Sempre per la serie «i BDO sono una delusione», anche «Sfera orbitale» di Bob Shaw (Orbitsville, 1975) non manca di lasciare il lettore con un palmo di naso: perché dapprima ti illude con la scoperta di una sfera di Dyson, la Lamborghini dei manufatti alieni; poi ti porta lì, te la mostra, ma con parsimonia; ed infine ti abbandona in mezzo al nulla senza averti dato altro che un assaggino.
Perché l’esplorazione dei misteri di questa sfera sterminata che incapsula persino il suo sole personale (la superficie interna calpestabile è detta essere alcuni miliardi di volte la nostra terra) occupa solo una minima parte del libro e non offre nemmeno granché dal punto di vista dell’avventura: è invece la storiella melodrammatica del protagonista in fuga dalla giusta vendetta della donna più potente dell’umanità, alla quale ha poi solo ucciso il giovane figlio per disattenzione.
Se già questo suscita la stessa eccitazione di un pranzo festivo con i parenti, a peggiorare la disposizione d’animo dello sventurato lettore contribuiscono le pesantissime porzioni di (pseudo)scienza che vengono elargite con prodigalità e con descrizioni tanto lunghe quanto superflue: così il libro riesce ad uccidere anche quel poco di interesse che di quando in quando torna ad affiorare giusto per un paio di pagine, in occasione delle scoperte più sensazionali, che però passano subito in secondo piano. Perché anche in quei rari momenti l’attenzione viene subito dirottata alle vicende personali di un protagonista per il quale non si riesce a provare uno iota di interesse o simpatia.
E poi ci si chiede perché i BDO siano una delusione: perché promettono, promettono sempre e poi non mantengono nemmeno una frazione di quello che avevano promesso.
La più grande scoperta della storia
La terra del prossimo futuro è sovrappopolata: sinora l’esplorazione dello spazio non ha dato grandi frutti, perché in oltre un secolo di ricerche è stato trovato solo un unico pianeta abitabile più un altro che un tempo era stato sia abitabile sia abitato ma ora non è più né l’uno né l’altro.
Vance Garamond, il protagonista, è un capitano della flotta di navi esplorative della famiglia Lindstrom, che detiene il monopolio del volo spaziale: sta per partire per l’ennesima spedizione ma la procedura prevede che per ottenere il via libera il capitano debba prima omaggiare Elizabeth Lindstrom, la presidentessa dell’azienda di famiglia e la donna più potente dell’umanità. Dopo ore di anticamera nel suo palazzo, il segretario della Lindstrom notifica a Garamond che dovrà attendere ancora parecchio prima di essere ricevuto: detto questo, gli scarica anche il figlio di nove anni della Lindstrom, con l’incarico di sorvegliarlo. Ma Garamond è così preso da se stesso che trascura il compito e, quando torna a posare l’attenzione sul marmocchio, vede che si è arrampicato in alto su una delle statue del giardino e, persa la presa, sta cadendo al suolo: l’uomo accorre in suo soccorso ma non fa in tempo ad afferrarlo. Nella caduta, il bambino batte la testa a terra e muore sul colpo.
Garamond è vinto dal panico, conosce la malvagità e la vendicatività della Lindstrom, così nasconde il corpo tra i cespugli e lascia il palazzo di soppiatto, passa a casa per prendere con sé moglie e figlio e li carica quasi di nascosto a bordo, per metterli al sicuro dalla giusta retribuzione della Lindstrom.
Per sviare gli inseguitori, porterà la nave in una zona di spazio inesplorata dove, secondo le osservazioni rinvenute tra le rovine del pianeta un tempo abitabile, una stella era scomparsa all’improvviso: si imbatte così nell’immensa sfera di Dyson che Garamond battezza Orbitsville, un guscio sottile ma indistruttibile del diametro più ampio dell’intera orbita terrestre.
Individuato il punto d’accesso, vi entra con parte dell’equipaggio e trova un mondo abitabile sterminato, vasto alcuni miliardi di volte la superficie della terra. Per una stranezza, le onde radio però non funzionano all’interno del guscio.
La scoperta è così importante che viene subito comunicata alla Lindstrom e rende Garamond l’uomo più famoso ed importante della terra sovrappopolata: pochi mesi dopo giunge così una flotta di un’ottantina di navi della Lindstrom cariche di emigranti, inclusa la presidentessa, che sembra essersi calmata nei confronti del protagonista, se non altro perché la scoperta di Orbitsville, ribattezzata Lindstromland, ha reso intoccabili lui e la sua famiglia. Ma in realtà nel cuore della donna arde ancora il desiderio di vendetta, a fuoco lento.
