Autore protopulp, ponte tra la letteratura avventurosa per così dire classica o almeno tradizionale ed i racconti d’azione delle riviste specializzate, Abraham Merritt è stato uno degli autori più noti, seguiti e caratteristici degli anni Venti e Trenta: l’impatto dei suoi scritti è stato tale da influenzare anche Lovecraft, suo contemporaneo, e Gary Gygax, l’ideatore di Dungeons & Dragons, che lo ha inserito nella famigerata «Appendice N», ossia il primo elenco ufficiale delle opere da cui trarre ispirazione per l’omonimo gioco di ruolo.
Eppure Merritt, che di professione era giornalista, non è stato un autore prolifico: ha scritto solo otto libri, tutti pubblicati nello spazio di una quindicina di anni (e tutti pure con almeno un’edizione italiana), ed una manciata di racconti, solo in parte tradotti (qui parlo dell’antologia «La donna volpe e altre storie»). Di seguito commento i tre volumi su cui sono riuscito a mettere le mani sinora, ossia «Il pozzo della luna» (The Moon Pool, 1919), «Il volto nell’abisso» (The Face in the Abyss, 1931) e «Gli abitatori del miraggio» (Dwellers in the Mirage, 1932) ma confido di poter integrare questo elenco in futuro con altre delle sue opere: qui infatti parlo di un altro suo libro, «Il vascello di Ishtar» (The Ship of Ishtar, 1924).
Perché tutto sommato a me Merritt piace.
Un giudizio personale
Sono molto combattuto su Merritt: d’impulso mi piace, considero i suoi libri attraenti – anche se ne ho letti solo alcuni – e le sue ambientazioni assai ricche, invitanti. Al tempo stesso però ho trovato poco agile la lettura di queste storie: solitamente partono molto bene, presentano uno spunto che solletica l’immaginazione o la curiosità (come le rovine del «Pozzo della luna» e la creatura che si dice le infesti), perché sullo sfondo profilano un mistero che sembra potersi spiegare solo col soprannaturale.
Almeno all’inizio, l’atmosfera che così si crea tiene il lettore incollato al libro: all’improvviso però tutto cambia, non appena il mistero viene spiegato in termini prosopopeici che tentano di dissimularne la banalità. Da quel momento – che solitamente giunge troppo presto, ben prima della metà – la trama si riduce ad una storia d’amore avversato tra il protagonista e la bella del luogo, sullo sfondo di scenari fantasiosi: una quantità industriale di aggettivi, infiorettamenti, descrizioni dettagliatissime anche laddove non se ne senta il bisogno allungano la minestra oltre ogni decenza, al punto che, dopo essersi lasciati immergere nelle splendide descrizioni della prima parte, ci si chiede se sia ancora lo stesso libro.
Ciononostante, quando mi si chiede un giudizio su queste opere, continuo a consigliarne la lettura, pur accompagnando il suggerimento con una formula cautelativa: i libri di Merritt trasudano pulp da ogni millilitro di inchiostro ma vanno presi per quello che sono, storie d’amore e d’avventura sullo sfondo di scenari fantastici con intrecci basilari, perfetti esempi dei romanzi cosiddetti d’appendice e di un’epoca che la modernità ha già dimenticato ed ora vuole anche cancellare.
Il pozzo della luna
Pubblicato nel 1919, «Il pozzo della luna» (The Moon Pool) è in realtà il classico «fix up» che andava in voga un tempo, ossia la fusione di più racconti in un romanzo unico: in questo caso unisce l’eponimo «The Moon Pool» ed il suo seguito, «Conquest of the Moon Pool», pubblicati entrambi sull’All-Story Weekly, l’uno nel giugno del 1918, l’altro – a puntate – a partire dal gennaio dell’anno seguente.
In breve, un archeologo narra ad un amico – il protagonista: O’Keefe – come tutti i componenti della sua spedizione presso un gruppo di rovine rinvenute in un atollo del Pacifico siano stati divorati da un essere di pura energia; poi scompare.
O’Keefe inizia le indagini e, con alleati di fortuna, scova infine le rovine ed il pozzo da cui questa creatura di luce sorge, ma solo con la luna piena: da qui trova anche il modo di giungere nelle profondità della terra, dove incontra una civiltà avanzata. Intrighi, tradimenti, amori e lunghe descrizioni riempiono la storia finché non si arriva al gran finale, dove i nostri eroi sconfiggono la creatura con l’aiuto degli ultimi superstiti di un’altra razza ancora più antica, che per ragioni sue aveva creato l’essere di pura energia e poi ne aveva perso il controllo.
L’ordine è così ristabilito, l’invasione della terra (di superficie) rinviata.
Sebbene non brilli, nell’insieme Il pozzo della luna è un ottimo esempio di romanzo protopulp, a tratti persino godibile: c’è tutto quello che deve esserci, dall’eroe spavaldo (e insopportabile: ma può permetterselo, perché sa di essere il cocco dell’autore e che niente può andargli storto) all’azione esagerata, dal mistero alla bellona (due, per la verità: l’una, malvagia ed astuta; l’altra, buona ed ingenua), dalla minaccia globale ad un minestrone di superscienza, occulto, esoterismo, soprannaturale e pseudostoria che lascia sempre soddisfatti.
