Di Abraham Merritt ho già scritto alcuni mesi fa: in quell’articolo osservavo che, pur rilevanti nell’evoluzione del fantastico per l’influenza che hanno avuto sugli autori successivi (e quindi anche sui pulp), le sue storie mancano sempre di qualcosa e così alla fine non riescono mai a convincere appieno. Sono infatti terribilmente lente, descrittive, formulaiche, sovraccariche di dettagli per lo più superflui che servono solo ad appesantirne la lettura: tutt’altra cosa rispetto alle frasi brevissime, dirette e veloci dei pulp che sarebbero venuti di lì a poco, il cui stile conciso, come altri ha sintetizzato, avrebbe appunto assassinato i periodi lunghi.
Tuttavia questa sovrabbondanza di parole include anche alcuni benefici: solitamente infatti le ambientazioni dei racconti di Merritt brillano, perché creano scenografie così suggestive e lussureggianti che riescono piacevoli a leggersi anche solo per abbandonarsi alle fantastiche immagini che evocano. Forse è proprio per questo che, come ho già dichiarato nell’articolo precedente, a me Merritt piace comunque: certo, i suoi libri spesso si risolvono in un fuoco di paglia ma, al di là delle trame per lo più stucchevoli, sono solitamente corredati di ottime ambientazioni, che poi sono anche ciò di cui vado più ghiotto.
Perciò finisco sempre per leggere qualsiasi opera di Merritt mi capiti tra le mani, un compito per la verità poco impegnativo dato che la sua produzione è stata piuttosto limitata: così, quando mi sono imbattuto nella raccolta «La donna volpe e altre storie» (The Fox Woman and Other Stories, pubblicata postuma nel 1949), che contiene quasi tutti i suoi racconti brevi, non me la sono lasciata sfuggire.
Il risultato è stato il solito miscuglio di pareri: nient’affatto deludente ma nemmeno del tutto soddisfacente.
La raccolta
Le storie di questa antologia possono essere suddivise in tre categorie: i racconti tipicamente merrittiani, i racconti scadenti ed i racconti riempitivi.
Alla prima appartengono tre dei testi più vecchi, scritti tra il 1917 ed il 1926 (La donna volpe, Il popolo dell’Abisso e Le donne del bosco), che sono anche i migliori del volume; della seconda fanno parte quattro dei racconti centrali dell’antologia (Attraverso lo Specchio del Drago, Il fuco, L’ultimo poeta e i robot e Tre righe in francese antico) e, a parte il primo, dovrebbero essere lodati almeno come tentativi di uscire dal consueto intreccio; la terza invece include due frammenti di altrettanti libri mai terminati (La Strada Bianca e Quando si svegliano i vecchi dei), trascurabilissimi.
Tra tutti, l’unico racconto che davvero brilli per originalità è però «Il popolo dell’Abisso»: qui non c’è storia d’amore, solo «orrore cosmico». Leggendolo, non è difficile cogliere l’influenza che può aver avuto su Lovecraft nell’ideare Cthulhu, solo alcuni anni più tardi.
– La donna volpe (The Fox Woman, 1946)
Si tratta dei primi quattro capitoli di un libro che non è mai stato completato: sono stati pubblicati per la prima volta in questa raccolta, uscita ad un lustro dalla morte di Merritt. Hanno una loro unità interna e pure una mezza conclusione, per cui si possono considerare un racconto in tutto e per tutto e non un semplice frammento.
La donna volpe del titolo può essere la figlia appena nata della protagonista o uno in particolare degli spiriti della natura che si manifestano attorno al tempio cinese che fa da cornice alla storia: questi spiriti infatti sono in grado di assumere la forma di una volpe (con un ciuffo bianco in fronte per distinguerli) o di una splendida donna rossa di capelli (una di esse appare all’inizio, per salvare la protagonista).
Quando la storia si apre una donna – un’americana – sta fuggendo dai banditi che hanno assalito la sua carovana ed ucciso tutti, compresi il marito, il segretario di lui e la donna che doveva accudire la protagonista stessa, che è incinta. Inseguita, sta salendo un’antica scala di pietra scavata nel fianco di una montagna quando le appare una volpe, alla quale si appella non tanto per ricevere la salvezza quanto per assicurarsi la vendetta: ha capito infatti che i banditi sono stati mandati dal cognato, avido, che ambisce a mettere le mani sull’intera fortuna di famiglia invece di accontentarsi della misera porzione assegnatagli dal marito. La volpe ascolta, poi si trasforma in donna e lancia qualche incantesimo che mette in fuga gli inseguitori. La protagonista viene quindi soccorsa.
