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Edgar Rice Burroughs – Le pedine di Marte (Barsoom 5)

Dopo la delusione di «Thuvia, la fanciulla di Marte» , il ciclo marziano di Edgar Rice Burroughs sembrava ormai destinato a trascinarsi miseramente per molti volumi ancora: ed invece l’episodio successivo, «Le pedine di Marte» (The Chessmen of Mars, 1922), riscatta nuovamente la serie, perché è sorprendentemente un buon libro, appena inferiore alla «Principessa di Marte» da cui tutto ha avuto origine. E merita anche un posto d’onore su questo blog, perché non solo è un vecchio romanzo di fantascienza avventurosa pubblicato un secolo fa sulle riviste pulp ma tratta anche di giochi da tavolo, che sono l’altra mia passione: introduce infatti il Jetan, il gioco degli scacchi marziani, del quale spiega le regole e mostra anche una partita reale, giocata in un’arena con pedine umane.

La serie si riscatta
Pubblicato in sette puntate settimanali sul solito All-Story Weekly (ormai diventato Argosy All-Story Weekly, in seguito alla fusione delle due riviste avvenuta nel 1920) tra il febbraio e l’aprile 1922, «Le pedine di Marte» è il quinto volume del ciclo marziano e costituisce il ritorno di Burroughs a Barsoom dopo una pausa di quasi sei anni: appartiene alla serie monografica iniziata proprio con «Thuvia», ossia avventure indipendenti l’una dall’altra che sfruttano l’ambientazione e magari citano pure qualche evento o personaggio noto ma introducono sempre nuovi protagonisti, che in questo caso sono pure solidi.
La storia è costruita a cipolla: non è difficile scorgere il nucleo del romanzo proprio nella partita di Jetan disputata nell’arena, attorno alla quale sono poi stati aggiunti strati successivi in modo tale da coprire tutte le necessità narrative. Così il racconto parte molto alla lontana ed impiega quasi metà della storia solo per raggiungere la città in cui, ancora molte pagine più tardi, si svolgerà la partita stessa, alla quale poi è attaccata una lunghissima coda densa di eventi.
Dal punto di vista dell’intreccio tutto si riduce alla consueta storia di baci in cui però è la protagonista femminile – Tara di Helium, figlia minore di John Carter e Dejah Thoris – a dimostrare più tempra del corrispettivo maschile: questi – Gahan, Jed di Gathol, alias Turan il panthan, alias U-Kal di Manataj – è infatti uno scendiletto che, dopo averle confessato tutto il suo amore ed essere stato respinto, fa tutto quello che ci si aspetterebbe dall’eroe di turno; mostra cioè ardimento e abilità marziale in abbondanza ma poi, quando è al fianco di Tara, si comporta da «soyboy» solo per compiacere la principessa, alla quale si presenta ora con una nuova identità e nasconde la vera.
Così la trama non è troppo originale ed anzi è abbastanza tipica delle storie di Burroughs: eppure ha un qualcosa che la rende attraente. Infatti, pur sfruttando l’ambientazione già nota di Marte, Burroughs ritaglia per questa avventura un angolo sconosciuto del pianeta in cui vivono popoli sconosciuti, con costumi diversi da quelli consueti: e così torna ad aggiungersi il mistero ed il fascino della scoperta, che invece nei precedenti volumi era andato progressivamente svanendo in «more of the same», sempre le stesse cose.

Nuova geografia e nuova etnografia
Senza disquisire sullo sforzo mentale necessario per accettare che su Marte – un pianeta non solo privo di mari e quindi facilmente percorribile in tutta la sua superficie ma attraversato persino da intere flotte di navi volanti – possano esistere zone ancora inesplorate e misteriose, nelle quali sopravvivono tanto popolazioni semiumane sconosciute quanto antichissime città umane che prosperano senza che i potenti vicini nemmeno ne sospettino l’esistenza, con «Le pedine di Marte» si aggiunge una nuova regione del pianeta rosso, a nord di Helium, appena sopra l’equatore marziano.