Il vero centro dell’universo
Ora, sprecata ogni occasione di mistero, esplorazione ed avventura, la storia torna a concentrarsi sulle vicende dell’ometto che ne è l’indiscusso protagonista: per vincere la noia e soffocare le false notizie diffuse dalla Lindstrom sul conto di strane creature – i cosiddetti «clown» – che abitano vicino all’unico punto di accesso e all’insediamento umano sorto attorno ad esso (un’altra occasione sprecata di aggiungere un po’ di sale ad una storia scipita: in un paio di pagine vengono prima introdotti e poi dimenticati per sempre), Garamond chiede e ottiene il permesso di partire con la sua nave per visitare un certo pianeta, il solo rimasto del sistema solare che è stato convertito nel guscio di Orbitsville.
L’intero viaggio è solo un espediente per transitare la storia nell’ultima parte. In fase di rientro, un sabotaggio a bordo distrugge alcune parti essenziali della nave, che così non può più frenare ed è condannata a schiantarsi contro il guscio di Orbitsville: è finalmente la vendetta della Lindstrom. Ma i nostri eroi riescono a centrare il «pozzo» che collega l’interno della sfera con l’esterno, esaurire la spinta e, cinque giorni dopo l’ingresso ad Orbitsville, schiantarsi a milioni di chilometri dall’insediamento umano, con perdite minime.
A questo punto Garamond entra in modalità «illusione», perché si convince di essere il centro dell’universo: vuole tornare a tutti i costi all’insediamento terrestre, sebbene la distanza lo renda un viaggio impossibile a piedi; e anche in aereo sarebbero necessari anni di volo ininterrotto. Sa infatti che, senza la sua protezione, moglie e figlio sono esposti ai capricci della Lindstrom.
E così, pur privo di un’astronave da comandare, lontano oltre l’immaginabile dalla fonte della sua perduta autorità, ormai separato dal suo equipaggio, che ha deciso di stabilirsi in questa zona, Garamond mette al lavoro i suoi ex sottoposti perché gli costruiscano la squadriglia di aerei bimotore (ne richiede otto) senza nemmeno considerare il sacrificio che sta chiedendo loro. Perché non solo esaurisce le scorte di materiale a bordo (ad esempio, si porta via tutti e ventuno i motori che erano caricati nelle stive della nave) ma sottrae anche tempo e manodopera preziosi ai lavori più urgenti per la sopravvivenza in vista dell’inverno che si sta avvicinando.
Shaw forza così la mano e lascia intravedere giusto un accenno di ribellione da parte di un unico tecnico, che poi però è ben felice di rientrare nei ranghi dopo aver ascoltato il pistolotto edificante di Garamond, quando invece la ribellione aperta o almeno il rifiuto di cooperare da parte di una maggioranza sarebbe stata una reazione molto più credibile: infatti l’ex capitano Garamond è ora solo Vance, ed i suoi gradi non valgono nemmeno il filo con cui sono stati tessuti.
Il resto del libro è una sofferenza: descrive a grandi balzi il viaggio della flotta di aerei, che incontrano persino la città di un popolo umanoide del quale non viene mostrato assolutamente nulla, a parte gli strani veicoli uno diverso dall’altro con cui alcuni di essi vanno incontro a Garamond ed ai suoi prima di perdere rapidamente interesse per i nuovi arrivati. Qui si stabilirà il grosso della spedizione volante: il protagonista infatti ripartirà con solo due aerei.
Mesi o anni più tardi gli otto viaggiatori rimasti deducono dalla colorazione dell’erba che in un certo punto sotto il terreno doveva trovarsi un’altra apertura nel guscio di Orbitsville che qualcuno ha sigillato in un remoto passato: atterrano, scavano e aprono facilmente un buco in questa toppa, che non è del materiale indistruttibile del resto della sfera, e così riescono a puntare un’antenna all’esterno, nello spazio, con cui mandano un messaggio grazie al quale poche ore più tardi verranno soccorsi da una nave della Lindstrom.
Tornato all’insediamento terrestre, Garamond può quindi salvare ancora una volta moglie e figlio dalla Lindstrom, che dalla sua scomparsa li teneva prigionieri nel suo palazzo per far maturare il bambino ed ucciderlo davanti alla madre quando avesse raggiunto i nove anni, l’età alla quale era morto suo figlio per la negligenza di Garamond.
Ma tutta questa parte è svolta frettolosamente ed ha pochissimo senso: serve solo per dare un lieto fine ad una storia deludentissima che da subito ha preso una direzione diversa da quella che era lecito aspettarsi.
Inutile scomodare una sfera di Dyson
In un libro che include un BDO, l’acronimo che indica i manufatti alieni «stupidamente grandi», mi aspetto che il «coso» in oggetto rivesta un ruolo di primo piano: è lui il vero protagonista della storia, i personaggi servono solo per esplorare i suoi misteri, vivere avventure e mostrare il più possibile della sua forma, natura o proprietà. Niente di tutto questo è presente in «Sfera orbitale», che non si sofferma nemmeno un momento a chiedersi chi possa aver costruito l’enorme sfera, perché l’abbia fatto o perché adesso sia (quasi) disabitata: niente mistero, niente avventura e così poca esplorazione che non basta nemmeno a soddisfare il requisito minimo. Perché per parlare di esplorazione la catabasi di Garamond dovrebbe avvenire per terra, descrivere gli ambienti che vengono attraversati dai protagonisti ed includere molte più scoperte e molti più popoli e incontri, potenzialmente pericolosi, di quell’unica scena in tutto che compare in tutto il libro.
