Bastano le prime pagine di «Thuvia, la fanciulla di Marte» (Thuvia, Maid of Mars, 1916) per avere la conferma di un sospetto: senza John Carter il ciclo marziano di Edgar Rice Burroughs perde subito ogni attrattiva. Come personaggio, suo figlio Carthoris vale meno della metà del padre: e, come storia, l’avventura di cui questi è protagonista non ha nemmeno un quarto dell’attrattiva di quelle del genitore, anche le meno convincenti. Il libro infatti non è altro che «more of the same»: sempre le stesse cose.
Inizia la serie monografica
Pubblicato in tre puntate su All-Story Weekly nell’aprile 1916 ed in volume nel 1921 assieme ai precedenti episodi, «Thuvia, la fanciulla di Marte» è il quarto libro (su undici) del lungo ciclo marziano di Burroughs ed inaugura la serie per così dire «monografica»: libri per lo più indipendenti l’uno dall’altro – collegati solo dall’apparizione di alcuni personaggi già visti o da saltuarie menzioni di eventi precedenti – che sfruttano l’ambientazione ma cambiano di volta in volta i protagonisti principali, che qui sono appunto Carthoris e la Thuvia eponima; nel prossimo sarà la figlia minore di Carter ed il suo quasi fidanzato, in quello successivo un altro terrestre, che in quello dopo ancora (il settimo volume) diventerà solo il narratore delle avventure di un ulteriore nuovo personaggio e così via.
Tutta la trama di «Thuvia» ruota attorno alla solita storia di baci contrastata con toni melodrammatici che ne rendono la lettura una sofferenza: manca solo la malattia inguaribile per avere tutto il repertorio classico delle tragedie strappalacrime ottocentesche.
Dal punto di vista dell’ambientazione, questo episodio aggiunge qualcosa che però non ha alcun impatto significativo sul Marte che già conosciamo: la sola vera novità è una città, Lothar, i cui abitanti vivono così isolati dal resto del pianeta che credono di essere l’ultimo baluardo dell’umanità marziana e hanno raggiunto un tale controllo delle illusioni da essere in grado di farle apparire quando vogliono, e più vere del reale. Per il resto, la storia evoca dal nulla un’altra città rivale di Helium ma dello stesso tipo di quelle già note; e ritornano anche vecchie conoscenze come le tribù dei verdi e le scimmie bianche che infestano le rovine delle antiche città. Ma i nuovi dettagli non modificano sostanzialmente ciò che già conosciamo.
Un’aggiunta di cui si farebbe volentieri a meno sono invece le tre/quattro paginette in cui Burroughs mostra la vita quotidiana dei marziani rossi nelle grandi città – anzi, in una metropoli come Helium – che appare sin troppo simile alla grigia mattinata tipo di una grande città dell’epoca come potrebbe essere stata Londra o New York. Nel leggere la descrizione dei cittadini che lasciano le abitazioni per recarsi in ufficio (proprio così: ufficio) con i mezzi pubblici non si può fare a meno di immaginarsi i marziani che completano lo scarso abbigliamento tradizionale (si ricorderà che non portano abiti ma solo cinghie e pochi altri accessori di cuoio) con la cravatta annodata al collo nudo, l’ombrello, la valigetta, i polsini e la bombetta in testa: un’immagine che è difficile cancellare dalla testa, quasi una caricatura del selvaggio che all’improvviso scopre la civiltà.
E che costringe a rivedere l’alta opinione che ci si era fatti sinora dei valorosi marziani.
I tre protagonisti
Anche se il titolo insiste su Thuvia, il vero protagonista della storia è Carthoris, il figlio di John Carter e Dejah Thoris (come suggerisce il nome, che è la sincrasi dei nomi dei genitori), che è innamorato della giovane figlia del sovrano di Ptarth, Thuvia appunto: ma lei è già promessa ad un altro. Nonostante l’apparenza però Thuvia è più di una semplice scusa necessaria solo per mettere in moto la storia: infatti ne è la coprotagonista. Così alcune scene sono viste anche dal suo punto di vista mentre di altre è l’unica testimone: ed in questo modo, mettendo assieme le vicende dell’uno e dell’altra, si costruisce l’avventura.
Dei due, è sicuramente Thuvia il personaggio più interessante: struggimenti d’amore a parte, la ptarthiana dimostra infatti di essere più che capace di provvedere a se stessa, se non altro perché ha l’abilità di controllare i terribili banth, i feroci leoni marziani, e trasformarli in gattini affettuosi, come aveva già mostrato negli «Dei di Marte», il secondo volume del ciclo.