Quest’area include Bantoom, una zona di colline coltivate su cui sorgono grosse torri tutte identiche, protette da muri alti pochi metri: muri, non mura, perché non servono come opere di difesa contro i vicini ma solo come barriere per tenere fuori i feroci banth, i leoni marziani, che la notte infestano le colline. Gli abitanti sono i più mostruosi incontrati sinora, completamente diversi da tutte le altre creature senzienti viste nei volumi precedenti: si tratta infatti di grossi ragni flaccidi e tondeggianti con zampe e chele, i kaldane, che usano i corpi perfettamente umani ma senza testa dei rykor – una razza umanoide priva di intelletto incrociata con gli uomini rossi, che nel tempo ha perso l’uso della testa e con esso la testa stessa – come veicoli. Semplicemente, i kaldane si sistemano sul collo, al posto della testa inesistente, inseriscono i loro tentacoli nella spina dorsale del rykor e da quel momento diventano tutt’uno con esso: l’aspetto complessivo è quello di un umano mostruoso, con una testa sproporzionata e non del tutto umana.
Questi kaldane si fanno i fatti propri: vivono per lo più sottoterra, in un labirinto di gallerie nelle quali raccolgono il cibo che loro stessi, in testa ai rykor, coltivano nei campi esterni. Con l’eccezione del sovrano di ogni torre o nido sono asessuati e non conoscono alcun piacere a parte il puro esercizio mentale, in attesa di un remoto futuro in cui tutti potranno confluire nel grande cervello: sordo, muto e cieco, il fine ultimo della razza.
Più a nord di Bantoom si trova invece il territorio di Manator, potente città stato che ne controlla almeno altre due, Manatos e Manataj: come la Lothar già apparsa in «Thuvia», è un’altra antica città di cui nessuno sospetta l’esistenza, anche se a differenza di Lothar, che si fa i fatti suoi, questa è dedita al saccheggio dei territori delle città limitrofe, in particolare Gathol, con la quale confina ad oriente.
I costumi di Manator, e quindi delle città soggette, sono molto antichi: qui ad esempio i morti vengono immersi in una sostanza che serve a conservarli in eterno come se fossero vivi; poi, abilmente truccati, vestiti e messi in posa, vengono esposti nelle case e nelle strade, spesso in modo da formare una scena o un gruppo come i manichini nei musei. Un’altra abitudine singolare riguarda l’accesso al palazzo del Jeddak, nel quale capi e guerrieri entrano e si muovono sempre a cavallo dei loro thoat: nonostante la bellezza e ricchezza delle sale rivestite d’oro, alcuni locali, anche ai piani superiori, sono stati convertiti in stalle. E la città sembra non conoscere le navi volanti, o forse solo non ne dispone: perciò tutte le scorrerie devono essere fatte a dorso di thoat. Ma gli scorridori sono così abili da non lasciare mai tracce del loro passaggio.
Manator tuttavia è rilevante nella storia per un’ultima attrazione: l’arena del Jetan, gli scacchi marziani. In questo stadio vengono combattute partite con squadre di uomini veri, a volte incruente, altre all’ultimo sangue, sulla base degli accordi presi.
L’ultima città alla quale meriti fare un accenno, dal momento che tornerà più avanti, è Gathol, di cui Gahan è originario: ricca e splendida, un tempo sorgeva su un’isola e poi pian piano, nel tentativo di inseguire l’oceano che via via si abbassava e andava scomparendo, ha finito per ricoprire interamente la montagna in cui quello scoglio si è tramutata. Protetta da vaste paludi che rendono impossibile l’avanzata di eserciti a piedi e dalle creste frastagliate delle montagne limitrofe, che invece impediscono le operazioni delle navi volanti, Gathol può sfoggiare tutta la sua ricchezza, che proviene dalle inesauribili miniere di diamanti scavate nella montagna che ha cinto con la sua espansione.

Protagonisti e antagonisti
Con apprezzabile abilità, nelle «Pedine di Marte» Burroughs riesce a gestire due protagonisti e mezzo: ossia i due eroi titolari più un comprimario, che però è rilevante ai fini della trama ed è perciò premiato con alcune scene tutte sue.
