Nel quarto di secolo che ne raccoglie la carriera letteraria, Abraham Merritt non ha scritto molto, appena otto libri – tre dei quali trascurabili – ed una manciata di racconti: tuttavia, persino in una produzione così limitata, «Il vascello di Ishtar» (The Ship of Ishtar, 1924) risalta per essere al tempo stesso la sua opera più ingegnosa e quella più deludente. Infatti, nonostante lo spunto originale e fantasioso – un modellino di nave il cui equipaggio sin dai tempi di Babilonia è condannato a navigare in eterno in un’altra dimensione – questo romanzo porta all’estremo tutti i punti forti ed i punti deboli di Merritt, come l’idea creativa e ammiccante, l’ambientazione lussureggiante, lo stile affettato da un lato ma dall’altro anche la storia d’amore stucchevole, la trama rigida, i personaggi legnosi, i buchi logici e le incoerenze: così, un’idea brillante si affloscia presto in una storia pretenziosa e noiosa.
Una storia sospesa tra il tramonto e l’alba
Pubblicato in sei puntate su Argosy (un settimanale) a cavallo tra il novembre ed il dicembre 1924 e poi raccolto in volume appena due anni dopo, «Il vascello di Ishtar» è il terzo romanzo completo di Merritt dopo «Il pozzo della luna» ed «Il mostro di metallo», che erano usciti sulla stessa rivista nel 1919 e nel 1920: è anche il suo libro più noto e quello di maggior successo, come dimostra la pubblicazione in volume quasi immediata.
Di Merritt come autore «protopulp» ho già parlato in abbondanza (riguardo a tre dei suoi libri e ai suoi racconti brevi) e quindi rimando a quegli articoli per un approfondimento; qui mi limito invece a ripetere l’essenziale, ossia che le sue storie, per quanto influenti sul genere fantastico dei decenni successivi, sembrano sempre mancare di qualcosa: sono infatti sospese tra la letteratura avventurosa di fine Ottocento/inizio Novecento – più convenzionale – ed un abbozzo delle storie pulp che invece stavano per affermarsi, ben diverse dalla precedente per temi e stile; per lo stile, soprattutto, che nei pulp è più secco e diretto, quasi un pugno al naso dato di corsa. Le opere di Merritt invece sono lente e artificiose, quasi una retroguardia di un’epoca ormai giunta al tramonto: forse anche per questo all’orecchio di un lettore moderno le sue storie sembrano infarcite di luoghi comuni. Ed invero lo sono, anche se si tende a dimenticare che sono proprio queste storie – come quelle di Burroughs, Smith, Hamilton e molti altri autori del tempo – ad aver creato in primo luogo quei luoghi comuni, che all’epoca non erano affatto banali ma nuovi, sorprendenti, originali.
Ciononostante, anche tenendo in considerazione tutte queste attenuanti, «Il vascello di Ishtar» stenta ancora a prendere il largo. Persino l’ambientazione, la specialità di Merritt, non è un granché, probabilmente perché soffre di una crisi di identità: mescola infatti il romanzo storico, il fantasy, il mitologico e il sogno in una storia senza un’identità propria.
Proprio come un minestrone insipido.
Due monconi giustapposti
Il romanzo si apre con una novità rispetto all’ambientazione standard di Merritt: invece di far capitare l’avventuroso protagonista, che qui si chiama John Kenton, in una civiltà sconosciuta in mezzo al niente, qui l’eroe – un archeologo da salotto – non si allontana dalla propria residenza newyorchese e nell’arco di una sola notte vive un’avventura di parecchi mesi, forse anche un anno o due, che lo attira in un’altra dimensione e culmina in un finale da tragedia greca.
Il libro è diviso nettamente in due parti, che paiono quasi i monconi di due storie distinte ma incomplete che l’autore ha giustapposto nel tentativo di creare una trama coerente: nella prima parte il protagonista piomba sul vascello titolare e dopo una serie di tiramolla ne prende il controllo; nella seconda, sbocciato l’amore della comprimaria femminile che prima lo odiava, diventa un eroe d’azione sulla terraferma.