Gran parte della sua fetta di storia è resa possibile dalla rigidità dei costumi marziani e dall’ottusità con cui tutti si attengono ad essi senza mai esternare un pensiero o un’emozione: così si creano gli equivoci, con i quali autori come Burroughs vanno a nozze. E, parlando di matrimoni, quello tra Thuvia e Carthoris pareva cosa fatta già al termine degli «Dei» ma così non è stato: nessuno dei due hai mai manifestato apertamente i propri sentimenti nei confronti dell’altro e così all’inizio di questo libro Thuvia, che è la figlia del Jeddak di Ptarth, una delle città alleate di Helium (la città di Carter), ha ormai accettato di andare sposa a Kulan Tiht, Jeddak di Kaol, un’altra città alleata di Helium.
Ma oltre a Carthoris, che si piega alle tradizioni di Marte e non insidia la virtù di Thuvia, anche Astak, figlio inetto dello spregevole Jeddak della perfida Dusar, la desidera e mette in piedi un complotto alla Benny Hill per rapirla e farne ricadere la colpa su Carthoris: ma ovviamente tutto si ritorcerà non solo contro di lui ma anche contro il padre ed il suo regno di nequizie.
Al contrario di Thuvia, Carthoris non ha un briciolo di attrattiva: è la fotocopia del padre, solo un pochino più ottuso. Buona parte della storia si regge proprio sulla sua creduloneria e sulle conseguenze di certe sue scelte non proprio brillanti. Tuttavia è un valoroso e così alla fine riesce comunque a conquistarsi Thuvia, che lo stesso fidanzato scioglie da ogni impegno.
Il terzo protagonista della storia, senz’altro quello più curioso, è un certo Kar Komak: è un umano ma non è un essere reale, perché è solo un’illusione creata dagli abitanti della città di Lothar così tante volte che alla fine ha trovato il modo per rimanere concreto e non dissolversi quando la sua immagine ha cessato di essere utile. Lo si può considerare il fantasma di un antico guerriero/marinaio dei marziani bianchi (di un’epoca lontanissima nella quale ancora esistevano i mari su Marte e solo i marinai combattevano) che ormai padroneggia le stesse illusioni usate dai suoi evocatori: è infatti in grado di far apparire schiere di guerrieri così convincenti d’aspetto e comportamento che uccidono i nemici semplicemente facendo loro credere di averli colpiti a morte; e così i nemici (per lo più i marziani verdi) muoiono sul colpo, convinti di essere stati colpiti al cuore o in altre parti vitali.
Su Marte funziona.
Una vana Lothar con le illusioni
Le illusioni sono infatti la specialità della città di Lothar, l’unica aggiunta geografica degna di nota all’ambientazione marziana di questo libro. Lothar è così isolata dal resto del pianeta che i suoi pochi abitanti – tutti uomini della razza bianca: ma non sono Thern – credono di essere gli ultimi umani di Marte, impegnati in una lotta per sopravvivenza contro le orde di verdi che a cicli regolari cingono d’assedio le mura cittadine: dal momento che non avrebbero le forze per resistere ai selvaggi verdi, hanno sviluppato capacità telepatiche tali che riescono ad evocare illusioni così reali da sembrare vere e con queste si difendono egregiamente. Non fanno altro che creare schiere su schiere di guerrieri che, uscendo dalle porte cittadine, fanno scempio dei nemici semplicemente facendo credere alle loro vittime di averle uccise: è un concetto un po’ forzato ma nel contesto marziano – dove, ricordiamo, dovrebbe esistere la telepatia, anche se dopo il primo volume ne sono praticamente scomparsi tutti i riferimenti – non fa una piega.
I lothariani sono pochi e sono solo uomini perché nel passato, quando gli oceani avevano iniziato a ritirarsi causando il crollo della loro città di navigatori, si sono trovati incapaci di fermare le orde soverchianti dei verdi: mentre si ritiravano verso una posizione più difendibile – la valle in cui ora sorge Lothar – gli esuli sono stati attaccati più volte dai verdi, che hanno ucciso tutte le donne ed i bambini, lasciando in vita solo pochi uomini, quelli che ora abitano la città morente e la popolano di illusioni, con le quali cercano di conferirle un’apparenza di vita pulsante.
