Anche se Jack Vance è uno dei miei autori preferiti, ho un rapporto di amore e odio con le sue opere: alcune infatti le trovo geniali, molte godibili ma almeno altrettante impossibili da reggere, sgradevoli e noiose. E anche in quelle che reputo riuscite meglio compaiono spesso delle parti illeggibili, perché per quanto Vance non abbia eguali nel creare ambienti e ambientazioni, tipi umani, culture, tradizioni e folclore irrazionali, è anche piuttosto scadente nella caratterizzazione dei personaggi, che finiscono per ricalcare sempre gli stessi due archetipi: un protagonista insopportabile ma sicuro di sé ed estremamente competente; ed una serie di comprimari ottusamente incollati a leggi, costumi e comportamenti assurdi che per qualche ragione hanno preso di mira il protagonista e se la godono a tormentarlo.
Ma, dal momento che le idee e l’ambientazione sono sempre più importanti della trama e dei personaggi, alla fine anch’io mi godo queste storie – quelle scritte meglio, almeno – anche se poi mi rimane l’impressione che al libro sia mancato qualcosa per brillare davvero.
Un ulteriore preambolo (che si può saltare)
Questa nota personale mi è servita per cominciare ad introdurre il vero argomento di questa recensione, già svelato dal titolo: compilatore compulsivo di classifiche, graduatorie ed elenchi, mi sono infatti chiesto più volte quale sia l’opera migliore di Vance ma finora non sono mai riuscito a decidermi su un libro in particolare.
La ragione è semplice: le storie di Vance tendono ad essere tutte piuttosto simili le une alle altre. Tutte o quasi condividono il medesimo canovaccio basilare sul quale poi si impianta la trama vera e propria, che però di volta in volta differisce solo in apparenza, per aspetti come l’ambientazione, le difficoltà che il protagonista deve superare ed altri elementi cosmetici; ma mai negli aspetti essenziali del mondo stolido che sembra avercela con l’eroe.
Nel primo articolo che, ancora diversi anni fa, ho dedicato a Vance mi sono quindi limitato ad elencare una bibliografia essenziale, senza nemmeno tentare di mettere assieme una classifica delle sue opere: mi rendevo conto che sarebbe stata volubile proprio perché le sue storie tendono ad essere piuttosto simili le une alle altre e quindi intercambiabili sulla base dei gusti e dell’umore del momento. Ad esempio, «La terra morente» occupa per me un posto speciale, perché è stato il primo libro che mi ha fatto scoprire questo autore così particolare; ma anche «Il grande pianeta» e, soprattutto, «Il mondo degli showboat», che è una specie di seguito del precedente, sono rilevanti, perché me l’hanno fatto amare; e così deve essere menzionato pure il ciclo del «Pianeta Tschai» o «Pianeta dell’avventura», perché ha consolidato il mio giudizio positivo su Vance e, nonostante parecchie uscite a vuoto, lo ha fatto diventare uno dei miei autori preferiti.
E questo è un elemento chiave: infatti, anche se non è la sua opera migliore, il «Pianeta Tschai» è la sua opera migliore, perché compendia tutti i suoi temi caratteristici e li mette in scena in un’ambientazione folle, creativa e lussureggiante che è il concentrato del suo «world building» più riuscito.
L’opera migliore di Jack Vance (e anche questo si può saltare)
Non sto dicendo che il «Pianeta Tschai» sia il suo capolavoro (anche perché non credo che ce ne siano) ma semplicemente che è la sua opera migliore, quella più caratteristica o rappresentativa, perché meglio di ogni altra sintetizza i temi e lo stile tipici di Vance: sono molte infatti le sue storie che si contendono questo titolo ma, come già visto, per Vance più che per ogni altro autore la scelta di questa o di quella dipende davvero dai gusti personali. La rappresentatività del suo modo di scrivere peculiare e dell’intera gamma o quasi di elementi riscontrabili anche nelle altre opere è invece un criterio già più oggettivo, anche se trattandosi di Vance pure questo è dibattevole: ma a mio parere quando si cerca l’epitome dello stile vanciano nessuno, come si vedrà, è all’altezza del «Pianeta Tschai».
Escludo così «La terra morente», il suo primo libro, che sarebbe l’ovvio favorito ma segue anche una strada differente da quella che l’autore californiano avrebbe preso negli anni successivi: e non prendo nemmeno in considerazione i due scialbi seguiti con le avventure di Cugel, che secondo alcuni sarebbero addirittura migliori dell’originale, perché pur creativi riescono fastidiosi a causa dell’ancora più fastidioso protagonista. Escludo anche il ciclo dei «Principi demoni», che molti altri ritengono il non plus ultra della produzione vanciana, perché sono storie «inamidate e lineari», come avevo scritto nella breve introduzione alla quale ho già fatto riferimento. E i due racconti che hanno vinto dei premi importanti, ossia «I signori dei draghi» e «L’ultimo castello», sono sì ottimi ma sono anche troppo brevi per essere presi come esempi caratteristici di un autore che ha scritto oltre cinquanta romanzi, senza contare un’infinità di storie brevi; mentre il ciclo di «Lyonesse», che pure ha vinto qualcosa, è tardivo e non presenta certo il miglior Vance, che purtroppo si è spento a partire dagli anni Ottanta.
A differenza della maggior parte degli autori, per i quali solitamente è facile individuare le due/tre opere più importanti, Vance arriva in una varietà di sapori e non tutti apprezzano gli stessi: mai come col californiano ho infatti riscontrato preferenze altrettanto discordanti tra gli appassionati, a dimostrazione che Vance stesso è l’incarnazione dei suoi stessi mondi, sempre così creativi, spropositati e variabili.
Non mi perdo nemmeno sulle posizioni di rincalzo: mi limito ad aver individuato l’opera migliore, nel senso della più rappresentativa, anche se poi il resto dell’eventuale classifica verrebbe occupato suppergiù dagli stessi libri che ho elencato in quell’altro articolo, con alcuni ritocchi che includono – probabilmente – l’aggiunta del citato «L’ultimo castello» e di un altro noto racconto, «L’uomo dei miracoli».
Ma in questo caso «probabilmente» è la parola chiave.
La recensione inizia qui
Veniamo così alla recensione vera e propria del ciclo del «Pianeta Tschai», che si compone di quattro libri scritti alla fine degli anni Sessanta: «Naufragio sul pianeta Tschai» (City of the Chasch, 1968), «Le insidie di Tschai» (Servants of the Wankh, 1969), «I tesori di Tschai» (The Dirdir, 1969) e «Fuga da Tschai» (The Pnume, 1970), pubblicati inizialmente come episodi singoli e poi per lo più raccolti in volume unico. In Italia i quattro libri sono arrivati pochissimo più tardi grazie ad Urania, che li ha tradotti e pubblicati già nel 1971 con i titoli appena elencati: da allora sono stati ristampati diverse volte, l’ultima delle quali nel 2016.
Accolta da subito con entusiasmo, in breve la serie è diventata uno dei classici del romanzo planetario o «planetary romance» (quel sottogenere della fantascienza che, come tradisce l’etichetta, ruota attorno all’esplorazione spesso forzata di un mondo alieno) perché contiene tutto quello che un lettore si aspetta di trovare in queste storie: un mondo abitato ma ancora in gran parte selvaggio; una natura intatta e minacciosa, meglio se lussureggiante e costellata di rovine di civiltà scomparse; tanti alieni, possibilmente ostili; il contrasto tra barbarie e supertecnologia, che spesso convivono l’una a fianco dell’altra; e poi misteri, sorprese ed avventura. Soprattutto avventura, che qui certo non manca, come suggerisce anche il nome alternativo del ciclo, noto appunto come «Pianeta dell’avventura»: e proprio con questo titolo (ma nell’originale inglese: «Planet of Adventure») nel 2003 è stato pubblicato anche un supplemento del Gurps, un gioco di ruolo versatilissimo ma piuttosto macchinoso, che riprende ed approfondisce l’ambientazione originale e rende così possibile creare avventure sul pianeta Tschai da vivere poi per il tramite dei propri personaggi.
