto prefissato e permette quindi sempre di ritrovare la via di casa; ed un attrattore, «simile a una bussola ma con una sbarra da cinque chili invece di un ago. Cosi, se qualcosa dovesse darci la caccia nello spazio, noi potremo agguantarlo e strizzarlo fino a fargli sputar fuori l’anima. E dei mitragliatori capaci di sparare i proiettili di modello da uno a dieci attraverso orifici a tenuta stagna lungo le paratie esterne».
Nella vocazione superscientifica del romanzo già averli pensati è averli resi possibili: «Tutto quello che devi fare è progettarli, Dick: e questo non dovrebbe essere troppo difficile, per te», è infatti la conclusione di Crane. La sola conclusione possibile.

Una panoramica dell’Allodola
Come visto, l’Allodola – il cui nome è suggerito da Dorothy e subito approvato dai protagonisti – è una sfera di una ventina di metri di diametro, suddivisa all’interno in diversi ponti: nulla della disposizione dei locali – pardon, degli scompartimenti e delle paratie – viene rivelata, a parte i dati più strettamente superscientifici; di questi, ciò che davvero conta è la centrale energetica, completamente separata dal resto dell’astronave. Si tratta di una sfera posta al centro dell’Allodola al cui interno è contenuta un’altra sfera libera di ruotare in tutte le direzioni: dalla sfera esterna si dipartono anche sei grossi giroscopi.
Il pavimento è imbottito e cedevole, così come imbottiti e sagomati sono i sedili: bussole galattiche, quadri zeppi di strumentazioni, quadranti e indici di vetro, plastica e metallo, spie ammiccanti, oblò di osservazione e due mitragliatrici completano l’arredo noto. Degna di nota, invece di aprirsi direttamente sul vuoto la nave già include una cabina stagna.
Come velocità, si avvicina alla velocità della luce: con un ragionamento contorto, Seaton spiega che «se non ci fosse stato Einstein con la sua famosa teoria, avremmo potuto sperare di raggiungere il doppio della velocità della luce e più ancora. Ora, con quel limite in apparenza invalicabile, ci accontenteremo di avvicinarci: ma ci avvicineremo parecchio, creda a me. Fuori nello spazio cosmico, naturalmente. Dentro l’atmosfera dovremo limitarci a correre tre o quattro volte più veloci del suono, e avremo già dei problemi assai difficili da risolvere con gli scambiatori di calore e la refrigerazione».
Ma questa è solo l’Allodola I, che presto – già nelle prossime pagine – verrà sostituita dalla superiore Allodola II.

Nasce la space opera
La parte davvero interessante comincia quando il libro è circa ad un terzo: l’Allodola è ormai pronta a partire quando Dorothy viene rapita da DuQuesne ed un tirapiedi, che senza troppi riguardi la caricano a bordo di una versione ridotta dell’Allodola, realizzata seguendo una copia dei progetti rubata dalla cassaforte di casa Crane.
La ragazza tuttavia lotta e spinge il tirapiedi contro il pannello dei comandi, che si attivano: l’astronave decolla e prima che a bordo possano fare qualcosa si trovano persi da qualche parte nella galassia, senza più rame da bruciare o quasi per il viaggio di ritorno. A bordo si trova anche un’altra prigioniera, Margareth, che diventerà amicissima di Dottie: figlia di un inventore al quale la World Steel Corporation ha rubato diverse invenzioni prima di ucciderlo, era riuscita a farsi assumere come segretaria di Brookings ma mentre raccoglieva prove contro la malvagia organizzazione è stata scoperta, catturata e…caricata a bordo della falsa Allodola? Non ne viene spiegata la ragione: prendere o lasciare.
L’inseguimento da parte dei nostri deve essere rimandato di alcuni giorni a causa degli ultimi preparativi ma poi finalmente decollano e, guidati dalla bussola galattica provvidenzialmente puntata su DuQuesne, arrivano appena in tempo per salvare i tre superstiti (DuQuesne aveva nel frattempo ucciso il tirapiedi che, preso dal panico, si stava ammutinando), catturati dall’attrazione irresistibile di una stella morta. Durante la prigionia Dorothy era persino arrivata a provare «uno strano e crescente senso di ammirazione» per DuQuesne, sempre calmo, freddo, padrone di sé e della situazione: un robot umano, «logico quanto basta».
Nelle manovre necessarie per liberarsi dall’attrazione della stella morta, l’Allodola prende così tanta velocità e brucia così tanto rame che, quando i nostri arrivano a riprenderne il controllo, la nave si trova a cinquemila e più anni luce dalla terra.
La space opera è appena nata.