Ciononostante la storia non riesce a prendere il volo: non appena O’Keefe scende nel sottosuolo si perde non solo la vitalità dello spunto iniziale, che nonostante la prosa assai convoluta è ciò che mantiene l’attenzione, ma anche l’interesse dell’autore per il mistero in sé. La sua attenzione passa invece alla storia d’amore e alle meraviglie dell’antica civiltà dimenticata: il fatto inspiegabile con cui si era aperto il libro viene citato molte altre volte ma lentamente quello che era partito come un mistero soprannaturale si tramuta in una meraviglia scientifica.
E tutta la storia era molto più attraente finché si credeva che ci fosse di mezzo qualcosa di ultraterreno.
La trama quindi si riduce ad un luogo statico, alla rivalità di due donne per un uomo, alle spacconerie senza senso di questi, ad un catalogo di cose fantasiose descritte con l’interesse dello scienziato e a lunghe, interminabili descrizioni, spesso ripetitive e sempre sovrabbondanti di aggettivi, scelti pure da un repertorio non troppo vasto.
Certo non manca di originalità ma, esaurito il mistero, ciò che rimane è privo di vera attrattiva.
Il volto nell’abisso
Libro difficile e noioso, per certi versi anche più impegnativo da leggere del precedente, «Il volto nell’abisso» (The Face in the Abyss, 1931) è pure un «fixup», ossia la fusione di due o più storie brevi in un romanzo unico: qui si tratta del racconto eponimo, uscito su Argosy nel 1923, e di «The Snake Mother», pubblicato a puntate sulla stessa rivista nel 1930. Proprio come nel «Pozzo della luna», anche qui si ha una prima parte piuttosto convincente che però non trova seguito nel resto del libro, segno evidente (almeno in questo caso) del punto in cui finisce il racconto originale e comincia il seguito.
La trama è presto detta: un tale Greydon, ingegnere minerario, si è avventurato in Sud America con altri tre alla ricerca di tesori; lungo la strada si imbatte invece in un ragazzino che il protagonista salva dalla bramosia dei suoi compagni di viaggio (la cui avidità costerà loro la vita, più avanti). Parte così una storia che include la solita antica civiltà perduta che qui è nascosta tra le Ande ed in parte anche al di sotto: com’è naturale, l’arrivo di Greydon cambia gli equilibri e, dopo notevoli sconquassi, porta alla vittoria del bene sul male, racchiuso in un enorme volto scolpito nell’oro. Per premio, Greydon si prende anche la ragazza indigena che si è innamorata di lui a prima vista.
Prevedibilmente, la storia è prevedibile ma, trattandosi di un pulp, ciò è poco male, fa parte dei canoni del genere: ce lo si aspetta ed anzi lo si esige; quello che invece proprio manca al libro è il ritmo: tutto è così difficile che richiede almeno il doppio del dovuto, per sforzi e quantità di parole. Le descrizioni sono lunghe, noiose, ripetitive, alle volte anche confusionarie: se una situazione può essere liquidata in una frase, Merritt la stira oltre misura perché arrivi ad occupare almeno mezza pagina, se non addirittura più pagine.
Il risultato è una storia lenta, sgradevole, appesantita da una narrazione inadeguata: non c’è dubbio che «Il volto nell’abisso» sia il libro di Merritt meno avvincente, almeno tra quelli che sono riuscito a leggere sinora.
Gli abitatori del miraggio
Pubblicato dapprima in sei puntate sul solito Argosy nel 1932 poi raccolte in volume quello stesso anno, «Gli abitatori del miraggio» (Dwellers in the Mirage) è anche l’ultimo libro a tema esplorativo scritto da Merritt: le due opere conclusive del nostro infatti («Brucia, strega, brucia!» e «Striscia, ombra!»), oltre ad avere entrambe il punto esclamativo, sono a tema urban fantasy, quindi col soprannaturale e la magia che sconvolgono la tranquilla quotidianità di una metropoli.
Per tornare agli «Abitatori del miraggio», come di consueto la storia all’inizio promette bene: un esploratore che finisce in una valle dimenticata in Alaska in cui abita un popolo di origine mongola che compie sacrifici umani per saziare una creatura tentacolata extraplanare… A questo punto l’attenzione è già salita a undici. Poi però l’intreccio si appesantisce di sottotrame superflue, descrizioni interminabili, continui dilemmi personali che, mattone dopo mattone, non fanno altro che rallentare la narrazione e deviare l’attenzione dalla storia principale.