Come in «Thuvia», anche qui il centro della storia è un personaggio femminile: Tara di Helium, figlia minore di John Carter e Dejah Thoris. Presentata all’inizio come la tipica principessa viziata e capricciosa, si mette presto nei guai con le sue stesse mani e deve così essere salvata dal pretendente appena respinto: ma occorre dire che, anche quando è costretta a far conto solo sulle proprie risorse, è in grado di badare piuttosto bene a se stessa; manca semmai della forza fisica per riguadagnare la libertà, certo non del coraggio o dell’intelligenza per costruirsi le occasioni adatte e tentare la fuga. Proprio come Thuvia (o, nel cinema, come Ripley di Alien e Valeria di Conan), è un altro personaggio femminile forte e indipendente che però mantiene intatta la propria femminilità, a differenza delle eroine contemporanee, che invece vengono mostrate ancora più maschie dei maschi – non solo nelle azioni ma spesso anche nel fisico e nel modo di fare – e spinte ad esibirsi in una sorta di revanscismo improbabile e fuori luogo che fa perdere loro ogni attrattiva, oltre che credibilità.
L’eroe della situazione è invece un certo Gahan, Jed di Gathol, che una sera viene presentato a Tara dallo stesso Carter e se ne innamora (di Tara, intendo, non di Carter): ma tutto rivestito di oro, diamanti e gioielli nello stile della sua città, non riesce ad impressionare la principessa, che anzi lo giudica effeminato e lo respinge. Tuttavia con le sue azioni Gahan dimostrerà il contrario: è il solo che, alla scomparsa di Tara, si lanci al suo inseguimento; e poi, dopo averla soccorsa, la guiderà e proteggerà per tutto il resto della storia, dando ancora prova del sua valore e della sua abilità con la spada, che Tara giudica seconda solo a quella dell’insuperabile padre, John Carter. Per non rivelarsi davanti alla principessa che lo aveva rifiutato, assume quindi l’identità di Turan il panthan (mercenario): e Tara, che pure aveva conversato con lui poco tempo prima, non lo riconosce fino alla fine, quando le viene rivelata la vera identità dell’eroe che le è rimasto al fianco per tutto il tempo. Ma a quel punto l’amore è già sbocciato.
Il terzo protagonista, il comprimario, è Ghek, il kaldane al quale il suo sovrano aveva ordinato di pascere Tara per farla ingrassare prima di banchettare con lei: ma Ghek viene incantato dal bel canto della principessa e, col suo aiuto, si rende conto che esiste anche altro nella vita oltre al freddo ragionamento. Così quando viene condannato a morte dai suoi per non essere stato capace di impedire a Tara di tentare la fuga, deciderà di aiutare lei e Gahan, appena apparso sulla scena, a fuggire e li seguirà nell’evasione. La sua testa rimovibile sarà utile ai protagonisti una volta giunti a Manator, perché gli permetterà sia di muoversi liberamente nei corridoi e persino nelle tane dei ratti che infestano il palazzo del Jeddak sia di giocare brutti scherzi alle guardie sia, soprattutto, di riguadagnare la libertà ogni volta che lo desidera. Come se non bastasse, come tutti i kaldane è dotato anche di un leggero talento ipnotico: in questo modo permetterà ai suoi due amici di fuggire mentre tiene sotto il proprio controllo O-Tar, il malvagio Jeddak di Manator.
E proprio O-Tar è il principale antagonista della storia: Jeddak di Manator, viene mostrato in bilico tra un bandito forte e coraggioso ed un impostore pavido ed incapace. Da un lato infatti ha tenuto il trono della città per oltre quattrocento anni, dimostrando quindi coraggio, abilità (politica e militare) ed efferatezza, necessaria in una città selvaggia come Manator; dall’altro però prova un terrore insensato per i protagonisti, che giudica fattucchieri o «corphal»; trema come una foglia solo all’idea di entrare in un’ala del palazzo considerata infestata; si spaventa al punto di perdere persino i sensi; mente riguardo all’impresa che non ha compiuto; e si mostra invece dedito a tutti gli stravizi che, nel modello classico, conducono inevitabilmente il colpevole alla caduta rovinosa. Nell’insieme ricorda un Agamennone con una lieve sfumatura comica.