Tornando ai romanzi, i quattro libri sono collegati l’uno all’altro e raccontano le avventure del terrestre Adam Reith, unico superstite del naufragio dell’astronave su cui era imbarcato, distrutta senza alcuna provocazione da un missile sparato dalla superficie del pianeta: la storia segue questo protagonista nel suo tentativo di mettere le mani su un’astronave che possa riportarlo sulla terra nonostante le infinite difficoltà che deve superare, causate in parte dalla natura ostile di Tschai, in parte dai costumi assurdi delle civiltà di uomini liberi che lo abitano, ed in parte dalla supponenza delle quattro razze aliene (di cui una sola indigena) in continua lotta tra di loro che si sono stabilite sulla superficie del pianeta – o sotto – e sfruttano gli umani, pure loro importati su Tschai dalla terra diverse decine di migliaia di anni fa.
Con le sue azioni Reith darà uno scossone all’equilibrio precario del pianeta e preparerà il riscatto degli umani che, s’intende, col sostegno della terra non saranno più un popolo sottomesso ma almeno pari alle altre specie.
Dati essenziali su Tschai, il pianeta
Il pianeta Tschai si trova a 212 anni luce dalla terra: ha un sole, Carina 4269, che proietta una luce gialla e attenuata con ombre ambrate; e due lune, Az e Braz, che mandano la prima una luce rosa, la seconda azzurra. Le terre emerse formano sei continenti, di cui tre di grandi dimensioni ed altrettanti più piccoli, separati da due grandi oceani ed una quantità di mari: tutti i continenti e le isole maggiori sono abitati. Per il resto è comparabile alla terra: ha aria respirabile ed acqua potabile, la stessa gravità ed un ciclo giorno/notte identico o non troppo dissimile da quello terrestre, doppia luna a parte: il suo anno invece è più lungo, pari ad una volta e un terzo quello terrestre (sui cinquecento giorni quindi), dato rilevante per un’informazione che viene fornita nel secondo volume.
L’arrivo dell’astronave di Reith infatti non è stato casuale: l’Explorer IV era stata mandata in esplorazione dalla terra, che aveva da poco ricevuto un segnale inviato proprio da Tschai più di due secoli prima o, secondo il diverso calendario locale, centocinquanta anni prima, quando in una zona del pianeta era fiorito un culto detto dei «Desideri Reflussivi». In altre parole, si trattava di una setta di umani convinti di essere figli delle stelle che in qualche modo avevano individuato nella costellazione di Clari (dove si trova la terra) il punto di origine della razza umana e avevano inviato un messaggio in quella direzione con una radiotrasmittente: ma la mancanza di una risposta immediata aveva presto fiaccato l’entusiasmo dei più, tanto che oggi i suoi pochi aderenti sono considerati dei pazzi.
Tschai ha una storia vecchia di almeno sette milioni di anni, perché a quell’epoca risalgono le testimonianze più antiche raccolte dai Pnume, la sola razza indigena, e conservate in quella sorta di museo sotterraneo della storia planetaria che chiamano Eternità: questo popolo insettiforme vede infatti il pianeta come un enorme palcoscenico su cui si svolge un dramma senza fine di cui gli «zuzhma katschai» (gli «antichi abitanti», i Pnume stessi) sono gli spettatori, e perciò seguono ogni evento con interesse, registrando ogni cosa, perché tutto è prezioso.
Nel corso di questa sua lunghissima storia il pianeta ha visto giungere e scomparire un gran numero di razze aliene: nell’oggi del romanzo ne rimangono tre, oltre ai citati Pnume, e tutte si servono degli umani come una sottorazza di schiavi orgogliosi della loro condizione di inferiorità rispetto ai padroni.
Gli alieni 1: i Chasch
La storia recente di Tschai, quella che interessa gli eventi del libro, risale a circa centomila anni fa, quando sono arrivati i Vecchi Chasch, una razza oggi decadente e priva di pietà che apprezza gli scherzi crudeli o mortali: vengono descritti simili a pesci grottescamente dotati di braccia e gambe, con la pelle incartapecorita pallidissima e ricoperta di piccolissime squame color avorio.
Diecimila anni più tardi sono arrivati anche i Chasch Blu, la sottospecie di Chasch divenuta dominante sul pianeta: ancora più malvagi dei Vecchi Chasch, hanno il cranio puntuto con la fronte sporgente, il fisico robusto e massiccio e un olfatto strepitoso; il loro corpo è inoltre rivestito di un esoscheletro chitinoso ricoperto di scaglie blu.
All’epoca Blu e Vecchi erano in guerra tra di loro ed usavano come truppe d’assalto un’altra varietà della loro specie, i Chasch Verdi, pure presenti sul pianeta: enormi e selvaggi – misurano sui due metri e mezzo d’altezza e tutto il corpo è forte e grosso in proporzione – hanno la fronte enorme, la faccia piccola e un’espressione maligna; sono inoltre coperti di squame di un lucente verde metallico. Mentre Blu e Vecchi vivono nelle loro città giardino, i Verdi sono nomadi frammentati in orde di diverse centinaia di individui ciascuna: paragonati a demoni per la loro ferocia, comunicano tra loro per telepatia.
I soli a servirsi degli umani però sono i Chasch Blu, che si fanno servire dai Sub-Chasch («Chaschmen» in inglese), tenuti a bada ed ingannati con la religione: infatti viene fatto loro credere che i Chasch Blu nascano dalla testa dei Sub-Chasch morti. Gli stessi riti funebri includono l’apertura del cranio dell’umano (dietro un apposito sipario) da parte di sacerdoti Chasch Blu con la successiva ostensione ai parenti del piccolo alieno che sarebbe spuntato dalla testa del morto. Ingannati dal miraggio della vita migliore che li attende dopo la morte, Sub-Chasch svolgono i compiti più gravosi e fanno di tutto per assomigliare ai loro padroni: indossano infatti abiti lavorati a scaglie e persino dei falsi crani a punta e sporgenti sulla fronte.
Gli alieni 2: i Dirdir
Tra i cinquanta e i sessantamila anni prima degli eventi narrati sono arrivati anche i Dirdir, che all’epoca erano in guerra con i Chasch: i Dirdir sono la razza più interessante e meglio descritta di tutto il ciclo, perché hanno una società curiosa, sono aggressivissimi e costituiscono una continua minaccia per tutti, anche se l’apparente equilibrio delle forze in campo costituisce un deterrente sufficiente per impedire il conflitto aperto tra le tre razze dominanti, in una trasposizione su scala galattica della guerra fredda.
Carnivori e cannibali, i Dirdir apprezzano la caccia ed in particolare la caccia agli umani, eredità delle loro origini ferine sul pianeta natale di Sibol: anche nell’aspetto ricordano dei predatori e persino il loro incedere viene paragonato a quello di un leopardo che procede eretto sulle zampe posteriori, quasi a balzi. Anche se hanno lineamenti che ricordano vagamente quelli umani, non possono essere confusi con gli uomini per due creste con antenne incandescenti che spuntano loro in cima alla testa e, sul davanti, si congiungono a formare una specie di naso.
Nonostante la loro crudeltà e bestialità, i Dirdir sono anche bersaglio dell’ironia più feroce delle altre razze -e sicuramente degli umani – per la loro complicatissima sessualità: infatti, sebbene abbiano solo due sessi, maschile e femminile, hanno anche dodici tipi di organi sessuali maschili e quattordici di femminili, distribuiti un po’ a caso. Solo determinate combinazioni maschio-femmina sono in grado di accoppiarsi tra loro ma, dato che il sesso ed il tipo sono tenuti segreti ed è considerato volgare renderli pubblici, tutto quello che ruota attorno al corteggiamento e alla sessualità costituisce un mistero tra i Dirdir: di conseguenza, vivono in continuo imbarazzo e diffidenza, costretti ad una vita isolata ed ossessionata dal dubbio. Questo secondo i loro apologeti spiegherebbe perché non siano ancora riusciti a dominare lo spazio.
I Dirdir sono stati i primi a portare gli uomini su Tschai come schiavi: da una serie di indizi Reith deduce che abbiano fatto almeno due visite alla terra, dalla quale sono ripartiti con una quantità di schiavi umani. Questi servitori si chiamano Sub-Dirdir («Dirdirmen» in inglese) e credono di essere una sottorazza deviata dei loro padroni, che si sono inventati la storiella dell’uovo cosmico per spiegare la differenza: le due specie sarebbero nate dallo stesso uovo ma mentre i Dirdir sono sbucati dalla sua parte esposta al sole, i Sub-Dirdir sarebbero invece nati dalla sua parte in ombra.
