Mediocri nel migliore dei casi e carenti nella quasi totalità, le storie di Northwest Smith – l’archetipo dell’avventuriero spaziale – mettono in luce non solo le ottime capacità descrittive di Catherine Lucille Moore ma anche tutte le caratteristiche negative già incontrate negli altri racconti dell’autrice: sono infatti lente, binariate, estremamente introspettive ed inclini a lunghe descrizioni di emozioni, sensazioni, sogni, esperienze extracorporee, amori incontrollabili ed improvvise infatuazioni.
In altre parole, tipicamente femminili.
Tredici storie in sette anni
Scritte per lo più tra il 1933 ed il 1936, con un brevissimo strascico che si è concluso nel 1940, le dodici storie di Northwest Smith sono state pubblicate quasi interamente da Weird Tales con poche eccezioni, che riguardano gli ultimi due racconti tardivi e scialbi del 1938 e 1940: a queste se ne aggiunge una tredicesima, il «teamup» del 1937 con Jirel di Joiry, l’altra famosa creatura della Moore, le cui storie pure non brillano ma sono leggermente superiori a queste per qualità; e proprio all’articolo sull’eroina medievale che ho scritto l’anno scorso rimando per un’introduzione all’autrice.
Più che alla fantascienza e alla space opera, come potrebbe sembrare a prima vista, i racconti di Smith in realtà appartengono alla cosiddetta «science fantasy», un genere ibrido che mescola fantasy e fantascienza, dove la prima è preponderante ma la seconda offre scenari ed ambientazioni: come filone la space fantasy non è mai decollata davvero, anche se ultimamente sta conoscendo un periodo di particolare fortuna grazie al rinnovato successo di Guerre Stellari. Così, sebbene a prima vista gli aspetti fantascientifici sembrino prevalere sul resto (si parla di astronavi, pistole termiche, decine di pianeti abitati, razze aliene: le solite cose che fanno la space opera, per intenderci), ad un livello più profondo sono disseminati anche elementi tipicamente fantasy, ossia quelle componenti che non possono essere spiegate scientificamente, come la magia: così Smith si trova a lottare contro dei dal sapore lovecraftiano; creature mitologiche come le meduse, le sirene ed i lupi mannari; mostri atavici e non morti; suggestioni ipnotiche; oppure ad esplorare antiche rovine, città antichissime e decadenti, palazzi da mille e una notte, baraccopoli di frontiera; o ancora ad essere attirato in mondi in miniatura contenuti all’interno di oggetti comuni come sciarpe e fregi architettonici, ai quali si può accedere solo nel sonno, tramite l’ombra che proiettano o mediante strani geroglifici che si attivano come portali, permettendo così il passaggio tra le dimensioni. E sempre ci sono donne splendide che si innamorano di Smith a prima vista.
A voler ben vedere, qua e là nel ciclo si intravede anche l’abbozzo di un altro sottogenere parallelo alla space opera che sempre negli ultimi anni ha conosciuto una certa popolarità: si tratta dello «space western», che riprende temi e trame – se non addirittura luoghi e personaggi – tipici del Far West e li rielabora in chiave fantascientifica, quindi con pistole laser al posto delle sei colpi, pirati spaziali al posto dei banditi e criminalità spicciola al posto dei ladri di bestiame.
La commistione dei generi è quasi automatica, se si pensa che l’uno (western) e l’altro (space western) sono ambientati alla frontiera, poco importa se è quella dell’Ovest o dello spazio abitato: fatte le dovute differenze, alla fine situazioni e protagonisti sono gli stessi. E non si deve nemmeno dimenticare che negli anni Trenta – e per molto tempo ancora: almeno fino alla metà del Novecento – la conquista del West era un’epica ancora vivissima nell’immaginario comune americano.
Nelle storie della Moore lo space western è giusto accennato, più un riflesso dei temi e del gusto dell’epoca che una scelta consapevole: in fin dei conti la distinzione minuziosa tra i vari generi è un fenomeno recente, espressione di un’epoca ossessionata dalla classificazione morbosa; un tempo invece esistevano solo storie buone e storie cattive: e, sinceramente, si fa fatica a collocare le avventure di Smith tra le prime.
L’idiot plot
I racconti di questo ciclo sono inoltre accomunati da un’altra caratteristica, ora più, ora meno evidente: il cosiddetto «idiot plot», ossia quel cattivo espediente letterario per cui tutti, dai protagonisti ai comprimari, devono comportarsi da ritardati perché la trama si regga in piedi. Ne risultano storie artificiose, forzate, nelle quali tutti, buoni e cattivi, agiscono fuori personaggio, quindi non secondo il loro carattere ma perché così vuole l’autrice per portare la trama in una certa direzione: di conseguenza, certe informazioni importanti vengono taciute e tenute in serbo per la fine, per la rivelazione sorprendente, anziché essere disseminate lungo la storia, cosa che invece, contestualizzando gli eventi, avrebbe reso più comprensibile la trama e gradevole la lettura. Il caso emblematico si trova in «Shambleau», il primo racconto di Smith (ed anche il primo pubblicato dell’autrice), ma in misura minore guasta anche «Julhi» e «Paradiso perduto».