Leif Langdon e l’amico indiano (nel senso di pellerossa; che morirà: è il tragico destino di amici e accompagnatori nelle storie di Merritt) si trovano in Alaska per cercare oro: piombano però in una valle misteriosa in cui vivono in uno stato di tregua diversi gruppi umani (di varia origine: mongoli, vichinghi e pure amazzoni) ed il piccolo popolo. L’arrivo del biondissimo Langdon, nel quale i mongoli vedono la reincarnazione del grande condottiero delle loro leggende, porta dapprima notevoli sconvolgimenti ma poi, con la caduta dei cattivi, la pace vera tra i popoli che abitano la valle: come ringraziamento, l’eroe se ne torna alla civiltà con la ragazza.
Non c’è dubbio: come trama, «Gli abitanti del miraggio» batte i due libri già visti; e, a parte la storiella d’amore ingenua, sarebbe anche solido, nonostante i soliti problemi di Merritt, come la lunghezza delle descrizioni, il finale sbrigativo ed inconcludente, le parole in lingue artificiali ripetute all’inverosimile, l’ottusità da premio Oscar dei personaggi quando si tratta di aderire a tradizioni ed usanze anche assurde.
Purtroppo però appena passata la metà Merritt infila una sottotrama tanto inutile quanto pesante: il cambio di personalità di Langdon, che aggiunge poco alla storia principale, è difficile da spiegare (e ancora di più da accettare) e costringe il lettore a fare i conti con nuove vicende d’amore superflue. A ciò si aggiunga il modo in cui Merritt cerca di conciliare le due parti, che è semplicistico, goffo e troppo sbrigativo: nell’insieme si finisce per avere l’impressione che, come il verificarsi di ogni sospetto, duello o difficoltà, così anche la loro soluzione ultima sia artificiosa, quasi che l’autore abbia voluto tirarsene fuori in qualche modo, eliminando o ignorando tutte quelle parti che a posteriori avrebbero potuto creargli qualche problema.
Ma, nonostante ciò, tutto sommato a me Merritt continua a piacere.
Ne aggiungo un quarto che mi capitò di acquistare quasi per caso su Internet, un agile libro della serie Galassia della mitica SFBC di Piacenza.
Copia-incolla dalla mia recensione a riguardo:
Trattasi di Striscia, ombra ! di un celebre autore in parte dimenticato, Abraham Merrit, abbastanza prolifico nel filone magico-avventuroso così come codificato da Edgar Rice Burroughs ed epigoni (basti citare Il pozzo della luna). È da considerarsi seguito di un precedente romanzo, Brucia, strega, brucia !, con il quale Merrit avviò una più moderna e personale trattazione del tema della magia e della stregoneria, ambientata in contesti urbani realistici dove affondare la lama di un horror umbratile e suggestivo.
Quattro suicidi misteriosi, il cui comune denominatore appare essere la presenza di demoniache evocazioni, di ombre sussurranti, scatena un pericoloso gioco investigativo al quale il protagonista narrante partecipa con una passione che sembra retaggio di un remoto passato: un suo antenato combatté e vinse le forze del male incarnate da una civiltà nemica approdata sulle coste di Armorica, l’antica Bretagna, portando morte e sofferenze nelle cupe vestigia di rituali abominevoli consumati nel tempio monolitico dell’Alkhar-Az in adorazione di Colui-Che-Raccoglie nel Tumulo.
Con un continuo ed efficace passaggio tra presente e passato la perduta Città di Ys getta la sua cupa ombra sulla frenetica attività del mondo moderno e Dahut la Candida, Regina delle Ombre, ritorna per esigere il tributo di un amore tradito, ed avere ragione, dopo millenni, dell’amato che ne carpì la fiducia.
Basti questo per invogliare, o meno, alla lettura.
Approfitterò dell’occasione per sottolineare la capacità d’attrazione che la letteratura di genere offre quando la trama risulta convincente, la storia solida e compiutamente architettata, e l’autore, consapevole della forza del proprio artificio, conduce l’opera a perfetto compimento.
È quanto accade qui, in questo agile e rutilante libro che mescola sapientemente ingredienti noir, azione paradossale (la fuga del protagonista dalla torre di Dahut immersa nel cuore di New York, e conclusa in un moderno appartamento con epilogo di sfida a poker lanciata ad una combriccola di ubriachi, ne sia esempio lampante), potenti rievocazioni di un passato tenebroso, pagine di indubbia maestria -citerò soltanto il maldestro tentativo di comunicazione con agenti esterni in attesa, dove in una pianura spettrale Alan de Caranac, come prigioniero del sogno, viene braccato da ombre inumane e mostruose e raggiunto dalla strega in sella al suo destriero ne resta sfregiato a scudisciate prima di essere gettato con un sortilegio nell’infernale dimensione delle ombre: in questa desolazione spirituale scoprirà il vero volto dell’Oscurità e la seconda, definitiva morte che attendono gli esseri dopo la vita.
Consigliato per chi ama coniugare trama e stile.
Ottimo! Grazie per l’aggiunta!
Così i tre libri di Merritt del titolo sono già saliti a quattro!
This Article was mentioned on libripulp.it
This Article was mentioned on libripulp.it