A differenza di Sub-Chasch, gli umani che servono i Dirdir possono raggiungere posizioni di un certo prestigio, anche se rimangono sempre inferiori ai Dirdir più potenti: e questi Sub-Dirdir, come gli Immacolati, possono persino accedere ad un tipo di chirurgia che ne modifica gli attributi sessuali e li trasforma in uno di otto tipi, requisito fondamentale per essere fatti partecipi dei segreti e portare il prestigioso Blu e Rosa. Proprio un incidente in questo campo avrebbe costretto ad una fuga precipitosa Anacho, uno dei due nuovi amici e compagni del protagonista.
Gli alieni 3: i Wankh
Infine, circa diecimila anni fa, sono arrivati anche i Wankh (poi diventati Wannek per evitare un imbarazzante equivoco nel gergo inglese), anche loro in seguito ad un conflitto con i Dirdir: delle tre razze aliene allogene presenti sul pianeta, i Wankh sono i più misurati e, mi spingerei a dire, anche i più ragionevoli. Si trovano infatti sui Tschai soprattutto per fare un dispetto ai Dirdir ed occupano solo una piccola parte della sua superficie: sono un popolo di scienziati ed inventori prima di tutto, che si esprimono in una lingua musicale o, meglio, mediante vibrazioni che il loro cervello traduce in immagini e concetti. Persino la loro arte e la loro scrittura appaiono come simboli che possono essere «visti» e interpretati mediante le vibrazioni, dal momento che non sono dotati di vista.
Di aspetto i Wankh appaiono umanoidi ma sono più grandi di un uomo: hanno un torace massiccio ed una testa piatta, le gambe tozze ed i piedi palmati, perché sono una razza anfibia. Sono di colore nero e non indossano abiti, se non accessori cerimoniali in determinate occasioni.
Anche loro si servono degli umani, i Sub-Wankh («Wankhmen» in inglese), che traggono enorme vantaggio dalla loro condizione: unici tra gli schiavi degli alieni, i Sub-Wankh sfruttano infatti i loro padroni per spingerli a fare quello che essi (i Sub-Wankh) desiderano. Vista l’impossibilità di comunicazione tra i Wankh e le altre razze, in particolare gli umani che lavorano per loro, il compito principale dei Sub-Wankh è di porsi da intermediari come interpreti e traduttori: per questo sono addestrati a comprendere le vibrazioni dei loro padroni ed utilizzano speciali pianole per esprimersi in modo chiaro ai loro signori.
Tuttavia abusano di questo loro potere e della fiducia che i Wankh ripongono in loro: soprattutto, temono il cambiamento, perché comporta il rischio di perdere la loro posizione privilegiata, e quindi mentono spudoratamente agli alieni, ai quali passano solo le informazioni che vogliono e nel modo che viene a loro vantaggio. Così è per loro intercessione che l’Explorer IV, la nave di Reith, viene distrutta da un missile lanciato proprio dai Wankh: tuttavia Reith riuscirà a smascherare i complotti dei Sub-Wankh ed agirà in modo tale per cui i loro padroni, resisi conto di essere stati raggirati per tanto tempo, decideranno di disfarsi completamente dei loro servitori.
Gli alieni 4: i Pnume
Come visto, i soli alieni indigeni di Tschai sono i Pnume, una razza misteriosa che ama la segretezza in modo compulsivo e raccoglie memorie di tutto ciò che avviene sul pianeta: un tempo vivevano sulla superficie ma l’arrivo di sempre nuovi visitatori che si stabilivano su Tschai li ha spinti a rifugiarsi sottoterra, dove nei millenni hanno scavato un intrico di insediamenti, gallerie e passaggi segreti noti solo a loro, e a volte persino solo ai gradi più elevati della loro gerarchia. Gli abitanti di Tschai ritengono che questa rete di gallerie percorra l’intero pianeta: gli ingressi in superficie sono nascosti e ben dissimulati e, qualora ne venga scoperto uno per caso, i Dirdir sono lestissimi a pomparvi dentro gas letali o altre amenità.
Simili d’aspetto a cavallette, camminano eretti, sono ricoperti di piastre chitinose e hanno una forza prodigiosa: indossano inoltre un manto nero ed un cappello a tesa larga, pure di colore nero, che pare serva per proteggerli dalla vista del cielo al quale non sono più abituati. I Pnume hanno inoltre una sottoclasse di emarginati, i Phung: considerati pazzi, sono individui solitari che abbandonano le gallerie e percorrono la superficie del pianeta, il cosiddetto «ghaun», dove attaccano ogni creatura vivente che incontrano, dopo averci giocato un po’ come un gatto col topo. Sono così pericolosi e micidiali che a Reith basta provocarne uno – tenendosi ben nascosto – perché questo aggredisca a vista e tolga di mezzo un gruppo di cinque cacciatori Dirdir che erano sulle sue tracce.
Come le altre specie, anche i Pnume hanno una razza di servitori umani, i Pnumekin: esseri miserevoli e grotteschi, vestono come i loro padroni, che cercano di imitare in tutto, anche nel modo di camminare. Vengono tenuti sotto controllo mediante una droga mescolata al cibo, il diko, che elimina ogni emozione ed ogni altro impulso umano: così non socializzano, non formano famiglie o gruppi né comunicano direttamente tra loro ma evitano persino di incrociare lo sguardo; e quando si tratta di parlare non si rivolgono direttamente all’interlocutore ma paiono rivolgersi all’aria, semplicemente affermando dei dati di fatto. I Pnume esercitano inoltre un ferreo controllo delle nascite: scelgono le donne umane che giudicano più adatte a generare figli a ciclo continuo e le imbrigliano in speciali ambienti dove vengono tenute per tutta la vita come delle formiche regine.
Anche i Pnumekin hanno una loro sottoclasse di emarginati, gli Gzhindra, i servitori umani dei Pnume che per una ragione o per un’altra hanno abbandonato il sottosuolo e vivono in superficie: a loro è proibito fare ritorno nelle gallerie ma è di loro che i Pnume si servono come agenti nel «ghaun». Come i Pnumekin, continuano a indossare il mantello ed il cappello nero che li rendono immediatamente riconoscibili ma non se ne curano, perché sembrano comparire e scomparire all’improvviso.
Gli umani di Tschai
Gli umani sono dunque giunti su Tschai circa sessantamila anni prima dell’attualità del libro, condotti come servi dai Dirdir: nel corso dei millenni tuttavia alcuni di essi sono stati catturati dalle altre razze aliene e ne sono diventati gli schiavi mentre altri sono riusciti a conquistare la libertà e l’indipendenza. Così oggi si trovano umani – e in quantità – su tutti i principali continenti del pianeta, e dappertutto hanno costituito delle comunità, alcune più primitive (come le tribù nomadi della Steppa Morta, i furbi e crudeli uomini delle paludi che abitano su zattere, i cannibali di Rakh e di Kislovan, i Khor dalla doppia anima o personalità), altre più civili o sofisticate, come gli imbelli Yao del Cath, che costituiscono la quintessenza delle società ottuse, affettate e assurde tipiche di Vance, o i Lokhar del Kachan, nomadi che si tingono la pelle e i capelli con sostanze grasse ma lavorano negli spazioporti dei Wankh come abili meccanici.
Per una singolarità che si spiega con le necessità narrative, tutti gli umani in qualunque parte del pianeta parlano la stessa lingua, l’unica cosa che unisca davvero gli abitanti di Tschai. Lo stesso Reith ad un certo punto se ne domanda la ragione e trova anche la risposta: «Il fatto che su un pianeta così grande, dove spesso le comunicazioni erano difficili, se non inesistenti, tutti gli uomini parlassero il medesimo idioma, si spiegava forse col fatto che, su Tschai, vita e morte erano molto più vicine che sulla Terra, e spesso bastava capirsi o non capirsi perché succedesse l’irreparabile. Era dunque l’istinto vitale che aveva mantenuto, attraverso tanti secoli, luoghi e vicende, intatta e uguale ovunque la stessa lingua».