Altrove però la trama non suona così idiotica o almeno non altrettanto forzata, come ad esempio nelle tre storie migliori del ciclo: «La polvere del dio», «Sete nera» e «Il freddo dio grigio» (in quest’ordine), che non a caso sono anche i racconti in cui la storia d’amore è assente o ridotta al minimo, una pura formalità che serve solo per mettere in moto gli eventi.
Per il resto le avventure dell’intrepido spaziale non hanno molto da offrire a parte alcune buone idee qua e là, particolarmente creative in «Sogno scarlatto», «Yvala» e «L’albero della vita», tre storie che, pur scadenti dal punto di vista narrativo, rimangono tuttavia impresse per l’originalità dell’ambientazione e dell’inventiva.
L’eroe ed il comprimario
Presentato come un avventuriero, un pirata spaziale, un fuorilegge ricercato dalle polizie di tutti i pianeti conosciuti (o, più semplicemente, dalla «Pattuglia»), Northwest Smith è in realtà l’archetipo dell’antieroe cupo ma buono nell’animo: è infatti un uomo d’azione che dopo l’abbaglio iniziale prende sempre la decisione giusta pensando più al bene comune che al proprio interesse. Ne deriva così un personaggio piatto, poco interessante, privo di quell’egoismo e di quella grettezza che invece ci si aspetterebbe da un furfante spregiudicato: eppure non gli si può negare una sua inspiegabile attrattiva. È innegabile infatti che Smith abbia ispirato o almeno influenzato molti altri eroi ed antieroi, a cominciare dal già citato Guerre Stellari: Han Solo infatti è Northwest Smith, senza tanti fronzoli.
Terrestre di nascita, Smith ha sulla quarantina d’anni, gli occhi grigi come il ghiaccio, il volto segnato da una quantità di cicatrici e la pelle abbronzata, «prodotta dai raggi di molti soli ardenti, tanto da apparire dello stesso colore dei suoi abiti», che sono di cuoio, l’abbigliamento tipico degli esploratori spaziali: ciononostante non viene mai mostrato in un’astronave ma sempre con i piedi ben piantati per terra, per lo più su Marte, la cui decadenza ben si presta all’atmosfera da frontiera senza legge che è una nota caratteristica di queste storie. Capace di far innamorare di sé tutte le donne che incontra, umane e non, Smith si cava solitamente dai guai con un uso liberale della pistola termica, che porta sempre al fianco: e quando le armi non bastano, può comunque contare sul fido complice, il venusiano Yarol, un personaggio che al contrario è molto più credibile nei panni della canaglia di quanto riesca l’eroe eponimo. Yarol infatti viene presentato come un uomo che ha «il volto di un angelo caduto, senza il maestoso orgoglio di Lucifero a riscattarlo», sul quale è dipinta un’espressione costante di vizio e crudeltà: ed è proprio la sua perversità ad essere decisiva laddove i tentennamenti filantropici di Smith potrebbero costare la vita ad entrambi.
Tutto concentrato nel sistema solare
Anche se viene detto che esistono alcune decine di mondi abitati, le avventure di Smith sono concentrate nel sistema solare: metà delle storie sono infatti ambientate su Marte («Lakkdiz» nella lingua locale), un paio su Venere (e per lo più ad Ednes, la capitale), le altre qua e là, inclusi la terra (ma solo incidentalmente), una luna di Giove ed altri luoghi non meglio definiti. I pianeti, per quanto è dato di vedere, hanno una caratterizzazione da romanzo fantasy: Marte è un pianeta antichissimo solcato dai canali ma in gran parte deserto, la cui architettura (ed in particolare quella di Lakkdarol, la città di frontiera che è il centro delle attività del protagonista) ricorda parecchie ambientazioni di Guerre Stellari; pure Venere è un pianeta antico, meno di Marte ma altrettanto misterioso, pur in modo diverso: laddove Marte in passato è stato dominato da grandi forze che agivano scopertamente, su Venere i poteri sono occulti ed operano in maniera più sottile e intrigante. La terra, invece, è esattamente quella che negli anni Trenta ci si immaginava per il futuro: niente hipster e telefonini quindi ma città sempre più grandi e grattacieli sempre più alti collegati da ponti sospesi.