Tutto si conclude con una battaglia navale, necessaria per l’epilogo melodrammatico.
La cornice storica
All’epoca in cui Merritt scriveva, il genere fantasy non era ancora così definito come lo è oggi: tutto poteva essere fantasy in quanto «fantastico»; in altre parole, il termine «fantasy» non era ancora legato così strettamente a nani ed elfi, medioevo ed ambientazioni alla Tolkien o Howard, anche se iniziava a farsi strada la sword and sorcery, primo tentativo strutturato di fare del fantasy nel senso moderno, che però si presentava ancora più come un diverso approccio al romanzo storico a forti tinte eroiche e con un pizzico di fantasia, mistero e magia, che aiutano a tenere desta l’attenzione.
Così si può perdonare a Merritt il disastro che ha compiuto con l’ambientazione di questo libro, che in definitiva è fantasy e non un romanzo storico come può sembrare a prima vista: in questa ambientazione infatti convivono i babilonesi, i romani, i vichinghi, gli egizi, sebbene siano divisi da parecchi secoli, anche millenni, di storia. Queste figure animano un mondo che non è il nostro ma un mondo alternativo, un’altra dimensione nella quale continuano a spuntare isole, città, popolazioni, strappate alla realtà e al loro periodo storico senza una ragione plausibile, a parte il bisogno di unire i due monconi di storia ai quali si è già accennato: tutto infatti era partito come un castigo per due sacerdoti babilonesi nel quale erano rimasti coinvolti una ventina di sacerdoti minori ed un certo numero di servitori, condannati a navigare in eterno in un mare senza fine. Solo in seguito si è presentata la necessità di includere un mondo più ampio con cui la nave ed i suoi occupanti potessero interagire e la soluzione escogitata da Merritt dà sì un po’ più di profondità alla storia ma dal punto di vista logico fa acqua da tutte le parti.
Pure la parte più strettamente storica è deboluccia: nelle prime pagine si dice che l’epigrafe sul blocco di pietra entro cui è racchiusa la nave è stata incisa «sessanta secoli prima», durante il regno di Sargon di Akkad. Ma Sargon regnò tra il ventiquattresimo ed il ventitreesimo secolo avanti Cristo, quindi poco più di quattromila anni prima degli eventi all’origine del libro, non seimila: e pare che il culto di Ishtar/Inanna stessa abbia attecchito proprio attorno all’epoca di Sargon, mentre dalla storia si intuisce che era già affermato da molto tempo.
Certo, sono imprecisioni trascurabili: aiutano però a superare il contesto pseudostorico e ad inquadrare più correttamente il romanzo nel genere fantasy che, come detto, all’epoca non era ancora così ben definito com’è oggi e tendeva semmai ad includere elementi storici con l’aggiunta di lievi elementi fantastici.
L’ovetto Kinder della Mesopotamia
All’apertura del romanzo John Kenton, archeologo da salotto, ha appena ricevuto un regalo: un blocco di pietra proveniente dagli scavi che l’amico Forsyth, archeologo da campo, sta compiendo nelle rovine di Babilonia; più precisamente, al tumulo di Amran a sud del palazzo di Nabopolasser, che Forsyth ritiene essere l’Esagilla, il grande tempio degli dei. Kenton salta la cena per chiudersi nel suo studio ed esaminare il blocco, dal quale proviene un profumo di incenso: c’è anche un’iscrizione, che il nostro ignora. Afferra invece il martello e, come farebbe qualsiasi archeologo che si rispetti, tira alcune martellate alla pietra, che si frantuma.