Inoltre, altro fatto sorprendente, tutti sembrano conoscere molto bene sia la geografia del pianeta sia gli usi e costumi delle diverse popolazioni che lo abitano, anche le più distanti: infatti, anche se su Tschai tutti si detestano e cercano di ammazzarsi a vicenda, i suoi abitanti mantengono comunque stabili rapporti commerciali tra di loro; persino gli alieni, che alimentano una specie di guerra fredda per il sostanziale equilibrio delle loro forze ma sono disposti a qualche scambio saltuario con i rivali, quando non sono impegnati a spararsi reciprocamente dalle zattere volanti che si incrociano nei cieli.
Della grande varietà di popoli umani, solo alcuni hanno un ruolo nella storia: i più rilevanti sono senza ombra di dubbio i Kruthe o Uomini Emblema, la tribù nomade con cui Reith si imbatte non appena tocca il suolo di Tschai. Caratterizzati appunto ciascuno da un diverso emblema che sfoggiano sul copricapo, così importante per loro che determina lo stato sociale e persino il comportamento di chi lo porta (tipico tocco vanciano), sono guidati da un adolescente, Traz Onmale, dove «Onmale» è il nome del simbolo che determina il capotribù, scelto sempre tra i giovanissimi: in realtà però sono retti da un manipolo di sciamani, che sfruttano la creduloneria della tribù per manipolarla e fingono di obbedire a un capo apparente solo per avere un capro espiatorio quando le cose si mettono male e occorre scaricare su altri la colpa della cattiva fortuna. È proprio grazie ad una permanenza forzata tra gli Uomini Emblema che Reith apprende la lingua parlata sul pianeta e si fa amico Traz, che diventa il suo primo e più fidato compagno di viaggio.
L’altra cultura umana di una certa importanza nel ciclo è quella degli Yao del Cath, la società di uomini più avanzata tecnologicamente: tuttavia sono un popolo tutto azzimato che valuta l’apparenza più della sostanza e la forma più delle azioni, in una parodia di tutto ciò che sa di barocco, dagli abiti frufrù all’etichetta complicatissima, un altro tocco caratteristico dell’autore. Questo popolo è il responsabile del segnale mandato alla terra centocinquanta anni locali prima ed è qui che Reith si dirige nella speranza di trovare aiuto per costruire l’astronave che lo riporti sulla terra: ma farà un buco nell’acqua, perché il culto che aveva ispirato l’invio di quel segnale è caduto in disgrazia, farne parte è considerato di cattivo gusto ed i suoi pochi membri sono solo dei pazzi.
Forse anche per questa ragione nessuno crede che Reith venga davvero da un altro pianeta, sebbene il suo aspetto sia così strano da rendere difficoltoso collocarlo in questa o quella fetta del pur vastissimo campionario di umanità che popola il pianeta.
Protagonisti…
L’unico protagonista della storia è Adam Reith, terrestre sui trent’anni abbondanti, unico superstite del naufragio della nave Explorer IV, mandata dalla terra per indagare un segnale partito oltre duecento anni prima: Reith, l’esploratore della spedizione, si è appena staccato dalla nave madre con la sua navetta per scendere sul pianeta quando un missile lanciato dai Sub-Wankh distrugge l’astronave, causando così una serie di problemi di assetto alla navicella che, scagliata nell’atmosfera del pianeta, finisce fuori controllo e si schianta. Entrambi i piloti si salvano ma il compagno di Reith viene scovato per primo dagli Uomini Emblema, che lo uccidono prima ancora che il loro capo possa intervenire: Reith invece si salva perché si era espulso prima dell’impatto ed il sedile col paracadute al quale è legato si era impigliato nei rami di un albero poco distante.
Soccorso alla fine pure lui (non poteva liberarsi da sé perché nella caduta si è spezzato entrambe le braccia), per ordine del capo viene curato dalla tribù: ma dopo qualche tempo è costretto alla fuga, quando gli sciamani che realmente controllano gli Uomini Emblema fanno ricadere su Traz la colpa del fallito saccheggio di una carovana, e così rischia di perdere il suo unico protettore, che invece convince a mettersi in salvo con lui.
Reith è il classico protagonista delle storie di Vance: insopportabile ma sicuro di sé ed estremamente competente; incapace di sopportare l’autorità, le prepotenze ed i soprusi, sa pensare fuori dagli schemi e trovare rapidamente la soluzione o la via di fuga di cui ha bisogno. A partire dal secondo libro però gli aspetti più spigolosi del suo carattere si attenuano e così all’improvviso Reith diventa meno saccente e più gradevole.
Il buon esito delle sue avventure sul pianeta però non sarebbe possibile senza l’aiuto di due compagni fidatissimi: il già citato Traz (senza più l’Onmale, che ha seppellito prima di fuggire), taciturno e leale, ed un Sub-Dirdir in fuga, Ankhe-at-afram-Anacho (più semplicemente, Anacho), che i due incontrano nelle rovine di una città agli inizi delle loro peregrinazioni e salvano dall’aggressione di un Phung nonostante il parere contrario di Traz. Come loro, anche Anacho è un fuggiasco, costretto a lasciare precipitosamente il suo popolo, la sua posizione di spicco e la sua discreta fortuna per un’offesa capitale recata ad un potente.
Entrambi saranno utili a Reith sia per mettere in esecuzione i suoi piani sia per guidarlo via via nelle nuove regioni del pianeta in cui lo conduce la sua ricerca di un’astronave: ma all’inizio del quarto libro una piega inaspettata degli eventi taglia fuori Traz ed Anacho, che non compariranno più sino alla fine.
…comprimari…
Lungo la strada a Traz ed Anacho si aggiungono i diversi comprimari con cui Reith entra in contatto, solitamente per breve tempo, che vengono introdotti per lo più per pilotare le sue azioni in una certa direzione: tra tutti vanno menzionati soprattutto i due personaggi femminili con cui il protagonista intrattiene una love story, Fiore di Cath e Zith Athan Pagaz 210 (in pratica il suo indirizzo), detta Zap 210 dalle iniziali.
La bellissima Fiore di Cath (uno dei suoi tanti nomi, l’uso dei quali varia in base a diversi fattori chiari solo al suo popolo di imbelli) è una Yao di cui Reith si innamora nel primo libro: Fiore è prigioniera delle sacerdotesse del Mistero Femminile, un culto di bruttone femministe che odiano gli uomini e ancor più le belle donne. La salva anche dal sacrificio al quale sarebbe destinata e, all’inizio del secondo libro, la riporta a casa: ma lungo il viaggio Fiore, che via via si era chiusa sempre più in se stessa, perde la testa e cerca di uccidere Reith, per poi gettarsi nel mare ed uscire così di scena. Visto il cambio repentino di carattere, probabilmente Vance si era stancato di lei e non sapeva più come impiegarla nel resto della storia.
Zith Athan Pagaz 210, che il protagonista abbrevia in Zap 210, è invece una Pnumekin in cui Reith si imbatte mentre cerca di evadere dalle gallerie dei Pnume: costretto a sequestrarla brevemente per non essere scoperto, approfitta dell’incontro per chiederle anche alcune informazioni sul modo di togliersi dai guai e tornare in superficie. Nonostante un certo timore, la ragazza collabora più di quanto Reith si aspettasse: ritiene infatti che in caso di cattura riceverà comunque una delle spaventose punizioni dei Pnume e così, rassegnata a diventare suo malgrado una Gzhindra, aiuta il protagonista a lasciare quel mondo sotterraneo e lo segue pure all’esterno, anche se l’aperto le fa paura. Durante il lungo viaggio Zap si disintossica dal diko, la droga con cui i Pnumekin vengono tenuti obbedienti, e sotto i raggi del sole la sua pelle pallidissima prende finalmente colore: lei stessa abbandona i suoi pregiudizi e alla fine di una lunghissima avventura si lega a Reith, assieme al quale torna pure sulla terra.