Gli «alieni» stessi, che di forma e aspetto sono identici agli umani con minime differenze (ad esempio i venusiani hanno gli occhi a mandorla e la pelle bianchissima), sembrano essersi conformati alle caratteristiche planetarie: i marziani, che si distinguono tra i più trattabili abitanti dei canali ed i pericolosi uomini delle sabbie, sono un popolo duro e resistente; i venusiani invece sono più melliflui, al punto che le venusiane vengono considerate maestre di seduzione; e gli antichi seleniti, che sopravvivono sulla terra come popolo di eremiti isolati nella zona più impervia dell’Asia, hanno tutti i capelli bianchi e un fisico fragile ma non debole.
In conclusione
Prima di passare a riassumere i racconti del ciclo, mi sento in dovere di aggiungere due righe di conclusione a questa prima parte della recensione: quando ho preso in mano il materiale pensavo infatti di pubblicare un commento positivo alle storie di Northwest Smith. Poi però, proprio come era accaduto l’anno scorso per le avventure di Jirel di Joiry, mentre scrivevo le idee mi si sono fatte più chiare e mi sono dovuto rendere conto che, in definitiva, queste storie non sono granché: hanno tutti i difetti della fantascienza degli anni Trenta senza nessuno dei pregi, che nel caso specifico sarebbero il protagonista piacente e le idee creative. Ecco, a dire il vero qua e là ci si imbatte in buone idee ma purtroppo sono sepolte in mezzo a pagine intere di inazione e descrizioni sovrabbondanti che finiscono solo per intorpidire l’attenzione del lettore.
Quanto al protagonista invece non posso fare a meno di rispolverare una mia vecchia teoria: le autrici donne non sanno scrivere i personaggi maschili, proprio come gli autori uomini non sanno scrivere le protagoniste femminili. Non è tanto una questione di pregiudizio quanto il frutto dell’osservazione: gli uni e le altre hanno in mente un archetipo di ciò che si aspettano nell’altro sesso e così a livello inconscio tendono a scaricare sulle loro creature le loro precomprensioni e tutto ciò che si immaginano appartenere all’altro sesso o che semplicemente si aspettano dall’altro sesso. Così le autrici donne appesantiscono i ragionamenti maschili con troppe riflessioni, esitazioni, emozioni, che finiscono solo per rendere deboli e improbabili questi personaggi; gli autori uomini arrivano invece a mettere troppa spavalderia e aggressività nel comportamento femminile, spesso a spese della femminilità delle loro eroine, che così trasformano in caricature o bamboline inanimate.
Ed infatti, pur con tutti i suoi difetti, la già citata Jirel è un personaggio molto più credibile e molto più gradevole di Smith: l’una ha una sua personalità, sia pure poco sviluppata; l’altro invece è piatto come un foglio di carta velina. Ma entrambi sono creature della Moore.
Detto ciò, il mio consiglio è di leggere «La polvere del dio», «Sete nera» e «Il freddo dio grigio» (in questo ordine) prima di dedicarsi alla lettura integrale del ciclo, per farsi un’idea dello stile: se il personaggio e le sue avventure sopravvivono al giudizio del lettore, forse anche le altre storie possono riuscire gradevoli; ma se già questi tre racconti, che costituiscono il «meglio» del ciclo, riescono pesanti o indigesti, consiglio di interrompere immediatamente la lettura: il ciclo non migliora affatto nelle altre storie.
I racconti, riassunti
I riassunti delle dodici storie che compongono il ciclo di Northwest Smith sono elencati in ordine di pubblicazione: il personaggio appare anche in una tredicesima storia, «La cerca della pietra stellare» (Quest of the Starstone, 1937), dapprima come avversario di Jirel di Joiry, poi come suo alleato. Dal momento che quel racconto fa parte del ciclo di Jirel, per il riassunto rimando a quell’articolo.
– Shambleau (Shambleau, 1933)
A Lakkdarol, un villaggio di frontiera su Marte, Smith si imbatte in una umanoide inseguita dalla folla, che vuole ucciderla: è una bella donna anche se ha alcuni tratti non umani (quattro dita, pupille feline, denti aguzzi, assenza completa di peli come ciglia e sopracciglia; la testa è coperta da un turbante) e così decide di proteggerla. La folla non fa che ripetere «Shambleau» come unica ragione del linciaggio, senza aggiungere altri argomenti o spiegazioni ma accetta la parola di Smith, che prende la donna sotto la sua protezione: «Adesso lei è mia». Rassicurati da queste parole, tutti se ne vanno, magari sputando per terra.
È l’idiot plot alla sua massima espressione: infatti non si è ancora capito perché «Shambleau» sia una ragione sufficiente per uccidere la donna, la cui vera natura non viene ottusamente rivelata fino alla fine: chiaramente è il nucleo della storia, che non può essere bruciato così presto. Perciò tutti si limitano a dire che la creatura è «Shambleau» ma nessuno spiega cosa sia «Shambleau» o quali pericoli rechi; e Smith stesso non si perita di chiedere perché vogliano linciare «Shambleau» ma si accontenta di promesse di spiegazioni future da parte della stessa interessata. Per un pirata, un antieroe che mette la sua sopravvivenza davanti a tutto (persino a «tutte le donne del mondo») e che di conseguenza deve essere sempre cauto nelle sue azioni non è un comportamento né logico né credibile.