L’altro antagonista è Luud, il re del formicaio di Ghek: appartiene al campo dei cattivi solo perché, decretata l’inutilità pratica e quindi l’inferiorità della forma umana completa, decide di riservare Tara ad un futuro banchetto. Viene ucciso da Gahan con l’aiuto di Ghek mentre cerca di mangiarsi Tara.
Altri personaggi che per una ragione o per un’altra hanno una qualche ricaduta sulla storia sono I-Gor (proprio così: Igor, o forse…Aigor), il vecchio impagliatore di Manator, che continua a cambiare alleanza e prima tradisce o inguaia più volte i protagonisti, poi aiuta Gahan a salvare Tara ed abbattere O-Tar; A-Kor, figlio di O-Tar e di una schiava, Haja di Gathol (zia di Gahan), che viene imprigionato per aver parlato male del padre ma alla fine della storia viene installato sul trono di Manator da U-Thor, Jed di Manatos, uomo giusto, capace ed amato dalla popolazione, che libera e sposa Haja ma ignorava l’esistenza del figliastro ed intende ora recuperare il tempo perduto. Da ultimo, rimane Djor Kantos, figlio farfallone di Kantos Kan, il miglior amico di Carter: viene presentato come fidanzato di Tara, anche se lui preferisce la compagnia di Olvia Marthis che infatti, trascorso un anno dalla scomparsa della principessa, sposa.

Gli uomini senza testa di Bantoom
Il nucleo della storia è sempre la stessa: l’eroina finisce nei guai e l’eroe accorre a salvarla. Per Dejah Thoris moglie di Carter è stato un lungo inseguimento, per Thuvia nuora di Carter un rapimento fantozziano, per Tara figlia di Carter è uno scatto d’ira che la porta chissà dove: infastidita dalla dichiarazione d’amore di un principe appena conosciuto (Gahan di Gathol), Tara prende la sua barchetta volante monoposto per scaricare la rabbia e si getta in una delle rarissime tempeste che sconvolgono Marte. Solo che la situazione si mette subito malissimo, perché a causa dei forti venti perde il controllo della navicella – che si danneggia – e così dopo due giorni di deriva finisce in una terra sconosciuta: Bantoom. Attratta dal panorama di campi coltivati e freschi ruscelli, quella notte scende a terra affamata ed assetata ma è costretta a cercare rifugio rapidamente su un albero quando viene inseguita da una decina di banth, i leoni marziani, ancora più affamati di lei: assediata per tutta la notte, al sorgere del sole tenta di sgattaiolare tra le torri senza essere vista ma si imbatte nei kaldane che vanno al lavoro nei campi con i loro rykor.
Subito catturata da Ghek, un sovrintendente dei coltivatori, viene condotta dal loro sovrano, Luud, che la reputa buona solo per essere divorata, quando sarà ingrassata: dà quindi ordine a Ghek di farle da custode. Passano le settimane e Tara finalmente si crea un’occasione per la fuga, che quasi le riesce, se solo non inciampasse in un solco nei campi, permettendo così ai suoi inseguitori di ricatturarla: nonostante il fallimento, il tentativo di fuga è però un evento chiave, perché mette in moto la catena di eventi che quella notte stessa le farà riguadagnare in libertà, sia pure brevemente.

Il ritorno di Gahan
Dopo un’assenza di alcuni capitoli, Gahan infatti è appena riapparso in scena: quando ancora la tempesta infuriava su Helium, era stato l’unico a mettersi subito sulle tracce della fuggiasca con la sua nave volante, dalla quale poi viene sbalzato fuori quando per soccorrere un marinaio si libera dell’imbracatura di sicurezza. Per effetto della forza dei venti, il principe non si schianta a terra ma, sballottato qua e là, viene infine deposto a terra con dolcezza dagli ultimi sbuffi: per caso sceglie la direzione corretta e, dopo settimane di marcia tra le colline, si trova al posto giusto al momento giusto. Da un’altura assiste infatti al tentativo di fuga di un uomo o donna (non riesce a distinguerlo per la distanza: accettiamolo), che però inciampa e viene ricatturato dai suoi strani inseguitori: non può farci niente e così riprende subito il cammino. Ma poco più avanti scopre la monoposto di Tara, nascosta sotto le fronde, e collega gli indizi: dal momento che ha visto dove hanno portato Tara – non ha più dubbi che fosse lei – decide di agire quella notte stessa.