Come un ovetto Kinder, il blocco nasconde una sorpresa: il modellino di cristallo di una nave babilonese lungo più di un metro, con tanto di figurine umane come equipaggio. Il ponte è diviso in due: la metà di prua è d’avorio bianchissimo, quella di poppa di giaietto nerissimo. Subito Kenton viene come catturato dalla nave e, invisibile, vive una breve esperienza a bordo che sembra un sogno: è il modo in cui vengono introdotti tre dei quattro comprimari, ossia Sharane, sacerdotessa di Ishtar dai capelli rossi, di cui Kenton si invaghisce a prima vista; Klaneth, l’antagonista, un malvagio sacerdote di Nergal; e Jiji, suonatore di tamburo d’aspetto scimmiesco che diverrà amico intimo di Kenton. Il nostro scopre così che tra la metà bianca e quella nera c’è come una barriera invisibile, che né Sharane e le sacerdotesse di Ishtar né Klaneth ed i sacerdoti di Nergal possono varcare ma sono confinati nelle rispettive metà, da dove si scambiano sguardi carichi d’odio.
Divenuto improvvisamente visibile, Kenton viene scorto da Sharane un momento prima di scomprire, richiamato nel nostro mondo, dov’è passato giusto il tempo di un battito d’orologio.
Storia della nave e di un amore avversato
Sorpreso e vinto dall’amore per Sharane, il protagonista si industria a tornare indietro: per un impulso afferra una scimitarra appesa ad una parete ed indossa il mantello azzurro in cui la spada era avvolta quando l’aveva comprata in Arabia. Saranno, nemmeno a dirsi, un’arma ed un indumento importanti perché agli occhi di Sharane lo qualificano come inviato di Nabu, il terzo ed ultimo dio babilonese che compare in questa storia. Poi con la sola forza di volontà Kenton riesce a tornare sulla nave, dove però è già passato diverso tempo dalla sua precedente visita: scambiato per messaggero di Nabu, il protagonista approfitta dell’equivoco per farsi accogliere da Sharane, che gli racconta la storia melodrammatica della nave e della maledizione che la accompagna.
C’era una volta una sacerdotessa di Ishtar di nome Zarpanit che amava, ricambiata, un tale Alusar, sommo sacerdote di Nergal: non era una sacerdotessa qualsiasi ma era «Kadishtu», la santissima della dea. Le rispettive divinità, che si odiano, erano inconsapevoli del loro amore: ma una notte, prendendo contemporaneamente possesso dei corpi dei due sacerdoti, che erano in un momento di intimità, scoprono la relazione e si infuriano. La punizione, perché questo genere di storie ha sempre bisogno di punizioni elaborate, è l’esilio dei colpevoli nel modellino della nave assieme ad un numero di sacerdoti, guerrieri/guerriere e schiavi: Sharane era la più vicina a Zarpanit, così come Klaneth era il più alto in grado dopo Alusar, anche se lavorava per tradirlo e prenderne il posto, e così sono sia tra i prescelti ad accompagnarli sia i loro successori designati. In seguito il modellino verrà ricoperto di calce dai sacerdoti sino a farlo apparire come un normale blocco di pietra e trascinato nel cortile del tempio per proteggerlo da un esercito invasore: da allora è stato dimenticato.
Scagliati dunque sulla nave, al risveglio i due amanti corrono l’uno verso l’altra ma al confine tra le due zone bianca-nera si scontrano con la barriera invisibile e cadono a terra: a quel punto gli dei prendono possesso dei loro corpi e cominciano a scagliarsi addosso parole, fulmini e occhiatacce. Ma a poco a poco la parte umana dei due posseduti torna ad emergere e riprende il controllo dei corpi finché, con sommo sforzo di volontà, i due non riescono a varcare la barriera per un ultimo, fatale abbraccio.
Gli dei infatti, vistisi sconfitti dagli uomini, puniscono i due servitori fulminandoli sul posto.
Verrebbe da pensare che, morti i colpevoli, il castigo dovesse terminare per tutti gli altri: ed invece no, Sharane e Klaneth – che si odiano – hanno preso il posto dei loro superiori e da allora solcano senza sosta i mari di una dimensione alternativa espiando colpe altrui, senza alcuna redenzione in vista. Eppure, seimila (o anche solo quattromila) anni dopo, entrambi rimangono ancora saldi nella fede ai rispettivi dei e nell’odio reciproco: questa sì che è convinzione.