Ad ogni buon conto, porta a casa la donna: durante i giorni seguenti la lascia sola, tranne la notte, quando devono dividere la stanzetta che occupa. La prima notte Smith fa uno strano sogno, la seconda lo vede prendere vita: la donna si toglie il turbante che porta, sotto il quale non ha capelli ma una selva di serpenti o vermi frementi, che si allungano sino a ricoprirla, sino a ricoprire entrambi nell’amplesso, dopo che lei ha ipnotizzato Smith e l’ha sommerso con i suoi «capelli».
Tre giorni dopo arriva finalmente Yarol, la spalla di Smith, che lo salva: il protagonista, incapace di agire per conto proprio, è ancora dominato dalla creatura, che ne sta succhiando la forza vitale. Yarol, che è venusiano ma conosce la leggenda di Medusa e di Perseo, afferra lo specchio appeso alla parete e con quello prende la mira per sparare alla donna. Giorni dopo Smith si riprende grazie alle cure dell’amico, che finalmente gli spiega cos’è una Shambleau: o meglio, cosa sono le Shambleau, perché questo è il nome della loro razza, antichissima ma di cui nessuno conosce la provenienza; forse Venere, visto che la sua terra è ricca di leggende che le riguardano: lui stesso l’ha riconosciuta subito dall’odore, nonostante la forma vaga che aveva intravisto nella penombra. Le Shambleau si nutrono appunto dell’energia vitale delle persone che fanno schiave: la forma femminile assai affascinante forse non è nemmeno il loro vero aspetto ma quello che assumono perché così possono avvicinare più facilmente gli uomini e portarli al parossismo sessuale, che evidentemente aumenta la forza vitale.
Alla fine il venusiano cerca di strappare a Smith la promessa che, se dovesse incontrare un’altra Shambleau, la ucciderà a vista: ma Smith risponde solo che ci proverà, perché in realtà ne è ancora stregato, come infatti capita a molte vittime salvate in tempo da queste creature. (4)
– Sete nera (Black Thirst, 1934)
Su Venere esiste un posto, la Minga, dove vengono allevate le ragazze più belle, poi vendute alle corti sui diversi pianeti. Smith viene assoldato da una di queste, Vandir, per svolgere un compito, che però non è il compito che la donna aveva in mente all’inizio (che non viene nemmeno rivelato) ma è solo l’espediente per farlo entrare furtivamente nell’enorme palazzo da Mille e una notte che è la Minga. Quando finalmente Smith raggiunge Vandir nel suo appartamento ed è a colloquio con lei, l’alendar – in sostanza, il padrone immortale di quell’organizzazione – prende il controllo della ragazza, che fa scendere nella sua tana: Smith la segue e così finalmente si trova faccia a faccia con l’uomo, il cui sguardo – ipnotico, tanto per cambiare – è un pozzo di oscurità. L’alendar predice la morte imminente di Smith ma non resiste alla tentazione di mostrargli le sue stanze segrete, dove tiene prigioniere le ragazze più belle, autentiche dee.
Al termine della visita il padrone di casa gli rivela finalmente che la figura nota come «alendar» appartiene ad una razza – antichissima, già sofisticata prima ancora che l’umanità nascesse – che come i vampiri e le Shambleau si nutre di esseri umani: ma mentre i primi succhiano il sangue e le seconde la forza vitale, la sua razza si nutre di bellezza. La ragione per cui non ha ancora ucciso Smith – che stringe ancora la pistola con cui aveva già cercato di sparare all’alendar: nessuno si è preso la briga di togliergli l’arma di mano, nemmeno dopo che un’onda mentale dell’alendar lo ha stordito un momento prima di fare fuoco – è che l’essere si è stufato del solito cibo (la bellezza femminile) e vuole assaggiare la bellezza maschile, che la sua razza ha trascurato per così tanto tempo: prima di banchettare vuole però far maturare la bellezza di Smith in maniere che non vengono rivelate.
In quella Vandir, che ha seguito i due sotto controllo mentale dell’alendar, riesce a indebolire per un momento la presa della creatura su di sé e su Smith, dando così il tempo a quest’ultimo di sparare: invece di morire, l’alendar si scioglie in una pozzanghera di limo nero, che poi scivola nel mare sotterraneo presso la cui riva si trovano. A questo punto rimane solo da tornare alla superficie, attraverso porte che solo l’alendar – e adesso pure Vandir, che durante il periodo di controllo è diventata una cosa sola con l’alendar – può aprire: solo che proprio in virtù di quel dominio mentale la ragazza sente di essere ormai sopraffatta dall’orrore che era la creatura e ottiene la promessa da Smith che la ucciderà prima di lasciarla morire e tramutarsi anche lei in limo nero.