Con la monoposto penetra nel recinto della torre e qui incontra Ghek, che è stato appena condannato a morte per essersi dimostrato incapace di impedire il tentativo di fuga della prigioniera: questi, che non è mai stato ostile a Tara ma anzi la trattava bene e veniva ricambiato col suo bel canto, si offre di aiutare l’eroe se poi potrà fuggire con loro. Stretta l’alleanza, i due scendono nelle camere di Luud, il re di quel formicaio kaldane, lo uccidono e salvano Tara: poi tutti e tre fuggono, per atterrare tempo dopo in prossimità di una città di cui non riconoscono le insegne. Quella città è Manator.
Inizia così la seconda parte del romanzo

I costumi di Manator
Affamati ed assetati, i tre prendono terra: al calare della notte Gahan – che è ancora Turan il panthan – va in esplorazione e, dopo aver abboccato a diverse esche, viene imprigionato; l’indomani, anche Tara e Ghek vengono catturati da una pattuglia che rientra, guidata da un certo U-Dor, un bruto. A questo punto inizia un tiramolla continuo che ha il fine principale di allungare la storia: ma nonostante questo viaggio sulle montagne russe il romanzo riesce comunque gradevole, non stanca né annoia.
In sostanza, Gahan rimane prigioniero finché non viene condotto davanti ad O-Tar, che si è convinto che i suoi compagni siano dei fattucchieri (corphal) e quindi deve esserlo anche lui. Ma è solo un espediente per riunire per l’ultima volta i tre e permettere la breve fuga di Gahan e Tara, grazie allo sguardo ipnotico di Ghek, che davanti a tutti tiene sotto controllo il Jeddak e minaccia di obbligarlo ad uccidersi se non lasciano fuggire i suoi amici, che così finiscono nelle catacombe del vecchio I-Gor, l’imbalsamatore.
Fino a quel momento anche Tara e Ghek avevano dato prova di essere pieni di risorse: Tara, condannata ad essere data in premio al vincitore di una partita a Jetan nell’arena, era stata rinchiusa in una torre, dove ammazza il violento carceriere e ne fa scomparire il corpo in una scala segreta, della quale però non approfitta per fuggire. Ghek invece si era divertito a giocare con le guardie, dal momento che separandosi dal rykor può esplorare ogni angolo della città e recuperare le chiavi delle catene che tengono legato il suo corpo: proprio per questo viene sospettato di stregoneria e condotto con Tara e poi Gahan davanti ad O-Tar, che li giudica tutti dei corphal.

Fuga, fuga e ancora fuga
Con la fuga di Tara e Gahan favorita dall’ipnotismo di Ghek la storia si fa così tirata che rischia di strapparsi: la narrerò per sommi capi, solo per dare un’idea dei fatti salienti.
Da I-Gor l’imbalsamatore, Tara e Gahan vengono separati ancora una volta: Tara pugnala I-Gor e crede di averlo ucciso ma viene ricatturata poco dopo; Gahan invece si traveste da guerriero manatoriano e, fingendo di essere un certo U-Kal della lontana Manataj, si iscrive come Capo alla partita a Jetan il cui premio è Tara. La partita nell’arena è un trionfo: Gahan non perde nessuno dei suoi ed uccide invece il brutale Capo avversario, lo stesso U-Dor che aveva catturato Tara e Ghek, vincendo così l’incontro.
Alla cerimonia di premiazione un redivivo I-Gor riconosce Gahan e Tara, così la squadra deve aprirsi la strada combattendo: ma Tara viene catturata per l’ennesima volta e Gahan molla tutto per inseguirla, mentre le sue forze, incluso Ghek, si congiungono con quelle di U-Thor, Jeddak di Manatos – un’altra città sotto il controllo di Manator – e rivale di O-Tar.