Infatti, per dare un’idea della lungaggine della storia, tutto il primo quarto è solo un’introduzione alla scoperta di Orbitsville: occorre giungere ad un terzo del libro per dare una prima occhiata all’interno della sfera ed è solo verso la metà che la storia entra finalmente nel vivo, con la scoperta dei «clown» che abitano accanto alla base terrestre e la conseguente spedizione al pianeta esterno, dalla quale deriverà il naufragio della nave di Garamond ed il suo lungo volo di ritorno.
Così non ho potuto evitare di fare una riflessione: visto che Orbitsville è poco più di un fondale da set hollywoodiano di quando la computergrafica ancora non esisteva (bei tempi!) ed influisce minimamente sulla storia, che invece è incentrata sull’evanescente protagonista, il libro potrebbe essere ambientato tranquillamente sulla terra, fatti i dovuti aggiustamenti. Perché non serve andare dall’altra parte della galassia per sfuggire alla vendetta della donna più potente dell’umanità se poi le diciamo dove siamo, la invitiamo a farci visita e le offriamo l’opportunità di perfezionare quel castigo che la fuga aveva reso impossibile.
Di Orbitsville infatti si vede poco, e quel poco che si vede è identico alla terra: pianure ricoperte d’erba, colline, montagne e fiumi; l’unica differenza è il pozzo che permette di entrare, sigillato in qualche modo da un campo di forza che lascia entrare i corpi solidi ma trattiene l’aria: ma, anche se ricopre una funzione essenziale nella storia, del pozzo non ci sarebbe stato bisogno se tutto fosse stato ambientato sul nostro pianeta.
Che il guscio artificiale sia un espediente superfluo, o per lo meno così mal sfruttato da essere superfluo, è chiaro anche dall’assenza di qualsiasi pericolo o mistero e dalla mancanza di interesse da parte di qualsiasi personaggio riguardo ai mille interrogativi che un simile artefatto fa sorgere: quel poco di strano che spunta – limitato ai «clown», all’altro popolo delle macchine tutte diverse e al gruppo di antichissime rovine attorno al pozzo di ingresso – viene dimenticato dopo poche pagine e non riceve mai tutta l’attenzione che sarebbe logico aspettarsi, e che il lettore stesso si aspetterebbe. All’improvviso spuntano, all’improvviso scompaiono: tutto qui.
Una storia condizionata dal suo protagonista
E questi non sono ancora i veri aspetti negativi della storia, che cominciano adesso: primo tra tutti il protagonista, che non solo è sgradevole, incapace di suscitare la simpatia del lettore e pure la causa dei propri guai ma è anche incostante nel comportamento. Perché a volte è capace di prevenire le mosse altrui; altre non vede più in là del proprio naso; e sempre si considera il centro dell’universo e se la cava solo perché chi gli sta intorno si comporta in maniera ancora più irrazionale di lui. È proprio il protagonista che mostra la mano dell’autore sempre all’opera: l’impressione che si ricava dalla lettura è che la storia sia guidata in un certa direzione; non dà invece l’idea di svolgersi naturalmente o logicamente, come fanno i romanzi migliori.
E la storia ha anche una coprotagonista, altrettanto sgradevole: la superscienza. Ogni scena, ogni descrizione è zeppa di informazioni dettagliate su aspetti scientifici di cui c’è poco bisogno, come teorie strampalate o il funzionamento di macchine fantasiose, che servono solo per rallentare ulteriormente lo svolgimento delle azioni e sovraccaricare il libro di informazioni superflue, dal momento che l’interesse principale sarebbe la sfera ma dalla sfera si trasferisce al protagonista. La scienza, normale o super, dovrebbe sempre essere tenuta al minimo.
Nell’insieme, «Sfera orbitale» non può che essere giudicato uno dei peggiori libri sui BDO: altri libri dello stesso genere di cui ho parlato in passato, come «Incontro con Rama» di Clarke e «Titano» di Varley, che pure non mi hanno impressionato, almeno mostrano l’interno dei manufatti («Rama» addirittura si sofferma a lungo sull’esplorazione e manca semmai del mistero) e cercano di sviluppare la storia attorno alle loro caratteristiche. Qui invece la sfera di Dyson che è Orbitsville, il BDO per eccellenza, serve solo come fondale per una storia banalissima che avrebbe potuto aver luogo anche sulla terra. O su un qualsiasi altro pianeta.
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