Proprio all’uscita, la ragazza viene meno e Smith coraggiosamente ottempera al proprio impegno. (5/6)
– Sogno scarlatto (Scarlet Dream, 1934)
Uno dei peggiori racconti: Smith acquista al mercato uno splendido scialle d’ignota provenienza, di colore rosso rubino, morbido e caldo, ricamato con un motivo al tempo stesso splendido, attraente ed orribile. Quella notte fa un sogno: si trova in un mondo alternativo, dove incontra una ragazza tutta insanguinata che fugge: lui la ferma e fa la sua conoscenza, facendola immediatamente innamorare di sé. L’eroe crede che si tratti di un sogno ma la ragazza – che rimane senza nome per tutta la storia (con rammarico finale dell’eroe) – presto lo corregge: non è un sogno, è la realtà; è stato preso prigioniero dallo scialle ed ora non solo è condannato a vivere nel mondo ristretto che esiste nel tessuto ma può essere aggredito dal Mostro che lo popola. Per Smith inizia così un periodo di ozio forzato al quale si adegua rapidamente: passa le giornate con la ragazza in riva al lago, con lei si reca al tempio dove appositi ugelli distribuiscono il solo nutrimento del luogo (sangue) ed intanto il tempo passa, finché lui non decide di esplorare le montagne che vede in lontananza. In quella però inizia a materializzarsi il mostro, che Smith forse uccide con la pistola: la ragazza, che ha capito che lo perderà comunque, lo conduce così al tempio, in una stanza a sette lati, alla quale aveva fatto riferimento in precedenza. È la stanza della Porta, dove occorre pronunciare la terribile parola che uccide chi la proferisce per aprire la porta e lasciare quel mondo dove tutti vivono ottusamente in attesa del giorno in cui il Mostro li ucciderà; forse è proprio così che il Mostro è entrato nel loro mondo, perché la parola apre porte su molte dimensioni.
Smith si risveglia così nella sua stanza, con Yarol ed un medico che da una settimana stanno cercando di farlo rinvenire: Yarol nel frattempo si è disfatto dello scialle, perché aveva qualcosa che lo disturbava. (3)
– La polvere del dio (Dust of Gods, 1934)
Il miglior racconto del ciclo ed il primo con un po’ di contenuto: è sicuramente ispirato ai racconti di Lovecraft, del quale cerca di ricostruire le atmosfere. Presenta anche spunti affascinanti, come la luce materiale, fisica, che scorre come l’acqua.
Smith e Yarol vengono incaricati di recuperare le ceneri di Pharol, il dio nero temuto da tutti, il dio più antico di ogni cosa, proveniente da un’altra dimensione: già un’altra coppia di avventurieri ha fallito e l’esperienza li ha provati a tal punto che ora sono ridotti a pazzi timorosi di tutto, anche della loro ombra. Seguendo le indicazioni ricevute, i nostri vanno al polo nord marziano e rintracciano le rovine dell’antica città, superano la prima insidia (quella che ha fatto impazzire i loro predecessori) e scovano l’acceso al tempio, un asteroide che è un frammento del quinto pianeta tra Marte e Giove, esploso nell’antichità. Lo aprono agevolmente, provocando la fuoriuscita della luce materiale, e trovano la sala a specchi in cui poggia il trono dell’antica trinità presieduta da Pharol: è molto suggestiva la scena in cui la luce liquida scende pian piano sino a svuotare la sala, lasciando Yarol, che si è arrampicato sul trono, nell’oscurità assoluta appena al di sopra della superficie luminosa.
Sul trono trovano la polvere del dio ma, presi da rimorsi di coscienza, decidono di non portare a termine la missione: l’ometto che gli aveva dato l’incarico sapeva già troppe cose sulla città e sul dio, saprà quindi anche come adoperare la polvere. E se la usasse per schiavizzare l’umanità? O se riportasse in vita il dio malvagio e, com’è probabile, Pharol gli sfuggisse di mano? Danno così fuoco alle ceneri che, nel bruciare, proiettano immagini della storia dell’antico mondo esploso da cui Pharol proveniva.
Splendide atmosfere, la narrazione però è un po’ lentina. (6)
– Julhi (Julhi, 1935)
Assieme alla «Lupa mannara», una delle due storie che si contendono il titolo di peggior racconto della serie: è per due terzi una sequenza di sogni, esperienze extracorporee e una valanga di parole, descrizioni, emozioni, sensazioni senza senso, scollegate le une dalle altre, che hanno l’effetto di annebbiare la mente.