Salvata nuovamente Tara, i due protagonisti trovano rifugio in un’ala del palazzo del Jeddak creduta infestata dagli spiriti: informate ancora una volta dal vecchio imbalsamatore, le guardie timorose arrivano a stanarli ma Gahan riesce ad allontanarle facendo leva sulla loro immaginazione, mentre Tara viene subito ricatturata dall’arzillo I-Gor, che nonostante i duemila anni di età ed una pugnalata vicino al cuore mostra ancora una vitalità invidiabile.
A questo punto O-Tar, che prima sembrava solo barbaro e crudele, si è ormai trasformato in un cretino: viene accusato di viltà dai suoi, dal momento che manda altri nell’ala infestata e non ha il coraggio di andarci di persona. Lui per tutta risposta dichiara di voler sposare Tara e fissa le nozze una settimana più tardi: ma per non perdere del tutto la faccia – e con essa il posto e probabilmente anche la vita – è comunque obbligato a fare una visita all’ala infestata.
In una scena degna di Scooby-Doo, quando O-Tar arriva nella camera da letto dell’antico Jeddak che, cinquemila anni prima, era morto nel proprio letto alla vista di uno spirito (il suo corpo è ancora lì perché nessuno ha avuto il coraggio di rimuoverlo) sviene: da giorni infatti Gahan dorme in quel letto, accanto ai resti del cadavere, perché è il luogo più sicuro della città.
Entrando nella stanza, O-Tar fa rumore e sveglia così Gahan che, sbadigliando rumorosamente e sollevandosi dal letto ancora coperto dalle lenzuola, spaventa a morte il Jeddak, che perde i sensi: Gahan non approfitta delle situazione per ucciderlo e si limita a scavalcarlo quando esce dalla camera; ma I-Gor, che aveva seguito O-Tar di nascosto, gli sottrae il pugnale di rappresentanza e da quel momento diventa un seguace del protagonista.
Con un ultimo balzo avanti, si arriva così all’epilogo: il giorno delle nozze Gahan si sostituisce ad O-Tar, favorito nella sostituzione dal costume tradizionale che impone allo sposo un’imponente maschera cerimoniale. Ma quando la cerimonia è quasi conclusa e i due quasi uniti in matrimonio riappare il vero O-Tar, solo per essere messo in ridicolo da I-Gor, che mostra a tutti il pugnale sottrattogli. In quella arrivano anche le forze di Helium e Gathol che, allertate da Ghek e compagni, si sono unite a quelle di U-Thor per prendere il controllo della città: nelle ultime righe, A-Kor viene nominato Jeddak, Djor Kantos confessa a Tara di essersi appena sposato con Olvia Marthis perché la credeva morta, Carter rivela finalmente alla figlia la vera identità di Gahan e O-Tar ritrova la dignità suicidandosi col suo pugnale ritrovato.

Solo leggermente inferiore all’originale
Nonostante la trama così convoluta, «I pedoni di Marte» è un libro gradevole, solo di poco inferiore alla «Princpessa di Marte», il romanzo originale, che però era uscito dieci anni prima: le sfide che continuano a dividere i protagonisti appena riunitisi e ad ostacolare il loro ritorno a casa infatti non appesantiscono la storia come si potrebbe pensare, e una ragione c’è.
Si tratta chiaramente di artifici narrativi ai quali Burroughs ricorre per allungare l’intreccio – sette puntate sono tante: e «I pedoni di Marte» è l’episodio più lungo dei cinque pubblicati sin qui – e dei quali fa buon uso, a differenza del precedente «Thuvia, la fanciulla di Marte», dove a parte l’idea centrale non c’era molta più sostanza: qui c’è varietà, sia nel tipo di minaccia sia nelle modalità di liberazione, così non si ha l’impressione che si ripeta sempre lo stesso copione già visto. Soprattutto, Burroughs fa buon uso dei «cliffhanger», i momenti culminanti in cui abbandona il lettore alla fine di una puntata per costringerlo ad acquistare o almeno attendere il numero successivo della rivista. Tutto quindi contribuisce a ravvivare la storia e tenerla avvincente, anche se già se ne può intuire l’esito.