Superfluo dire che Lothar ristagna: non solo perché non ha un futuro ma anche perché è lacerata dalle dispute interne, alle quali sulle prime Burroughs sembra interessarsi un po’ ma solo per abbandonarle successivamente e tornare alla ben più remunerativa storia d’azione. In sostanza, i lothariani sono divisi in due fazioni, i realisti e gli eterealisti: i primi, pur facendo uso delle illusioni, credono che la materia esista e che gli eterealisti siano solo illusioni create dalle loro menti; i secondi invece sono convinti che tutto sia un’illusione, anche il cibo, di cui infatti possono fare a meno.
Ma ogni dubbio al riguardo viene levato quando l’austero Jeddak della città, un eterealista annoiato, perde la testa per Thuvia ed in cambio riceve una pugnalata in pancia dalla ragazza, fatto che dimostra tutta la sua materialità, in ambo i sensi.
Tutto per un rapimento
Quando si apre il sipario, si viene proiettati immediatamente nel dramma d’amore: Carthoris ama Thuvia che ama sì Carthoris ma è promessa ad un altro, Kulan Tiht, il Jeddak di Kaol, che è uno dei buoni. Perché il matrimonio tra Carthoris e Thuvia non fosse già stato combinato è un mistero, visto che già nei precedenti volumi era emersa la loro simpatia reciproca e per qualunque regnante sarebbe un onore potersi imparentare col «signore della guerra di Marte». Tuttavia questo fidanzamento non c’è stato e così Thuvia deve andare sposa a Kulan Tiht: sennonché il perfido Astok, figlio del Jeddak di Dusar, è pure innamorato di Thuvia ed architetta un piano complicatissimo per rapirla e farne cadere la colpa su Carthoris, così da far scoppiare la guerra tra Ptarth (la città di Thuvia), Kaol (quella di Kulan Tiht), la Dusar di papà e le altre città alleate contro Helium (la città di Carter) ed alleati.
Il piano ovviamente riesce: ma è architettato così male ed eseguito ancora peggio che Astok riesce non solo a farsi sfuggire Thuvia dalle mani ma anche a trovarsi tra i piedi lo stesso Carthoris; anzi, sono proprio le sue goffe azioni a far piombare il delfino di Helium dove non dovrebbe.
Dopo il rapimento inizia quindi una serie di avventure non strettamente collegate al rapimento di Thuvia: Carthoris infatti ritrova Thuvia abbastanza presto e poi trascorre assieme a lei buona parte del libro. Tuttavia la ptarthiana non può fare a meno di sospettare che il rapimento sia stato effettivamente architettato da Carthoris: il suo arrivo così tempestivo infatti le fa dubitare l’onestà del figlio di Carter, tanto più che gli scagnozzi di Astok che hanno eseguito il rapimento indossavano le insegne di Helium.
Durante la fuga i due si imbattono nella città di Lothar, sconosciuta fino a quel momento, abitata da un popolo di bianchi che vivono isolati dal mondo e credono di essere gli ultimi superstiti dell’umanità sull’intero Marte: hanno perfezionato la telepatia a tal punto che sono in grado di evocare illusioni così credibili che le usano per tutto, anche per combattere i marziani verdi che periodicamente li cingono d’assedio. Per sconfiggere gli aggressori non fanno altro che evocare le immagini di orde su orde di guerrieri: poi è l’immaginazione dei nemici a fare il resto, perché quando vengono colpiti – regolarmente al cuore – si convincono di essere stati uccisi e così muoiono sul colpo per suggestione.
Dopo alcune vicende in città, per lo più ininfluenti sulla trama, Carthoris e Thuvia fuggono anche da Lothar ma vengono separati ancora: questa volta per effetto delle illusioni evocate da quello che doveva essere un loro amico, un esule lothariano che vuole Thuvia tutta per sé. La parte più sconvolgente è che nessuno dei due si accorge di essere vittima di un miraggio: allontanandosi dalla città, Carthoris prende infatti per mano Thuvia ma non le parla per ore, e così non si rende conto di avere per compagna un’illusione; Thuvia invece crede che l’ordine di restare indietro col loro accompagnatore lothariano sia stato pronunciato realmente da Carthoris e non pensa nemmeno che possa trattarsi di un inganno. Ah, l’innocenza!
Trionfa il vero amore
Molte pagine di struggimenti melodrammatici più tardi, Thuvia viene catturata nuovamente da Astok mentre Carthoris è prigioniero dei verdi prima e delle scimmie bianche poi: ma nel frattempo si è anche fatto anche un nuovo amico, Kar Komak, un’illusione dei lothariani che invece di dissiparsi quando non serve più ha trovato il modo di restare nel mondo reale. E col suo aiuto (è infatti capace di evocare illusioni a sua volta) Carthoris prima si libera e poi, superate nuove difficoltà, non solo soccorre Thuvia ma la salva addirittura dalla morte o meglio, come scrive Burroughs, da «un destino terribile, peggiore della morte».