Finalmente un pianeta abitato
Dopo due brevi soste su altrettanti pianeti – l’uno abitato da creature mostruose ma zeppo di giacimenti di X, l’altro controllato da una creatura di pura energia che cerca di dematerializzare i nostri ma perde il duello mentale decisivo con Seaton – e lo sbocciare dell’amore anche tra Crane e Margaret, l’Allodola raggiunge finalmente un pianeta popolato da esseri umani: è Osnome, un mondo sul quale splende sempre la luce in virtù dei suoi quindici soli, che proiettano una luce verdastra sul pianeta.
L’influenza di Edgar Rice Burroughs sul mondo, sulla sua società e sui suoi costumi risulta subito evidente: gli osnomiani, dalla fisionomia perfetta, non portano indumenti e si ricoprono unicamente di gioielli e ornamenti, proprio come i marziani (o, meglio, barsoomiani) incontrati pochi anni prima da John Carter; il mondo che non conosce il buio ricorda inoltre Pellucidar, la terra al centro della terra, illuminata da una palla di fuoco o energia che arde costantemente in quello che in sostanza è il vero centro del nostro pianeta. E, proprio come Marte, anche la gravità di Osnome è inferiore a quella terrestre, tanto che in almeno un’occasione Seaton può far sfoggio di una forza sovrumana.
Non appena giunta nell’atmosfera – respirabile – del pianeta, l’Allodola subito salva le navi superstiti di una flotta volante (altra reminiscenza barsoomiana!) dall’attacco di mostruose creature pure aeree. In segno di gratitudine per il salvataggio insperato, Naboon re di Mardonale, che si trova a bordo di uno dei vascelli aggrediti, compie un errore…mardonale: invita i nostri a casa sua e regala loro tredici schiavi, che li accettano a malincuore, solo perché intuiscono che, in caso di rifiuto, i tredici verrebbero subito giustiziati in quanto regalo non apprezzato.
Ma il lettore comprende immediatamente che si tratta solo di un espediente per mettere in contatto i protagonisti con i buoni del pianeta.

Una guerra lunga seimila anni
Nel corso della notte o, meglio, del periodo di sonno successivo, il capo dei tredici schiavi costruisce con pezzi di fortuna un congegno che farebbe invidia a MacGyver: si tratta di una macchina che permette di collegare la sua mente a quella dei quattro protagonisti, consenzienti; solo DuQuesne rifiuta la connessione, con valide ragioni: teme il tradimento.
Mediante questa apparecchiatura lo schiavo riesce non solo ad insegnare ai nostri in un lampo la lingua parlata su Osnome ma anche a dar loro alcuni rudimenti di storia e tradizioni locali, per metterli al corrente della situazione politica planetaria: solo che la macchina va in corto quando è ancora collegata alla mente di Seaton, l’ultimo a ricevere il trattamento, e così accade l’incredibile. Il contenuto di ciascuna delle due menti viene completamente riversato nell’altra: così i due cervelli di Seaton e del principe Dunark di Kondal – è questo il nome del capo degli schiavi – diventano l’uno la copia dell’altro. Il primo vantaggio evidente è che in questo modo Kondal si è guadagnato un alleato influente a vita, perché Seaton conosce sempre l’esatto pensiero dell’osnomiano e quindi è consapevole della sua assenza di malizia; il secondo è che lo scambio delle conoscenze offre a Seaton l’occasione di farci un pistolotto ogni volta che sia necessario spiegare un costume o un evento osnomiano.
Ad ogni buon conto, questa fusione mentale è l’espediente necessario per portare ancora avanti la trama: Mardonale e Kondal sono le due sole nazioni civili presenti su Osnome: per qualche ragione si fanno la guerra da seimila anni e l’odio reciproco è tale che il conflitto si potrà estinguere solo con il completo annientamento di una delle due fazioni (ma a questo punto abbiamo già una mezza idea di quale potrà essere la soccombente). Si apprende inoltre che Naboon, fingendo benevolenza, meditava in realtà di uccidere i terrestri per impossessarsi dell’Allodola e del sale che essa contiene (rarissimo e preziosissimo: viene utilizzato come catalizzatore di un supermetallo, l’arenak) e poi con l’una e con l’altro distruggere finalmente Kondal.
I nostri quindi si alleano col nobile principe Dunark e raggiungono il campo di volo, dove con le pallottole X-plosive fanno scempio dei mardonaliani posti a guardia: preso possesso dell’Allodola (che pure è rimasta danneggiata nella brevissima battaglia), fuggono verso Kondal, dove vengono ovviamente accolti con tutti gli onori.