La storia è semplicissima: su Venere Smith, scambiato per un balordo, viene drogato, rapito e scaricato nelle rovine di un’antica città, per sfamare le creature che la abitano. Qui incontra una ragazza, chiamata Apri, che gli farà da guida: è una sorta di telepate che rende involontariamente possibile il passaggio di creature aliene – sorta di ciclopi per metà umani e per metà non si sa – dal loro mondo o dimensione alla nostra. Apri è dominata dalla signora di questi ciclopi, Julhi, e le si è appena ribellata: per questo anche lei è stata condannata a servire da colazione alle creature. Julhi ovviamente si innamora di Smith e decide che sarebbe sprecato se venisse dato in pasto a questi esseri mostruosi: lo tiene invece per sé, per succhiargli sangue ed emozioni, prima di ucciderlo lei stessa.
Nel corso della storia si apprende che la città esiste contemporaneamente in due dimensioni – la nostra e la loro – ed è stata costruita così per volontà del re del tempo: Smith sperimenta quindi passivamente una serie di esperienze extracorporee che lo portano nella stessa città ma dall’altra parte, in modo tale da fargli comprendere che i ciclopi non sono degenerati come Julhi ma sono assai nobili; solo Julhi e la sua fazione sono malvagie. Quando la situazione volge al peggio Apri inizia a rifulgere: Smith, finalmente libero dalla sua padrona, la raggiunge passando attraverso i muri e la strangola, così da chiudere una volta per tutte il varco tra le due dimensioni. (2)
– La ninfa delle tenebre (Nymph of Darkness, 1935)
Uno dei racconti più gradevoli ma sempre scarsetto. Di notte, nel porto di Ednes, la capitale venusiana, Smith aiuta una ragazza fuggitiva: lei è invisibile però, perché è la figlia di una venusiana (una sottorazza dalla pelle blu, irrilevante) e dell’Ombra, un antico dio indigeno, che le ha passato la sua caratteristica peculiare. La ragazza è affidata alle cure di un popolo mostruoso che vive nelle viscere della città, dal quale ha già cercato di fuggire ma sempre senza successo: questo popolo, che dispone di una luce verde che rende visibile la ragazza, non la lascia andare ed anzi vuole che balli per loro nei riti in onore del padre.
Con ragioni debolucce ed una trama ingarbugliata, la ragazza porta con sé Smith nella città sotterranea, nel tempio di quel popolo, dove balla come quelli vogliono: ma Smith viene scoperto e stanno per fargli la pelle quando la ragazza, che finalmente si fa valere come figlia del loro dio, si oppone. A salvare la situazione (e la testa di Smith) interviene l’Ombra stessa, che mette soggezione a tutti e si porta via la figlia, oltre la porta invisibile che la ragazza voleva ma non poteva attraversare.
Da uno dei mostri ancora tremanti Smith si fa indicare la via d’uscita. (5)
– Il freddo dio grigio (The Cold Gray God, 1935)
Storia a tratti buona, a tratti cattiva, nell’insieme a livello delle «migliori» lette sinora: una storia difficile che però lascia un buon ricordo. A Righa, città polare di Marte, Smith viene avvicinato da una venusiana per una missione semplice: lui la riconosce per essere una cantante che alcuni anni prima aveva avuto successo ma poi è scomparsa, Judai di Venere. Smith deve rubare una scatoletta da un tipo che sta alla taverna (di cui Smith conosce il proprietario) e riportargliela. La donna, molto seducente, desta però ribrezzo involontario in Smith: si scoprirà poi che è un cadavere posseduto da una specie di nebbia, servitore del dio grigio del titolo.
Smith compie la missione facilmente – la compie il locandiere per lui, ad essere precisi – e consegna la scatola come pattuito: la nebbia che occupa il cadavere della cantante a questo punto esce allo scoperto e prende possesso del corpo di Smith, che all’improvviso si trova una coscienza disincarnata. Osserva così i gesti del suo corpo posseduto, che apre la scatola e ne estrae un talismano, col quale disegna un geroglifico sulla parete: da qui farà il suo ritorno sul pianeta il dio grigio, il dio della religione originaria dei marziani, malvagio e dimenticato. I primi tentacoli già stanno sferzando la stanza – e hanno consumato il cadavere di Judai – per divorare anche il corpo di Smith, quando la coscienza di Smith si mette in moto, lotta col servitore del dio per il controllo del suo corpo e sta avendo successo. In quella arriva il locandiere: con quel poco controllo del proprio corpo che è riuscito a conquistare sinora, Smith cerca di strangolare il locandiere per bloccarlo (al vedere i tentacoli l’uomo si è come congelato: non ha capito cosa siano ma qualcosa nella sua mente deve averli associati con le memorie del dio ancestrale del suo popolo) ed ottiene il suo scopo, prima di perdere i sensi per la reazione del locandiere, che gli ricambia lo strangolamento.