Terminato il racconto, Kenton fa l’errore di confessare di non essere l’inviato di Nabu per cui si era spacciato, destando così l’ovvia reazione spropositata di Sharane, che lo fa catturare e mettere ai remi, al posto di uno schiavo appena morto. Per sua fortuna viene incatenato a fianco di Sigurd, il quarto comprimario, un vichingo che come Jiji gli diverrà amico per la pelle.
Niente lieto fine, per questa volta
A questo punto la storia affonda e non merita nemmeno di essere seguita nei suoi svolazzi perché è solo una sfilza interminabile di tiramolla che non aggiungono nulla ma servono solo ad allungare la narrazione.
Con l’aiuto di Jiji, Kenton fa scoppiare una rivolta a bordo con la quale prende il controllo della nave: Klaneth, pur ferito, si salva. Sharane riconosce di essersi sbagliata sul conto di Kenton e subito sboccia l’amore tra i due: la luna di miele dura un tempo imprecisato ma non troppo lungo, fino a quando il sacerdote di Nergal non riappare con una galea e cattura la sacerdotessa.
Kenton non può che lanciarsi al salvataggio, che riesce dopo lunghe peripezie: Sharane, drogata ed ipnotizzata per credere di essere la sacerdotessa di Bel, è stata rinchiusa in una stanza in cima alla piramide che forma il Tempio delle Sette Zone di Emakhtila, la città cosmopolitana in cui si svolge gran parte del secondo moncone.
Questo cambio improvviso di ambientazione, tono e ritmo rafforza l’ipotesi delle due storie incomplete fuse assieme: in una manciata di pagine di passa infatti dall’idillio d’amore per mare che costituisce la prima parte ad un’avventura d’azione su terraferma (e sfondo storico), come se Merritt avesse aggiustato l’ambientazione strada facendo per adattarla alle nuove esigenze narrative.
Il complicatissimo salvataggio riesce ma i nostri vengono inseguiti dalla flotta di Klaneth: tra le rovine titaniche di una civiltà scomparsa si combatte la battaglia finale, nella quale il vascello di Ishtar affonda e tutti muoiono, anche Sharane, che si prende in pieno petto il pugnale di Klaneth.
Solo Kenton, ferito a morte, sopravvive abbastanza a lungo per un’ultima scena: richiamato a forza nel nostro mondo, si ritrova nuovamente nello studio davanti al modellino della nave che sta affondando, dal quale fa in tempo ad afferrare la miniatura di Sharane per baciarla. Sono passate poche ore dall’inizio della storia: le sue grida di dolore nel cuore della notte risvegliano la servitù, che abbatte la porta dello studio ma non arriva in tempo e trova l’eroe a terra, morto in un lago di sangue.
E la mano in cui stringeva la miniatura di Sharane adesso è…vuota!
Un libro che non mi sento di consigliare
A questo punto credo sia chiaro che questa non è l’opera migliore di Merritt: molto meglio «Gli abitatori del miraggio» o «Il pozzo della luna», che soffrono suppergiù degli stessi problemi ma almeno offrono un’ambientazione molto più godibile.
Col «Vascello di Ishtar» alla fine non si porta a casa niente: i personaggi sono legnosi e poco simpatici, tratteggiati così male che da subito è chiaro quale sarà il loro ruolo nella storia (c’è un quinto comprimario di cui non ho parlato, un certo Zubran, che serve solo per immolarsi al posto di Kenton: ed il suo compito è ovvio già al momento delle presentazioni); la trama è banale e imprevedibile solo perché ad un certo punto Merritt scombina le carte in tavola aggiungendo una serie di elementi nuovi – il secondo moncone – ma alla fine segue l’atteso copione; le descrizioni sono particolarmente lunghe e formulaiche, incapaci di comunicare il senso di mistero, esotismo, tragedia o anche solo calore degli altri romanzi. Nell’insieme sa di dozzinale, di fatto perché doveva essere fatto: in passato ho già ammesso che a me Merritt in genere piace nonostante l’affettazione ma tra tutte le sue storie – brevi e lunghe – «Il vascello di Ishtar» è tra quelle che non mi sento propio di consigliare.
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