Nelle pagine seguenti, costei scopre di essere spacciata comunque: ha chiesto la vendetta, non la salvezza, quindi rimarrà in vita finché non le sarà nata la figlia (perché si tratta di una bambina). Nel frattempo si apprendono varie nozioni: il tempio è quello al quale era diretto il marito; il saggio sacerdote è un vecchio amico di questi; le volpi dal ciuffo bianco frequentano davvero il tempio. Quando la bambina sta per nascere, la protagonista viene lasciata morire di parto ma in quella lo spirito di una delle donne volpi entra in lei per riversarsi – si intuisce – nella bambina: tra i poteri di questi spiriti infatti vi è anche quello di entrare nei nascituri, sui quali lasciano un segno.
Settimane più tardi il cognato, appreso dall’iniqua organizzazione cui aveva commissionato la strage quale sia stato l’esito dell’imboscata, si mette in marcia con altri due mercenari per completare l’opera: ma giunto al tempio è messo in fuga dalle illusioni e dal carisma del sacerdote, che lo ammonisce di amministrare rettamente i beni di famiglia perché tra non meno di sette anni gli manderà la bambina. Che, si intuisce, sarà lo strumento della vendetta della donna: un castigo un po’ intricato ma Merritt, si sa, non amava le soluzioni facili.
Nell’insieme il racconto si regge in piedi e, sebbene servisse quasi da prefazione alla storia vera e propria, tiene anche se incompleto: ciò che manca avrebbe costituito, si capisce, il vero nucleo del libro ma non possiamo far altro che immaginare quello che sarebbe potuto essere. (5/6)
– Il Popolo dell’Abisso (The People of the Pit, 1918)
Due cercatori d’oro nell’Alaska si imbattono in un uomo delirante, con le braccia e la gambe ridotte a moncherini per averci camminato sopra con disperazione. Chiede che brucino il suo cadavere quando sarà morto – sa che non gli resta molto da vivere – e poi, dopo aver dormito per giorni, racconta la sua storia: anche lui cercava l’oro da quelle parti ma si è imbattuto in uno strano portale, che l’ha condotto come in un’altra dimensione. Qui, ai piedi di una scalinata lunghissima scavata sul fianco di un pozzo senza fondo, ha raggiunto una città d’incubo in cui vivono globi di luce colorata: questi sono gli occhi dei fantasmi di vermi tentacolati che popolano la città, altrimenti quasi invisibili.
Catturato e fatto schiavo dalle creature, è alla fine riuscito a scappare, vincendo la melodia ipnotica con cui ogni notte i vermi cercavano di farlo tornare indietro: dopo giorni di fuga, si è infine imbattuto nei due protagonisti. Non appena termina di raccontare le sue vicende muore: i protagonisti ne bruciano il corpo come richiesto ma, spaventati, desistono dai loro sogni di ricchezza.
Nell’insieme la storia ha un che di cthulhiano e lovecraftiano, di cui è stato chiaramente ispiratore: infatti è stato scritto una decina d’anni prima del «Richiamo di Cthulhu», pubblicato nel 1928. (6)
– Attraverso lo Specchio del Drago (Through the Dragon Glass, 1917)
Lo specchio in questione è un portale che mette in contatto con un’altra dimensione, costruita all’alba dei tempi da un uomo di abilità straordinaria e perciò promosso semidio dagli dei artefici del nostro mondo: è uno specchio di squisita fattura che l’amico del protagonista si era portato a casa dopo il saccheggio di Pechino del 1900.
Questi l’aveva collocato in camera da letto: una notte però il tale scompare per riapparire, ferito gravemente, solo la mattina seguente. Nella notte era infatti passato dall’altra parte dello specchio, dove aveva trovato il mondo di cui parlano le leggende: accolto da una splendida ragazza, di cui inspiegabilmente conosce già il nome, aveva trascorso in sua compagnia un lunghissimo periodo; settimane o mesi, si direbbe.
Un giorno però vengono attaccati da una creatura volante, scagliata contro di loro da un potente del luogo, che gioca con l’uomo: sempre, quando la bestia scende in picchiata per ghermirlo, l’avversario lancia una barriera magica che all’ultimo momento blocca gli artigli dell’essere. Non lo fa tuttavia in occasione dell’ultimo attacco, quando l’uomo aveva ormai raggiunto il portale e con esso la salvezza: con un balzo lo passa e torna in camera da letto, dove la servitù lo ritrova ferito, sette tagli profondi paralleli che corrono dalla spalla al petto, gli artigli della creatura. Per il nostro mondo era passata solo una notte.