La narrazione parte quindi molto lontano per arrivare al suo nucleo, che è la partita a Jetan combattuta nell’arena: e quando arriva non solo occupa meno spazio di quanto fosse ragionevole aspettarsi ma è anche molto meno spettacolare del previsto. Gahan impiega un solo capitolo – e nemmeno per intero – per sbarazzarsi dell’avversario e non è mai in difficoltà una sola volta: anzi, è così padrone della situazione che può permettersi di giocare col Capo della squadra avversaria, che un po’ se lo merita.
Così il Jetan rimane il cuore della storia ma non ne è più l’attrazione centrale, che diventa invece l’ambientazione, le nuove informazioni su Marte introdotte liberalmente: i simbionti di Bantoom, la minaccia di Manator che arde sotto le ceneri, le sue strane usanze. Proprio questo tipo di creatività e «world building» avevano contribuito al successo delle prime avventure di John Carter ma si erano andati spegnendo nell’ultimo paio di volumi: e in «Thuvia» l’ambientazione era davvero scialba.
Con «I pedoni di Marte» invece l’ambientazione torna ad essere lussureggiante, per quanto caotica: bastano poche descrizioni della città di Manator perché si formi nella mente del lettore un’immagine che ricorda Lankhmar, la città in cui si muovono Fafhrd ed il Grey Mouser, i personaggi creati da Fritz Leiber. Una città così vecchia che trasuda antichità da ogni commessura, che rimane sporca e maleodorante per quanto si cerchi di tenerla pulita e in ordine, che continua a perpetuare costumi così primitivi che se ne sono perse le origini, che offre mistero, minacce e avventure ad ogni angolo buio. Manator ha davvero l’aspetto – e l’odore – della città dell’avventura, per parafrasare il titolo di un manuale di una vecchia edizione del gioco di ruolo AD&D dedicato proprio a Lankhmar.
I due protagonisti principali sono validi: Gahan è l’emblema dell’eroe burroughsiano valoroso ma un po’ tonto; e Tara è un’eroina credibile, capace di provvedere a se stessa e al tempo stesso mantenere tutta la propria femminilità, senza trasformarsi in un’«hulkessa» moderna, che di femminile ha giusto il nome: Burroughs è infatti abile a creare ottimi personaggi femminili, come aveva già dimostrato con Thuvia.
Per il resto, i personaggi sono abbastanza piatti, adatti a svolgere il ruolo assegnato: l’unica eccezione è Ghek, col quale Burroughs mostra ancora la sua attenzione per i personaggi diversi. Il kaldane si aggiunge così alla galleria di eroi positivi che però appartengono ad altre razze: oggi lo si intenderebbe come il tributo obbligatorio all’inclusione e alla diversità (il «token qualcosa») ma per Burroughs era probabilmente qualcosa di più, visto il rispetto per i primitivi che si comportano con onore che spesso emerge dai suoi libri. Si legga ad esempio ciò che scrive riguardo ai cavernicoli di Pellucidar, riguardo ai quali dice «che sono nobili di spirito ma mancano solo delle opportunità», a differenza dell’uomo moderno, «che ha le opportunità e nient’altro».
Nell’insieme, la struttura del romanzo è costruita a cipolla: il nucleo del Jetan è rivestito via via di tutte quelle situazioni necessarie per arrivare alla partita e poi di tutto quello che serve per giungere all’epilogo progettato, con qualche extra. L’impressione è che siano due storie in una, divise in tre parti: una storia è costituita dall’antefatto e da Bantoom, l’altra da Manator, scandita a sua volta dal processo per stregoneria, che divide questa storia in altre due parti, la seconda delle quali così caotica da essere la sola colpevole di quell’impressione che la trama sia tirata per le lunghe di cui già si è parlato.
Nell’insieme c’è anche meno azione del solito – l’altro piatto della bilancia quando si costruisce l’ambientazione – e qua e là si nota incoerenza tra fatti già stabiliti: non mi riferisco tanto alla telepatia, della quale ormai da tempo c’è più traccia nel ciclo, ma soprattutto all’atteggiamento mutevole di O-Tar, ma si è disposti a soprassedere perché è marginale e semmai serve ad accrescere l’idea che il Jeddak sia un pazzo.
Così «Le pedine di Marte» è esattamente quello che ci si può aspettare da un’avventura marziana: un’ottima lettura d’evasione.

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