Quando il protagonista si sveglia, la situazione si è risolta: del dio non c’è più traccia, tranne una parete bruciata: e Smith ha ripreso il pieno controllo del suo corpo grazie alle cure del locandiere, che non è riuscito ad uccidere. (5/6)
– Yvala (Yvala, 1936)
Smith e Yarol accettano un lavoro per conto degli schiavisti: su una luna di Giove sono state scoperte delle splendide sirene ed i Willard, i grossisti del settore, ne vogliono alcuni esemplari.
Giunti sul pianeta i due vengono avvicinati da donne bellissime, identiche le une alle altre; appaiono però in modo diverso a ciascun osservatore: Smith le vede coi capelli rossi e la pelle color miele, Yarol bianchissime di pelle e coi capelli nerissimi. Anche la lingua in cui si esprimono è diversa: l’inglese per Smith, l’alto venusiano per Yarol. I nostri le seguono fino ad una radura dove si imbattono nelle rovine di un antico tempio, al cui interno vedono risplendere l’originale delle donne che hanno rincorso, di cui quelle sono solo una pallida copia: questa donna li ipnotizza (tanto per cambiare) e fa emergere il loro lato bestiale, tanto che Smith ad un certo punto si sente un lupo.
La sua coscienza disincarnata sta per cedere definitivamente al richiamo quando all’improvviso rinsavisce e a fatica riprende il controllo del suo corpo, solo perché i tre schiavisti (cattivi) che li accompagnavano e li seguivano a distanza sono stati appena catturati dalla donna e stanno facendo la fine che avrebbe dovuto fare Smith: si gettano infatti nella fiamma che è la sua vera forma (la donna è solo un’illusione) e da essa vengono divorati; ne emerge solo lo strato più bestiale dell’uomo, che non ha nulla di umano. Approfittando della distrazione della creatura, Smith riesce a far ritornare in sé anche Yarol, la cui intima natura invece aveva assunto la forma di una pantera, ed assieme riescono a mettersi in salvo.
C’è sempre troppo spazio dedicato ai sogni, alle esperienze extracorporee, alle illusioni, che rende noiosa, quasi faticosa la lettura: di azione, praticamente niente. (2)
– Paradiso perduto (Lost Paradise, 1936)
Altro racconto mediocre: questa volta Smith e Yarol sono sulla terra; sulle terrazze di New York, ad essere precisi, collegate tra loro da ponti sospesi. Mentre sorseggiano alcolici ad un tavolino notano un uomo che pare vecchio e debole ma in piena salute, appesantito da un pacco: questi viene derubato da un tale e Yarol si getta al suo inseguimento, dopo aver strappato all’uomo la promessa che in cambio dell’oggetto – mai mostrato – gli rivelerà il segreto custodito dalla sua razza, i seli. Questo popolo vive isolato nella zona dell’Himalaia: Yarol sa che proteggono un segreto che è desideroso di conoscere ma non è mai riuscito a scoprire.
Poco dopo Yarol torna con il pacchetto e così l’uomo – che, pur di mezza età, ha i capelli bianchi e sembra debole: ma questa è la caratteristica della sua razza – è obbligato dal giuramento a rivelare il segreto: lo fa nella maniera più scomoda, mostra cioè a Yarol e Smith una visione, perché la sua razza può viaggiare nel tempo, vedendo con gli occhi di chi è già vissuto o vivrà.
Per farla breve, la sua razza viene dalla luna ed aveva colonizzato parte della terra ancora milioni di anni fa: questo è in sostanza il segreto. La vita sulla luna era possibile perché una trinità di divinità tratteneva l’aria, l’acqua, la gravità: in cambio, i seli o sele-niti (arguto, eh?) dovevano accettare di offrirsi in sacrificio quando venivano chiamati, senza opporsi; al primo selenita che avesse fatto resistenza, gli dei avrebbero ritirato la loro protezione ed abbandonato la luna.
Il sacerdote mostra loro gli ultimi minuti di uno di questi martiri volontari, perché sia lui sia i due curiosi devono morire per aver voluto violare il segreto: morire nelle visioni significa infatti morire anche nella realtà. Quando Smith si rende conto di quello che sta per accadere però si ribella e riesce a liberarsi dalla visione, causando così la distruzione della civiltà lunare, perché l’uomo con i cui occhi vedeva è diventato il primo ribelle agli dei. Tornati nei loro corpi sulla terrazza, il seli si rende conto che il disastro è avvenuto per causa sua: così vuole rimediare uccidendo Smith ma Yarol è veloce a fulminarlo con la pistola. Poi i due scappano assieme.