Due matrimoni, poi si torna a casa
Qui la storia torna a sedersi per un po’: i quattro protagonisti approfittano della pausa per sposarsi alla osnomiana (ma vestiti alla terrestre) mentre i kondaliani costruiscono a tempo di record due nuove Allodole identiche, l’una riservata al principe Kondal, l’altra in sostituzione dell’originale. Entrambe sono realizzate interamente in arenak, un metallo trasparente e resistentissimo, pressoché indistruttibile; il sale è indispensabile nella preparazione di questo supermetallo: ed i quindici chili contenuti a bordo dell’Allodola originale (su tutto il pianeta esiste sì e no tanto sale da riempire una piccola saliera) sono un notevole contributo allo sforzo bellico.
Ma non appena la nuova Allodola II è pronta ed i nostri si stanno accomiatando dai loro nuovi amici per fare ritorno a casa, su Kondal appare la flotta mardonaliana in tutta la sua vastità, che semina distruzione con una nuova arma: raggi. Raggi di ogni tipo: luce visibile e ultravioletta, vibrazioni sonore e infrasuoni, elettricità indotta ad altissima tensione, particelle di calore e via con la fantasia, che bloccano al suolo il vascello di Dunark e mettono in seria difficoltà persino la nuova Allodola terrestre. Alla fine però, esaurite tutte le scorte di pallottole X-plosive, Seaton decide di trasformare la sua astronave in un ariete con cui abbatte tutte le navi mardonaliane superstiti: la battaglia è vinta.
Tornati al suolo e sinceratisi che Kondal e gli altri personaggi rilevanti (in sostanza, la famiglia reale) stiano bene, i nostri possono finalmente ripartire alla volta della terra: nel classico momento di disattenzione però, mentre l’Allodola sorvola il canale di Panama ad un’altezza di tremila metri, DuQuesne, infilata la pesante tenuta di cuoio che indossava al rapimento di Dorothy, afferra un paracadute osnomiano (non meglio descritto ma si intuisce che deve avere qualcosa di speciale) e si mette in salvo, lanciandosi fuori della nave.
Poco dopo, l’Allodola atterra nel giardino di casa Crane: dalla partenza sono passate solo nove settimane.

Una lettura obbligatoria per ogni appassionato
Tra alti e bassi, l’«Allodola dello Spazio» merita di essere letta da ogni appassionato se non altro per il ruolo chiave che ha avuto nella nascita della space opera: certo, l’uomo moderno non può fare a meno di sorridere di fronte alla faciloneria di certe trovate e all’ingenuità con cui il semplice ragionamento permette di superare ogni difficoltà o di trovare la soluzione ad ogni problema; ma anche il lettore più critico non può fare a meno di riconoscere che ad ogni pagina si respira quel senso di meraviglioso che non solo è il motore primo della fantascienza ma è anche uno degli ingredienti principali delle storie di un tempo, sempre così avvincenti.
Per tutto il romanzo vengono lanciate idee a ripetizione, alcune risibili, altre così superscientifiche da risultare «false come un biglietto da nove dollari» (per citare una delle battute tipicamente pulp del romanzo): e sorprendentemente questa valanga di trovate riesce a tenere in piedi la storia e a salvarla ogni volta che sembra aver preso la tangente. Infatti non è tanto la verosimiglianza o l’aderenza alla realtà a rendere migliore una storia (anzi!) quanto invece le idee ed una trama che sia almeno credibile: e, collocata all’interno del filone pulp – dove tutto deve essere esagerato e adattarsi ad una serie di archetipi – allora l’Allodola ha davvero tutto quello che serve per solleticare l’interesse e stuzzicare la fantasia.
C’è però un «ma». Anche se l’Allodola ha avuto un ruolo decisivo nella nascita della space opera, ha poi avuto scarsa influenza nell’evoluzione del genere: i successivi episodi della serie sono infatti via via sempre meno convincenti, al punto che il quarto e conclusivo romanzo, «Skylark DuQuesne», è quasi spazzatura, probabilmente perché è stato pubblicato fuori tempo massimo (nel 1965), ossia quando ormai il genere si era trasformato radicalmente. Ciononostante, in un certo senso la mano di Smith ha continuato a guidare la space opera mentre essa muoveva i suoi primi passi: la sua serie dei Lensmen, di poco successiva, incarna infatti tutti gli stereotipi che siamo soliti associare alla fantascienza spaziale degli anni Trenta.
Ma questa sarà materia di un altro articolo.

Aggiunta: qui commento l’Allodola III, il secondo volume della serie, e qui l’Allodola di Valeron, il terzo libro.

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