Ad insaputa del padre, Astok ha rinchiuso Thuvia nella torre più alta della città: ma il Jeddak Nutus, che ha intuito la malefatta del figlio ma non lo crede così stupido da portare il corpo del reato in città, lo esorta a sbarazzarsi di ogni prova, perché se venissero scoperti la punizione sarebbe la loro morte e la distruzione della città. Ed invece Astok non è solo così stupido ma è anche così incapace che non è nemmeno in grado di farlo da sé e perciò si cerca un uomo fidato che uccida Thuvia per lui, perdendo del tempo prezioso.
Così, sempre grazie ad equivoci, travestimenti ed inganni, Carthoris sbarca alla torre giusto in tempo per fermare il macellaio di Astok e poi eliminare anche Astok: salvata la prigioniera, con la quale può finalmente chiarirsi, il protagonista mette quindi fine alla guerra appena cominciata tra le città stato a causa del rapimento di Thuvia.
E nel finale l’amore tra i due può finalmente sbocciare: perché mentre volano verso il campo di battaglia per rappacificare i combattenti, scorgono una nave volante «arenata» sul suolo di Marte che è sotto attacco dei verdi: è proprio la nave di Kulan Tiht, il promesso di Thuvia. Così, anche se si tratta del suo rivale in amore, il dovere e la rettitudine prevalgono senza indugi: Carthoris e Kar Komak (ci sono solo loro a bordo, oltre a Thuvia) scendono a terra per dare man forte all’equipaggio umano e, grazie alle illusioni di Kar Komak, mettono in fuga gli aggressori dopo averne fatto scempio.
Kulan Tiht è più che riconoscente per l’aiuto inaspettato: ha infatti udito le dichiarazioni d’amore reciproche dei due giovani – che finalmente hanno trovato il coraggio di dichiararsi l’uno all’altra anche se sanno di non potersi amare – ed è quindi più che disposto a farsi da parte per permettere il trionfo del vero amore.
Sipario.
Un libro senza importanza
Ogni nuova puntata del ciclo marziano di Burroughs rappresenta un’attrattiva: perciò leggere «Thuvia, la fanciulla di Marte» è quasi un dovere per chiunque abbia trovato un qualche interesse nell’ambientazione. Ma in tutta onestà il libro in sé non ha molto da offrire, né per i contenuti né per il piacere che dovrebbe derivare dalla lettura.
Dei contenuti già si è detto: non fa altro che ripetere sempre le stesse cose già viste nei precedenti volumi, senza aggiungere nulla di davvero nuovo o creativo. Quel poco che aggiunge o è abbastanza insipido, come Lothar (che infatti poi scompare dalla serie), o è del tutto stupido, come tutta la parte del rapimento e dei suoi goffi sviluppi. La storia d’amore che fa da collante riesce invece fastidiosa, perché riversa litri di contenuti smielati in una storia che, così ci si aspetta, dovrebbe reggersi sull’azione ininterrotta: è proprio l’azione ad aver fatto della «Principessa di Marte» l’opera di riferimento per un intero genere letterario, non la storia d’amore, che c’è, sì, ma è limitata a quelle poche parti obbligatorie per la narrativa dell’epoca. In «Thuvia» invece la storia d’amore prende la precedenza e diventa melodramma, con una tempesta di emozioni e sentimenti portati all’estremo.
Come protagonista, Thuvia è un buon personaggio, anche se era migliore nelle puntate in cui faceva solo delle apparizioni come addestratrice di banth o una sorta di guardia del corpo di Dejah Thoris; al contrario, Carthoris è un personaggio piatto, senza personalità, una brutta copia del padre, che già non brillava per attrattiva.
In definitiva, il libro si condanna da sé all’oblio: nulla dei suoi contenuti ha importanza. Le poche idee nuove non hanno impatto sul futuro della serie e persino Kar Komak, l’illusione divenuta realtà, dal quale era lecito attendersi più di una modesta apparizione nelle nuove avventure, praticamente svanisce all’inizio del volume successivo, dopo aver insegnato a Carter i segreti della proiezione astrale. Ma per fortuna «Le pedine di Marte», il quinto episodio della serie, è buono e torna ad offrire il meglio di Barsoom: azione e esplorazione in abbondanza.
Si può quindi concludere che «Thuvia» non è altro che un raccordo tra il ciclo di apertura e la serie monografica che distinguerà il resto della serie: il suo unico fine è far avanzare la storia in qualche modo.
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