Dei restanti comprimari solo Zarfo Detwiler (il Lokhar che guida Reith e compagni nel tentativo fallito di rubare un’astronave dei Wankh) e Deine Zarre (il capomeccanico che successivamente sovrintende ai lavori di riarmamento di un’astronave Dirdir rottamata con cui Reith è deciso a tentare il viaggio di ritorno a casa) meritano una menzione, perché restano in scena più a lungo degli altri e rivestono un ruolo essenziale, in particolare il secondo, che però viene ucciso quando vuole vendicare l’assassinio dei nipotini da parte di uno degli antagonisti della storia.
…e antagonisti
La trama è abbastanza lunga per non doversi concentrare su un unico antagonista: anzi, a voler ben vedere non ci sono nemmeno antagonisti nel senso stretto, dato che i personaggi negativi che appaiono qua e là scompaiono presto e sono per lo più espedienti narrativi per portare avanti la storia. L’unico che operi apertamente contro il protagonista è il viscido Aila Woudiver, un grasso commerciante della città Sub-Dirdir di Sivishe che compare nel terzo e quarto libro, disposto a collaborare con Reith finché questi ha denaro per pagarlo e poi prontissimo a tradirlo, dapprima consegnando lui ed il suo amico Anacho alla giustizia degli alieni e poi stipulando un patto con i Pnume per il tramite degli Gzhindra, che infatti una notte si presentano al capannone dove l’astronave è quasi terminata e si portano via il protagonista. Il giusto castigo arriverà durante l’assenza di Reith: Woudiver viene catturato dai Dirdir per i suoi traffici illeciti e condannato a fare da preda in una battuta di caccia analoga a quella alla quale erano già stati condannati Reith ed Anacho.
L’altro antagonista di cui meriti fare il nome è Helsse di Izam, segretario del padre di Fiore di Cath al Palazzo di Giada Blu nella città di Settra, che a lungo pare servizievole: tuttavia è un agente Sub-Wankh sotto mentite spoglie e, si scoprirà, è lui a tramare nell’ombra gli ostacoli e i tentativi di assassinio con cui Reith è costretto a fare i conti, dall’arrivo a Cath sino al fallimento del tentativo di rubare una nave Wankh e alla fuga precipitosa dalla cittadella degli alieni, dove probabilmente Helsse sta pagando il fio delle sue azioni assieme agli altri Sub-Wankh.
Per il resto, si tratta sempre di piccoli ostacoli che di volta in volta si presentano sul cammino del protagonista e che scompaiono con la stessa rapidità con cui si sono presentati: tra questi, la minaccia maggiore è senza dubbio quella rappresentata dai Dirdir, l’unica razza aliena che da un certo punto in poi operi apertamente contro Reith. Ma nonostante la potenza che quel popolo potrebbe mettere in campo il pericolo rimane sempre piuttosto circoscritto e non supera mai le risorse alle quali Reith può attingere, da solo o con l’aiuto dei suoi alleati.
Il pianeta dell’avventura
Arrivo così finalmente alla storia in sé, della quale ormai molto è già stato rivelato: per comodità di consultazione suddivido il sommario in quattro parti, corrispondenti ciascuna ai contenuti di un libro della serie. Laddove lo ritengo necessario però anticipo o posticipo alcune parti per rendere più comprensibili gli eventi. Ogni volume della serie conta sulle centocinquanta pagine.
1) Naufragio sul pianeta Tschai (City of the Chasch, 1968)
Mandata ad indagare un segnale inviato 212 anni luce prima, la nave terrestre Explorer IV è appena entrata nell’orbita del pianeta da cui quell’impulso era partito quando viene distrutta da un missile sparato dalla superficie: non ci sono superstiti, a parte Adam Reith ed il suo compagno, i due esploratori della spedizione, che stavano giusto per scendere sul pianeta per un sopralluogo.
La loro navicella si è appena staccata dallo scafo quando l’Explorer viene colpita dal missile: l’onda d’urto rende ingovernabile il velivolo e solo con difficoltà gli esploratori riescono a toccare terra senza sfracellarsi, anche se nel disastroso tentativo di atterraggio la navetta si danneggia seriamente. I due piloti si scagliano fuori dall’abitacolo all’ultimo momento: nella caduta Reith si impiglia nei rami di un albero e si spezza le braccia, il compagno rimane invece a penzolare fuori dall’abitacolo. Poco dopo arrivano degli umani barbarici, che uccidono il compagno a vista e poi fuggono quando sopraggiungono gli scafi volanti di due diverse razze aliene a contenderselo, i Chasch Blu prima ed i Dirdir poi: alla fine i Chasch costringono i Dirdir alla fuga e si portano via il relitto. Quando gli alieni se ne vanno, Reith, impossibilitato a liberarsi da sé per via delle braccia fratturate, riesce ad attirare l’attenzione dei barbari e poi sviene.
Preso come schiavo da questi nomadi, gli Uomini Emblema, durante la convalescenza Reith impara lingua e costumi dei barbari (per sua fortuna sul pianeta la lingua è universale) e si ritaglia anche un posto nella tribù, nonostante l’ostilità di tutti tranne del loro giovane capo, Traz Onmale, un adolescente: ma alla fine deve scappare assieme a Traz – senza più l’Onmale – quando la fortuna di questi svanisce.
Decide quindi di puntare a nord ovest, verso la città di Dadiche, dove gli strumenti del suo kit di sopravvivenza indicano che i Chasch hanno portato il relitto della navicella: ha infatti in mente di impadronirsene in qualche modo per fare ritorno a casa. Ma il territorio dei Chasch è lontano, al di là della pericolosa e sterminata Steppa Morta.
Presto ai due pellegrini si aggiunge un nuovo compagno, un Sub-Dirdir fuggiasco di nome Anacho, che Reith salva dall’aggressione di un Phung, un’altra sottorazza di alieni: da costui Reith apprende i primi elementi di storia e politica planetarie, dall’arrivo dei Vecchi Chasch centomila anni prima all’interesse sempre attuale dei Pnume per tutto quello che avviene sulla superficie. Anacho spiega anche la storia locale degli uomini, che sono arrivati sul pianeta sessantamila anni prima come schiavi dei Dirdir: ma poi col tempo alcuni sono stati catturati dalle altre specie aliene, che li hanno trasformati nelle loro sottorazze di servitori; altri si sono invece conquistati la libertà e hanno fondato le centinaia di società differenti e per lo più folli che fioriscono sul pianeta, tutte abbastanza barbariche o arretrate rispetto agli alieni. Una caratteristica comune all’intero ciclo infatti è proprio il contrasto tra la supertecnologia e la barbarie che convivono fianco a fianco.
A metà strada i nostri si uniscono ad una carovana che procede nella loro direzione verso la città umana di Tera (Pera in inglese): in un carro Reith scorge la bella prigioniera di un manipolo di monache femministe, le solite virago che odiano gli uomini e ancor più le belle donne, che stanno conducendo la ragazza al loro Monastero del Mistero Femminile per usarla in un rito particolarmente cruento. Reith tenta di salvare la prigioniera a più ripetizioni e alla fine ci riesce, mettendo allo stesso tempo fine al culto perverso delle monache.
La ragazza si chiama Fiore di Cath o Ylin Ylan (ma ha anche molti altri nomi, il cui uso dipende dalle circostanze e da altri fattori dettati dall’etichetta) e proviene dalla società umana più sviluppata del pianeta, quella degli Yao, che però si trova su un altro continente: Reith confida di ottenere aiuto dal nobile padre di lei e così le promette di riportarla a casa, ma solo dopo aver recuperato la sua navicella. E così lungo la strada si accende la scontata storia di baci tra i due.
Giunto a Tera, la destinazione della carovana, Reith mette ordine anche qui prima di dedicarsi finalmente all’esplorazione di Dadiche, la città dei Chasch Blu che si trova non molto distante: a Tera abbatte il tirannuccio locale ed i suoi prepotenti tirapiedi e li sostituisce con un governo democratico, a capo del quale i cittadini eleggono lo stesso protagonista.
Il finale del libro descrive l’inasprimento dei rapporti con i vicini Chasch Blu: rappacificata Tera, Reith si infiltra nella città di Dadiche e in un capannone scorge il relitto della sua navicella ma viene scoperto quasi subito ed è costretto alla fuga. Ripara così a Tera, dove l’indomani arrivano alcuni dignitari alieni per catturarlo, ma lui e i suoi oppongono resistenza ed ammazzano tutti: poi, il giorno dopo, Reith guida la neocostituita milizia di Tera, armata per lo più di armi bianche, alla vittoria contro una spedizione punitiva dei Chasch Blu, che avevano sottovalutato le capacità degli umani e vengono travolti dal genio tattico del terrestre.