Dopo aver raccontato tutto questo al narratore, che nomina suo erede nel caso in cui dovesse succedergli qualcosa, tempo dopo il tale scompare nuovamente: voleva tornare nel mondo ed alla ragazza che stanno al di là dello specchio. Probabilmente c’è riuscito: ed ormai sono passati sei mesi dalla sua scomparsa. (5)
– Il fuco (The Drone, 1934)
Storia inutilmente intricata sulla percezione della realtà: un gruppo di amici parla di come l’aspetto bestiale a volte prevalga negli uomini, che infatti portano le sembianze ora di questo ora di quell’animale.
Passano quindi a narrare esperienze dirette ed indirette, come l’esploratore che, fermatosi presso un villaggio dell’Africa, era stato messo in guardia dal benevolo capovillaggio sulle trasformazioni del locale sciamano, che nelle notti di luna piena (e quella era una notte di plenilunio) diventava uno sciacallo affamato di carne umana: incontrato dall’esploratore, non solo lo stregone veste una pelle di sciacallo – col muso per cappuccio – ma in effetti, apparso quella notte in prossimità dell’accampamento, nell’oscurità pare persino trasformarsi nell’animale. E all’indomani un uomo viene trovato divorato da uno sciacallo, le cui impronte a breve distanza si tramutano in impronte umane.
Un’altra esperienza citata riguarda il fuco del titolo. Un vecchio compagno di scuola riappare molti anni dopo, trasformato nell’aspetto: sembra un insetto. Invitato a casa sua, il narratore va a visitarlo e scopre che è così innamorato delle api da viverci in mezzo: sogna l’esistenza del fuco, che vive poco ma se la gode tutta e muore rapidamente, proprio sul più bello. L’amico non fa in tempo a dirlo che stramazza a terra, morto: ma dalla bocca spunta un fuco che il narratore aiuta a lasciare la casa e raggiungere lo sciame di api che sembra aspettarlo fuori. (3)
– L’ultimo poeta e i robot (The Last Poet and the Robot, 1934)
Storia superscientifica che stona sia col Merritt che conosciamo sia col tono tipico dei suoi racconti: nel futuro, uno scienziato russo si ritira con alcuni seguaci nelle profondità della terra, dove tra mille delizie dimentica e viene dimenticato dal mondo. Molto tempo più tardi, a causa di una distorsione in una melodia cosmica che stava componendo, dovuta ad un incidente sulla luna, torna ad interessarsi di ciò che sta accadendo in superficie: apprende così che i robot, sviluppata l’autocoscienza, si preparano a prendere il controllo del pianeta.
Così, per gratitudine verso la razza che gli ha dato la vita, lo scienziato si dà da fare per fermare i robot: compone una melodia le cui vibrazioni crepano il metallo dei robot e che, riprodotta in tutto il mondo, distrugge quasi tutti gli automi, permettendo così agli umani superstiti (ci sono anche danni collaterali, ovviamente) di eliminare gli ultimi robot e le fabbriche che li costruivano.
Lo scienziato può così tornare a disinteressarsi della terra, che intanto sposta sullo spazio il suo interesse: gli uomini sono finalmente in grado di costruire una grande flotta con cui conquistare l’universo. Nell’insieme noioso e pure poco creativo. (2)
– Tre righe in francese antico (Three Lines of Old French, 1919)
Altro racconto sulla percezione, questa volta attraverso i sogni. I protagonisti narrano un fatto che si è recentemente concluso col suicidio del protagonista, il figlio di un ricco imprenditore che, dopo la guerra (prima) combattuta da volontario coi francesi, è tornato in Francia per suicidarsi in una certa trincea dove aveva prestato servizio.
Durante un turno di guardia notturna, il ragazzo era stato usato per un esperimento da un chirurgo (uno degli uomini che adesso stanno parlando del fatto): l’esperimento era relativo allo stato di dormiveglia ed alla rapidità con cui la mente, quando siamo assopiti, riesce a creare fantasie per rispondere a sollecitazioni esterne di cui il cervello non è consapevole. Così, con un paio di parole sussurrate nell’orecchio ed un biglietto gli avevano fatto credere di trovarsi nella stessa zona, duecento anni prima, in compagnia di una bella nobile (innamorata di lui) e di sua madre: parlando con loro scopre che non si deve temere la morte, perché anche loro sono morte da tempo ma nell’aldilà la vita continua senza le limitazioni dell’aldiquà. La ragazza dà al protagonista un biglietto come prova dell’incontro.