Come sempre, c’è qualche buona idea ma lo stile è troppo ricco, svolazzante, articolato, noioso: l’autrice perde di vista il nucleo della storia per appesantirlo con lunghi dettagli e descrizioni pesanti. (4)
– L’albero della vita (The Tree of Life, 1936)
L’aereo di Smith è stato abbattuto dai velivoli della Pattuglia ed ora il nostro ha trovato rifugio nelle rovine di un’antica città marziana: gli aerei della Pattuglia pattugliano ancora il cielo così non si azzarda ad uscire allo scoperto.
Tra le rovine la sua attenzione viene attirata dal pianto di una donna, che cerca il suo albero della vita: Smith ne aveva appena visto uno nel motivo floreale che orna un pozzo ormai asciutto. Così la conduce là e all’ombra di quell’albero lei scompare: lui la segue, per curiosità ma soprattutto perché è appena apparso un aereo della Pattuglia. Si trova così in un mondo verdeggiante sospeso nel crepuscolo: la donna, che è la sacerdotessa di Thag, il signore di quella terra, lo sta conducendo proprio da Thag ma Smith capisce che qualcosa non quadra e la abbandona.
Ormai perso nei confini di quella terra contenuta nel fregio, viene infine avvicinato dagli ometti bruni che aveva intravisto in precedenza, gli schiavi di Thag: sono i discendenti degli uomini della Terre Aride. In virtù del patto stretto col demone Thag, l’antico re stregone che aveva costruito la città aveva anche creato un mondo magico per quell’essere, nel quale aveva poi rinchiuso degli schiavi, che nel tempo si sono involuti: ma anche nel mondo esterno i marziani delle Terre Aride, un tempo più civilizzati, si sono imbestialiti. Questi ometti mettono in guardia Smith su Thag: e Smith decide di fare qualcosa, anche per riconquistare la libertà.
Quando però raggiunge Thag rimane disgustato: è un albero senza foglie ma con i rami attorcigliati e flessibili, una storpiatura dell’albero della vita. In quella arriva anche la sacerdotessa, che si lascia andare ad effusioni con l’albero: Smith fugge. Però poi è costretto a ritornare, incapace di resistere ad un richiamo che attira anche gli ometti, che vengono divorati dai rami mentre sopraggiungono: finalmente Smith vede la vera natura di Thag – qualcosa di troppo orribile che la mente si rifiuta di mettere a fuoco – e quando sta per essere divorato lui stesso lo uccide sparando alle radici, l’unico punto vulnerabile perché è l’unione del tangibile e dell’intangibile.
Tutto esplode, Smith si trova all’esterno: anche le rovine della città sono state distrutte nell’esplosione. (3)
– La lupa mannara (Werewoman, 1938)
Racconto senza senso: Smith è appena fuggito da una battaglia, non si sa contro chi né perché né dove. È ferito gravemente ma si allontana nel deserto, per sfuggire agli sciacalli: la battaglia però si combatte ancora. Alla fine, esaurite le energie, si accascia presso un albero, quando viene accerchiato dagli abitanti del deserto: le lupe mannare. Le leggende dicono che un tempo il deserto era una città che, espugnata, è stata demolita dai nemici, i quali poi hanno sparso il sale per evitare che vi ricrescesse la vita; e poi, tanto per essere sicuri, hanno pure scagliato una maledizione sul deserto.
In sogno o per davvero (dall’epilogo parrebbe per davvero) Smith viene accolto dal branco e corre con le lupe: aggrediscono un gruppo di cacciatori ma vengono messi in fuga dalla croce che il loro capo oppone loro; poi con la lupa che lo ha scelto raggiungono le ultime rovine dell’antica città, ne rivivono alcuni momenti di grandezza prima di essere inseguiti da una sorta di blob, che poi è la maledizione scagliata dagli antichi conquistatori: Smith decide di combatterla lasciandosi inghiottire ed alla fine la vince per mera forza di volontà. Poi a breve distanza nota una pietra con un glifo e capisce che quella è l’origine della maledizione: prova a frantumarla ma deve prima combattere contro la lupa. Infine, distrutta la pietra, sente che la maledizione è scomparsa e la vita riprende anche nel deserto.
Si risveglia nell’accampamento dei cacciatori, che lo hanno soccorso: e quando apre gli occhi, il capo rimane spaventato perché riconosce gli occhi glaciali che aveva visto nel lupo che lo aveva aggredito, probabilmente quella notte stessa. Delirante. (2)
– Canto in chiave minore (Song in a Minor Key, 1940)
Brevissimo racconto dello struggimento del protagonista, che ricorda gli albori della sua vita criminosa: tutto è cominciato vent’anni prima, quando per vendicare la morte dell’amata ha ucciso la sua prima vittima. Ma sebbene ami la terra e gli manchi il suo pianeta, si intuisce che Smith non ha rimpianti per la vita che ha vissuto, conseguenza di quella prima uccisione. (2)
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