Offesa nel suo orgoglio, Dadiche chiama a raccolta tutte le sue forze, zattere volanti e carri armati inclusi, e le manda contro gli umani, contando in una vittoria decisiva: ma Reith sconfigge gli alieni ancora una volta e senza nemmeno sparare un colpo. Sfrutta semplicemente l’odio tra i Chasch Blu ed i terribili Chasch Verdi nomadi, che riesce ad attirare sul percorso della colonna di aggressori: a tutto il resto pensano le orde dei Verdi. Così, rimasta sguarnita, Dadiche cade facilmente.
Ma una brutta sorpresa attende Reith: infatti, quando prende finalmente possesso del capannone in cui aveva scorto il relitto, scopre che lo scafo è stato svuotato completamente ed il motore smontato pezzo per pezzo. La navicella è ormai inservibile.
Anche se non sa darsi pace per aver perduto il modo di tornare sulla terra, Reith si consola con Fiore di Cath. Ed intanto cerca di far capire agli uomini soggiogati dagli alieni che non sono inferiori a nessuno, nemmeno ai loro «padroni» alieni.
2) Le insidie di Tschai (Servants of the Wankh, 1969)
Quando la storia si apre, qualche tempo gli eventi del libro precedente, i tre protagonisti e Fiore di Cath stanno sorvolando la pianura orientale per riportare quest’ultima a casa: la ragazza però non è più la stessa che aveva amato Reith ma è triste, con la mente distante, e non si interessa più al protagonista. Secondo Anacho una ragione c’è: non sa come giustificare i suoi accompagnatori al suo popolo tutto azzimato e affettato, del quale teme il giudizio. Soprattutto ha paura di ciò che gli Yao potrebbero pensare di Reith, perché è chiaro che è un pazzo e quindi la sua compagnia le farebbe fare una cattiva figura.
La zattera volante però si rompe e così il gruppo è costretto a cambiare programma: si imbarcheranno a Coad e raggiungeranno il Cath per mare. Ma a Coad si imbattono in Dordolio, un ridicolo cavaliere Yao che stava cercando Fiore, uno dei dodici che avevano giurato di riportarla a casa: ma lo fa solo per la ricompensa che il padre ha promesso, anche perché, si scoprirà, le due casate alle quali appartengono si odiano a morte.
Oltre che comico, Dordolio è anche un personaggio abbastanza fastidioso e dà subito un assaggio della società Yao, che guarda più l’apparenza della sostanza: dopo le inevitabili incomprensioni e rivalità tra Reith ed il cavaliere, accresciute dall’interesse che Fiore mostra per l’elegante Dordolio, la situazione esplode durante la navigazione, quando Fiore impazzisce perché ritiene di essere stata disonorata dal comportamento del terrestre. Così, dopo aver tentato di uccidere tutti, la ragazza si getta in mare e scompare per sempre.
Il gruppo prosegue comunque nel viaggio, perché Reith è deciso a chiedere aiuto al padre di Fiore per costruire un’astronave che lo riporti a casa: ma se prima era una cattiva idea (già a Coad Anacho, che conosce gli abitanti di Tschai meglio di Reith, aveva suggerito di lasciarla tornare a casa da sola), adesso è semplicemente stupida. Ma Reith non lo capisce e rimane aggrappato al progetto originario.
Per farla breve, il piano fallisce su tutta la linea: sebbene abbastanza progredito tecnologicamente, il Cath non può essere di alcun aiuto ai nostri per l’importanza spropositata che gli Yao danno all’apparenza e al superficiale, che li rende incapaci di qualsiasi progetto a lungo termine. Eppure proprio da qui era partito, centocinquanta anni prima, il segnale che ha poi messo in moto la spedizione esplorativa terrestre: quel culto esiste ancora ma i suoi ultimi e pochi adepti sono dei pazzi.
Anche l’incontro col padre di Fiore non va come Reith sperava (ma sempre meglio di quanto fosse lecito attendersi) ma serve per metterlo in contatto con Helsse di Izam, il segretario del nobiluomo, che sembra essergli amico e volerlo agevolare: con la sua assistenza il protagonista mette così assieme un piano alternativo, che include l’arruolamento di un certo Zarfo Detwiler ed il furto di un’astronave dei Wankh, un’altra razza aliena stabilitasi nel continente a sud del Cath. Ma prima di poterlo attuare Reith corre il rischio di essere ucciso più volte: Helsse infatti è in realtà un agente Sub-Wankh infiltrato e ha intuito che Reith rappresenta un pericolo per i suoi consimili, così organizza l’assassinio del terrestre. Ma, trattandosi della società barocca del Cath, l’omicidio non può che richiedere un cerimoniale complicatissimo che necessita anche della collaborazione della vittima: il tentativo di assassinio ovviamente fallisce ma Reith e compagni sono costretti a fuggire per evitare guai giudiziari con la gilda degli assassini, che si ritiene parte offesa, e si tirano dietro anche Helsse.
Questo nuovo viaggio spinge i nostri a sud prima lungo un fiume e poi in una palude, dove Helsse scompare, per riapparire all’improvviso solo quando il gruppo raggiunge la sua destinazione, la città portuale di Kabasas: ma è un’altra persona, una specie di automa privo di vita, perché probabilmente è stato rapito e condizionato dai misteriosi Pnume. Tuttavia i nostri non ricevono noie da Helsse che si limita a seguirli e così possono imbarcarsi per raggiungere il Kachan, il continente meridionale dove si trovano le basi dei Wankh.
Attraversato il mare, a Smargash, la cittadina natale di Zarfo, Reith assolda altri cinque tecnici Lokhar disposti a seguirlo per denaro: e ritrova anche Hessle che, con l’aiuto di uno sciamano zingaro, riesce a interrogare sotto ipnosi, toccandogli il naso con le dita (gesto importante per il finale del libro). Così scopre la sua vera identità.
Il furto dell’astronave riesce (con un ospite inatteso a bordo: un Wankh di alto rango) ma è di un modello sconosciuto ai Lokhar, che non sanno pilotarla e dopo pochi minuti devono tornare a terra, piombando in un grande lago nei pressi di un’altra città fortificata degli alieni. Vengono subito catturati e stanno per essere giustiziati sul posto dai Sub-Wankh quando questi vengono bloccati da un ordine del Wankh che si era trovato a bordo dell’astronave al momento del furto.
Negli sviluppi successivi, il gruppo viene interrogato dai Wankh, incluso quello di alto rango, che però non parlano la lingua terrestre e si esprimono solo per note musicali: si servono quindi dei Sub-Wankh come interpreti e traduttori ma questi approfittano del ruolo per trasmettere, distorta, solo quella parte di informazioni che desiderano. Così fanno anche con Reith e compagni: ma uno dei traduttori è Helsse e quando Reith gli tocca il naso e gli ordina cosa riferire ai Wankh questi non può fare a meno di obbedire, per il comando ipnotico che gli era stato impiantato dallo sciamano zingaro.
Così i Wankh scoprono un’infinità di cose che non sapevano, fanno giustiziare i Sub-Wankh infedeli e in sostanza rendono possibile la fuga di Reith e compagni, che una volta salvi decidono la prossima mossa: comprare un’astronave usata al mercato delle occasioni di Sivishe, nella zona di influenza Dirdir.
Perché Anacho non ci avesse pensato prima rimane un mistero.
3) I tesori di Tschai (The Dirdir, 1969)
Fallito il tentativo di rubare una nave dei Wankh, Reith e soci tornano a Smargash, la cittadina dei Lokhar: durante una fiera però Reith si accorge di essere spiato dagli agenti umani dei Dirdir, così fugge con Traz ed Anacho proprio mentre l’aeronave con cinque cacciatori alieni atterra in città.
Tuttavia l’inseguimento si conclude in tempi brevi: Reith e soci la cavano solo perché, per sfuggire ai Dirdir, si rifugiano di nascosto nella caverna di un Phung, che pungolano finché questi non attacca i cinque alieni e li ammazza tutti. Così i nostri si impadroniscono dell’aeronave dei Dirdir, con la quale volano nel continente del Kislovan, prima per accumulare denaro, poi per spenderlo nell’acquisto di un’astronave.