Tornato nella trincea, il ragazzo ha un brutto risveglio, perché il chirurgo gli dice che è stato usato come cavia per dimostrare la sua teoria e che la fantasia gli ha giocato un brutto scherzo: il giovane vorrebbe saltargli addosso. Poi però gli occhi gli cadono sul biglietto, uno degli accessori di cui il chirurgo si era servito per l’esperimento: ma invece dei versi che dovevano esservi scritti ne trovano altri, vergati dalla stessa mano e con la stessa firma trovata sul messale da cui erano stati tratti i versi originari, quella della bella nobile. Questo fa tornare in sé il ragazzo, che adesso aspetta la morte per tornare dalla ragazza.
Nessuno sa spiegarsi come e perché i versi siano cambiati. (4)
– La Strada Bianca (The White Road)
Scampolo di un romanzo mai completato: da bambino il protagonista sognava la Strada Bianca, che lo portava in lontani regni. Ancora gli capita. (2)
– Quando si svegliano i vecchi dei (When Old Gods Wake)
Altro frammento: un uomo ed una donna, di cui è innamorato ma dalla quale è respinto, sono nelle rovine di un tempio dei maya. (2)
– Le donne del bosco (The Woman of the Wood, 1926)
L’unico racconto di Merritt ad essere stato pubblicato da Weird Tales.
McKay, un reduce della prima guerra mondiale cerca la serenità in riva ad un lago dove sorgono solo una locanda, presso cui è alloggiato da mesi, e, dall’altra parte del lago, un vecchio rifugio di caccia usato un tempo dai nobili del luogo ed abitato oggi da un contadino e dai suoi due figli: si intende che la scena è ambientata in Francia.
Attirato da un boschetto che si trova proprio davanti alla casa del contadino, McKay parla con gli spiriti degli alberi, atterriti dall’odio dei tre abitanti, che avrebbero giurato di eliminarli tutti: il protagonista assiste anche all’abbattimento «immotivato» di un albero da parte di uno dei figli, che però viene colpito – pare accidentalmente – da un ramo di un altro albero e perde così un occhio. Gli spiriti degli alberi, che in un’atmosfera fantastica gli appaiono come in sogno, chiedono al protagonista di uccidere i tre contadini: le donne del bosco sono appunto gli spiriti femminili di questo boschetto (le betulle) mentre gli abeti forniscono gli spiriti maschili.
Poco dopo i tre contadini spiegano le loro ragioni. Il loro odio per gli alberi risale a quando i loro antenati erano servi dei padroni: era proibito loro abbattere gli alberi sotto pena di morte, così mentre gli alberi crescevano e rubavano spazio coltivabile e risorse alla terra, le famiglie non potevano né scaldarsi né usare quel terreno per far crescere i raccolti. L’odio si è trasferito di generazione in generazione e, caduto l’ancien régime, è rimasto radicato nei discedenti.
Dato che non è possibile portare i tre alla ragione, McKay – che probabilmente un po’ suonato è – cede al continuo incitamento dell’«uccidi, uccidi» che gli sussurra il bosco ed aggredisce uno dei figli, al quale taglia la gola con un ramo appuntito: agli altri due pensano gli altri alberi.
Tornato alla locanda con la coscienza sporca (e anche gli abiti, di cui si disfa per strada), scoprirà solo dopo alcuni giorni cos’è effettivamente successo: andato in visita al capanno dei contadini, il locandiere trova i corpi dei tre travolti dagli alberi, che paiono essersi sradicati da soli per piombare loro addosso; ad uno si è persino infilzato un ramo nel collo. Trova anche un bottone del cappotto di McKay, dal quale capisce molto, e perciò invita quest’ultimo ad abbandonare la locanda, senza essergli nemico però. McKay l’indomani torna alla civiltà, rinfrancato nell’animo. Ma il dubbio sulla sua sanità mentale rimane.
Tipica atmosfera onirica da Merritt, storia non malvagia ma un po’ tirata per le lunghe, trama decente: a differenza del solito, la ragione ed il torto non sembrano stare tutte da una parte o dall’altra ma il giudizio è più sfumato, si ha l’impressione che i contadini non fossero così cattivi come gli alberi vorrebbero farci credere, che gli alberi non siano del tutto innocenti e che McKay sia un po’ picchiato e facilmente suggestionabile. Forse il racconto più maturo di Merritt, nonostante le mille sdolcinature. (6/7)
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