La destinazione è il territorio del Karabas, la zona di caccia dei Dirdir, dove crescono i noduli di crisospina da cui si ricavano gli zecchini, la moneta locale: in sostanza, gli umani accettano il rischio di essere cacciati dagli alieni ed in cambio possono tentare la fortuna.
Reith però ha escogitato un piano alternativo: invece di cercare i noduli, che sono difficili da trovare, loro tre si accamperanno vicino alla città di Khusz, da dove partono tutte le spedizioni di caccia, e attaccheranno le squadre Dirdir al rientro, perché solitamente gli alieni portano con sé anche i noduli che hanno trovato addosso alle prede umane. In pochi giorni fanno una strage: e mettono da parte più di duecentomila zecchini, nascondendo lì vicino i noduli di minor valore che non riescono a trasportare.
Con questa fortuna raggiungono finalmente la città Sub-Dirdir di Sivishe, dove si tiene un mercato delle astronavi usate: ma le cose si mettono male da subito e così sono costretti a rivolgersi ad un intermediario, Aila Woudiver, che è un delinquente. Col suo costosissimo aiuto tuttavia partono i lavori di assemblaggio di un’astronave con componenti vecchi o usati, sotto la direzione di un certo Deine Zarre: ma Aila rincara ogni spesa e Reith, che se n’è accorto, entra subito in conflitto con lui.
La situazione esplode quando il terrestre, che ha ormai bruciato tutti i duecento zecchini per pagare Woudiver, prende l’aeronave per tornare nel Karabas e recuperare i noduli che aveva nascosto: ma qui se la vede brutta, perché i Dirdir, che già sospettavano qualcosa (e per qualche ragione ritenevano colpevole proprio lui), hanno appena scoperto la fossa comune in cui Reith e soci avevano gettato i corpi degli alieni uccisi.
Quando finalmente il protagonista torna a Sivishe la situazione è precipitata: i Dirdir hanno catturato Anacho, che è stato riconosciuto e condannato per i delitti a causa dei quali era fuggito all’inizio del primo libro. La punizione è fare da preda durante la caccia rituale nel Cubo di Vetro, un’enorme arena che riproduce l’ambiente del pianeta natale dei Dirdir, dove appunto gli alieni possono cacciare i condannati per guadagnare onore.
Reith organizza un salvataggio al volo (si getta nell’arena ed ammazza con la pistola i Dirdir che attaccano lui o Anacho, violando la regola che proibisce l’uso delle armi ad energia) e poi fugge con l’amico attraverso il varco aperto da un paio di bombe fatte esplodere al momento opportuno.
I problemi con Woudiver però non sono ancora risolti e così per chiarirli si reca a casa del delinquente. Ma al cancello si imbatte in Deine Zarre, che pure ha un conto in sospeso con lui: Woudiver ha infatti disposto l’assassinio dei suoi due nipotini orfani. La sortita fallisce, Zarre viene ucciso e Reith e soci catturati, per essere poi consegnati ai Dirdir, che riconoscono l’eroe colpevole dell’evasione di Anacho e delle morti nel Karabas: ma quando il terrestre invoca il diritto alla difesa per combattimento ed uccide o costringe alla resa via via tutti i giudici e gli accusatori, viene lasciato libero assieme ai suoi compagni.
Così può tornare al capannone e terminare la costruzione dell’astronave: ma, invece di ascoltare il parere di Traz ed Anacho, che consigliavano l’esecuzione immediata di Woudiver, Reith decide di tenere prigioniero il delinquente, che crede di poter controllare tenendolo legato ad una lunga catena. Per poterlo sorvegliare, crede lui. Se solo li avesse ascoltati!
4) Fuga da Tschai (The Pnume, 1970)
Il quarto ed ultimo libro è anche il più fiacco della serie, perché si incastra solo a metà nella storia: di per sé sarebbe un ottimo romanzo ma nell’insieme fatica ad armonizzarsi col resto dell’intreccio. Qui cambia il passo, escono di scena i due compagni di Reith e la narrazione diventa più lineare, ricorda quasi il procedere a episodi delle avventure di Cugel, che non sono proprio le mie preferite.
L’astronave è quasi finita. Woudiver è sempre prigioniero di Reith e soci ma, pur legato ad una catena nel capannone, abbastanza libero di muoversi: e approfitta di questa libertà (e della dabbenaggine di Reith) per contattare gli Gzhindra, gli agenti dei Pnume in superficie, che una notte rapiscono il terrestre, già nelle prime pagine del libro.
E qui inizia la sua avventura in solitaria: di Traz ed Anacho non c’è più traccia fino alla fine.
Una volta portato nelle gallerie dei Pnume, Reith riesce ad uscire dal sacco in cui era stato messo, appena in tempo per sfuggire ai Pnumekin (i servitori degli alieni) che lo dovevano condurre ad Eternità, il museo segreto dei Pnume, dove tengono tutto quello che ritengono di dover conservare come memoria storica: anche creature un tempo vive, che vengono mineralizzate e messe in posa in gruppi statuari.
Reith riesce dunque a fuggire e mentre si aggira per le caverne dei Pnume si impossessa di una mappa segretissima su cui sono indicati tutti i passaggi, segreti e non, delle loro gallerie: anche se non sa leggerla comprende al volo che il documento costituisce un tesoro prezioso per i Pnume e i loro nemici.
Poco dopo si imbatte in una Pnumekin di nome Zith Athan Pagaz 210 (che per comodità abbrevia in Zap 210), che sequestra brevemente per evitare di essere scoperto e allo stesso tempo persuade a fargli da guida: le mostra anche la mappa rubata, che lei sa leggere ma esita persino a toccare perché alla sua bassa classe di appartenenza non è permesso conoscere simili segreti. Già solo per averla presa con sé e averle mostrato la mappa l’ha praticamente condannata a diventare una Gzhindra, perché Zap già teme la punizione che potrebbe esserle assegnata qualora venisse scoperta.
La fuga riesce, tra passaggi segreti ed un lungo viaggio in barca durante il quale inizia la trasformazione di Zap: i Pnumekin infatti vengono tenuti sotto controllo mediante una droga, il diko, contenuta in cialde di cui sono ghiotti, servite ad ogni pasto. Con questa droga gli umani non solo diventano creature passive ma non avvertono nemmeno le normali emozioni come l’amore, l’amicizia, la curiosità e così via: ma durante il viaggio, per l’astinenza da diko e la vicinanza di Reith, Zap si fa via via sempre più vivace e carina.
Finalmente all’esterno, Reith e Zap vivono una serie di avventure tutte ininfluenti dal punto di vista della trama ma necessarie per allungare il libro e preparare la storia d’amore che ormai tutti si aspettano: devono infatti percorrere metà continente per raggiungere Sivishe, dove non si sa cosa sia successo dopo il rapimento di Reith. Così gli episodi in cui la coppia si imbatte coinvolgono dapprima i Khor, popolo dalla duplice personalità, che introduce i primi riferimenti alla sessualità, di cui Zap è inconsapevole e anzi trova disdicevole per via dei condizionamenti subiti dai Pnume; poi seguono un breve soggiorno nel villaggio di Zsafathra ed il successivo viaggio via terra a Urmank, una città di furfanti, dove si imbarcano su una nave, a bordo della quale sboccia finalmente l’amore tra i due. Il viaggio termina un mese abbondante più tardi, quando sbarcano a Kazain, in territorio Dirdir: da qui un’ultima tappa in carovana li porta infine a Sivishe, parecchi mesi dopo la scomparsa di Reith.
Questa lunghissima parte centrale, che riempie più di metà del libro, serve anche per mostrare che i Pnume e gli Gzhindra sono ancora – o già – sulle loro tracce, perché spesso i due scorgono delle figure vestite con gli inconfondibili mantello e cappello neri che li stanno seguendo.
Giunto a Sivishe, Reith trova il capannone devastato ed i suoi amici scomparsi: ma con l’aiuto di un vecchio sorvegliante messo lì da Anacho proprio per questo, viene condotto (da solo: Zap deve restare al capannone, così potrà essere rapita) alla casetta dove l’amico lo sta aspettando per aggiornarlo sulle ultime novità. L’astronave è stata completata ed è stata condotta da Traz con alcuni tecnici fidati in un posto sicuro che solo Reith può conoscere: il luogo in cui è stato sepolto Onmale (così si chiude il circolo delle sue peregrinazioni su Tschai). Woudiver invece è stato catturato dai Dirdir e gettato come preda nell’arena, dove ha offerto uno spettacolo di tutto rispetto.
Nel frattempo però Zap è stata rapita dagli Gzhindra: così Reith mette a punto il suo ultimo piano, si fa catturare volontariamente e condurre dai Pnume, che lo scortano ad Eternità: ma qui trionfa, perché ha ancora con sé il libretto delle mappe segrete, delle quali ha fatto delle copie e, qualora non dovesse fare ritorno, queste copie verrebbero consegnate ai nemici dei Pnume, come i Dirdir ed i Chasch, che non aspettano altro. Così gli alieni accettano di lasciare libero Reith e di restituirgli Zap, che stavano preparando per la mineralizzazione, lo stesso trattamento che sarebbe toccato anche a Reith.
Così, nuovamente insieme, Reith e Zap prendono l’aeronave assieme ad Anacho, raggiungono Traz e di lì tutti e quattro decollano con l’astronave diretti alla terra.
La quintessenza del romanzo planetario
Per definizione, il romanzo planetario ha bisogno di un pianeta, possibilmente primitivo ed esotico, con flora, fauna e culture peculiari, meglio ancora se aliene: il tema centrale è l’avventura che deriva dall’esplorazione di questo mondo e dalla scoperta dei suoi misteri, che hanno sempre la precedenza rispetto alla scienza e alla tecnologia.
E proprio alla luce di questa definizione il ciclo del «Pianeta Tschai» può essere considerato la quintessenza del romanzo planetario: non solo ha tutto quello che serve per soddisfare i requisiti ma lo ha anche in abbondanza, con una varietà di dettagli e di idee che rendono sempre avvincente la trama e, soprattutto, ricca l’ambientazione. Vance infatti è il maestro di questo sottogenere della fantascienza, che di volta in volta personalizza col suo talento per creare ambientazioni lussureggianti e società folli ma stranamente coerenti nelle loro idiosincrasie: e in questa serie se ne inventa una dietro l’altra, incluse ben quattro razze aliene, che sono una rarità nelle storie dell’autore californiano, solitamente ambientate in una galassia abitata esclusivamente da umani.
Così, proprio in virtù di questa straordinaria ricchezza di elementi caratteristici del romanzo planetario che formano un’ambientazione omogenea e credibile, oltre che una storia godibilissima, il «Pianeta Tschai» non è solo l’opera esemplare del «planetary romance» ma è anche l’opera migliore di Vance, che già di suo è associato per lo più a questo sottogenere della fantascienza.
Tanto per cominciare, il pianeta: Tschai è un mondo primitivo ed esotico, popolato di culture peculiari tutte di origine extraplanetaria; e pure l’unica razza indigena, i Pnume, è in realtà una razza di alieni, con una mentalità ed un modo di vivere incompatibili con quelli familiari al lettore. Gli stessi umani che si sono stabiliti sul pianeta appaiono così diversi dai tipi consueti da essere quasi degli alieni loro stessi, per via delle culture irrazionali se non del tutto assurde che hanno sviluppato in decine di migliaia di anni di isolamento ed influenze esterne.
C’è poi il contrasto tra barbarie e supertecnologia, uno dei temi guida di tutta la storia, che non solo convivono nella stessa scena senza disturbarsi nemmeno un po’ ma si accordano anche all’ambientazione generale, contribuendo a costruire quell’impressione di un mondo al tempo stesso alieno e folle: così armi ad energia e cannoni lanciasabbia non hanno mandato in disuso spade e balestre, proprio come le varianti locali dei cavalli e delle altre bestie da soma o da traino sono ancora più diffuse dei veicoli a motore e delle zattere volanti, che pure sono piuttosto comuni.
Con queste premesse si viene quindi a creare un terreno fertile su cui impiantare un’avventura avvincente, che poi è un altro requisito fondamentale del romanzo planetario: e nel caso di questo ciclo non è nemmeno una pretesa immotivata perché, come tradisce il titolo alternativo, Tschai è davvero il «pianeta dell’avventura». Magari non è sempre questione di vita o di morte ma dall’inizio alla fine della storia il protagonista deve costantemente misurarsi con situazioni rischiose in un mondo che lo respinge e che fa di tutto per opporsi ai suoi sforzi.
Proprio per superare i continui pericoli e risolvere il suo unico desiderio di tornare a casa, Reith è costretto a spostarsi frequentemente, esplorando sempre nuove zone di Tschai: le sue peregrinazioni toccano infatti i quattro continenti principali e alcune isole, oltre a diversi tratti di mare. Si ha così un’ampia panoramica del pianeta, di cui ogni libro esplora una diversa zona, tutte sempre accompagnate da un alone di pericolo e mistero, che rimane per lo più intatto perché Vance svela solo qualcosa e pure a distanza di tempo, come nel caso dei responsabili del missile che ha distrutto l’Explorer IV e della società degli enigmatici Pnume: ma su altro, come le rovine disseminate qua e là, testimonianza di una storia ancora più antica, non dice nulla e lascia ogni spiegazione alla fantasia e all’immaginazione.
Ecco quindi che tutti gli elementi essenziali del romanzo planetario vengono soddisfatti, con soddisfazione pure del lettore, che si aspettava proprio questo: e lo pensa anche Reith, che ad un certo punto infatti si trova a considerare che «la nuova vita, per quanto precaria fosse, aveva il sapore piccante dell’avventura».
Per il resto, lo stile dei libri è semplice, lineare: il protagonista va dal punto A al punto B, e poi dal punto B al punto C e così via, senza troppe complicazioni della trama, che si riesce a seguire molto facilmente. Qualcosa rimane in sospeso ed altro non viene nemmeno portato a termine, come gli sviluppi della città di Tera dopo la partenza di Reith o il destino dei comprimari come Zarfo e Dordolio, che una volta esaurito il loro compito escono di scena, ma questo contribuisce a tenere la storia leggera e scorrevole, con un buon ritmo.
Di conseguenza anche i personaggi sono abbastanza piatti, fatti su misura per il ruolo che devono svolgere: come protagonista, Reith è il più dettagliato ma anche lui non va oltre qualche pennellata di colore qua e là, più che sufficienti per superare la scena ma insufficienti per conoscere meglio il personaggio o dimostrare che aveva un’esistenza prima di essere gettato sul pianeta. I comprimari poi sono ancora meno dettagliati ma sono funzionali allo scopo: parlano quando devono, intervengono quando è necessario e scompaiono quando non servono più.
Questo però non impedisce a Vance di baloccarsi con i temi che gli sono più cari: e non intendo solo il barocchismo e l’assurdità di certi costumi umani sui quali sempre si diverte a ironizzare ma anche la lieve critica alle religioni strutturate, presentate come uno strumento per ingannare e soggiogare gli individui, che si ad esempio riscontra nel primo libro con l’ipocrisia degli stregoni degli Uomini Emblema e poi con i riti funebri dei Sub-Chasch.
Nell’insieme, il primo ed il terzo libro sono i migliori della serie, con una leggera prevalenza del primo perché introduce l’ambientazione e si accorda ai canoni più tradizionali del romanzo planetario, con il lungo vagabondaggio del protagonista che ha una sua meta ben definita; il terzo invece è rilevante perché approfondisce i Dirdir, che sono la razza aliena più curiosa e meglio descritta, con la loro aggressività innata e relativa schizofrenia. Il secondo è il più fiacco mentre il quarto c’entra poco col resto: sarebbe un ottimo libro a sé ma nel contesto del ciclo stona, perché abbandona la formula impiegata sino a quel momento per concentrarsi solo su Reith, separato dai suoi due compagni che invece nei tre libri precedenti erano stati essenziali per dare colore all’avventura.
Ma visti come un’opera unica, i quattro libri brillano e offrono davvero il miglior esempio di romanzo planetario in circolazione.
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