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Edgar Rice Burroughs – Gli dei di Marte (Barsoom 2)

È raro che il seguito di un libro sia buono quasi quanto l’originale: nel migliore dei casi le nuove avventure sono giusto decenti ma più di frequente si tratta solo di pasticci privi di creatività che cercano di mettere a frutto una storia o un’ambientazione particolarmente fortunata. «Gli dei di Marte» di Edgar Rice Burroughs (The Gods of Mars, 1913), secondo episodio del lunghissimo ciclo di Barsoom, però non appartiene a nessuno dei due gruppi appena citati ma fa parte di quella rara categoria di seguiti che riescono a tenersi al passo con l’originale: certo, rimane leggermente inferiore alla «Principessa di Marte» (ormai si è persa la sorpresa della scoperta) ma lo è di poco, perché si reggerebbe anche come opera a sé. Proprio come nel predecessore infatti l’ambientazione è grandiosa, il ritmo incalzante e l’azione incessante: e, come in quello, anche qui abbondano le coincidenze e i colpi di fortuna – sono persino più frequenti che nell’originale – il solo difetto di un libro che peraltro rimane godibilissimo e ricco di idee.
E, come non mi stanco mai di ripetere, alla fine questa è la sola cosa che conta.

Un’uscita lampo
Pubblicato in cinque parti su All-Story, dal gennaio al maggio 1913 (quindi appena sei mesi dopo la puntata conclusiva della prima avventura), raccolte poi in volume nell’autunno 1918, «Gli dei di Marte» è dunque il seguito della «Principessa di Marte», il primo degli undici libri che formano la lunga serie di Barsoom, dal nome marziano del quarto pianeta: come ho già osservato nella precedente recensione, si tratta di un ciclo importantissimo per la narrativa d’evasione, capace di influenzare ancora oggi, a più di un secolo di distanza, la fantascienza e l’immaginario collettivo con i suoi deserti ricoperti di rovine grandiose e le sue avventure in cui si mescolano passato e futuro, tradizione e tecnologia, spade e fulminatori, bestie selvagge e navi volanti.
La storia è il diretto seguito della precedente, anche se tra la conclusione dell’una e l’inizio dell’altra passano dieci anni: compreso il meccanismo di trasmigrazione dell’anima, John Carter è riuscito a ritornare sul pianeta rosso ma è comparso in una zona che non riconosce. Impiegherà così tutto il libro per cercare di tornare alla città di Helium e raggiungere la moglie Dejah Thoris, superando ostacoli ed insidie persino maggiori di quelle che aveva domato nel suo precedente soggiorno: ma alla fine riuscirà persino a sovvertire le credenze religiose dell’intero pianeta, guidando una sorta di rivolta contro gli impostori che si spacciano per gli dei titolo, ed in particolare contro colei che si crede la signora della vita e della morte.
La storia è avvincente ma colpisce per una caratteristica: quasi tutti gli eventi si concentrano nell’arco di una settimana dal ritorno sul pianeta di Carter; l’epilogo tuttavia si consuma quasi un anno terrestre più tardi: e questo lungo periodo intermedio viene liquidato in una manciata di pagine, con un espediente nemmeno troppo creativo per giustificarlo.

Piccolo il pianeta!
Anche se la motivazione fornita per questo salto temporale è grossolana e mostra chiaramente di essere necessaria solo per fini narrativi, l’aspetto dell’intreccio che fa davvero aggrottare la fronte al lettore è tuttavia un altro: la catena di coincidenze che continuano a presentarsi e risolvere situazioni apparentemente senza via d’uscita. Già nel precedente episodio questi colpi di fortuna erano numerosi ma non al punto di affliggere la storia: negli «Dei» invece diventano la struttura stessa su cui si regge la trama.
Va bene che Marte è più piccolo della terra ma rimane sempre un pianeta, e pure grandicello: eppure, appena apparso sulla sua superficie, Carter subito incontra e salva l’amico Tars Tarkas, e in una zona dove non ci si aspetterebbe di trovare nessuno perché coincide con l’aldilà marziano; poco dopo, catturato dai pirati neri, il protagonista viene rinchiuso nella stessa cella in cui da un anno già si trova suo figlio Carthoris, che mai aveva visto dato che questi è nato appena dopo la sua precedente scomparsa da Marte; evasi anche da questo carcere, in un’oasi di una zona disabitata del pianeta i nostri si reimbattono in Thuvia, la schiava fuggiasca che già aveva salvato Carter all’inizio, e grazie alle sue indicazioni scoprono che Tars Tarkas è prigioniero di una tribù nemica, così possono liberarlo immantinente; e nel finale Carter trova, salva e riperde la moglie Dejah Thoris proprio all’ultimo momento, ma questo sotterfugio appartiene al più tradizionale repertorio pulp e non sembra così forzato come gli altri esempi citati (e sono solo i principali).
È proprio questa catena di eventi fortuiti l’unico elemento di disturbo nella trama altrimenti godibilissima degli «Dei»: si sente sempre presente la mano dell’autore, il vero dio della storia. Così nessuna situazione appare mai davvero disperata, perché tanto si sa che Burroughs ha già escogitato un modo per far uscire dai guai i protagonisti. D’altro canto però questo espediente permette all’autore anche di osare, di mettere Carter ed i suoi contro minacce sempre più grandi ed avversari sempre più minacciosi e così di raccontare una bella storia, una di quelle che si leggono quasi senza fermarsi: l’incredibile diventa l’ingrediente principale della trama e in questo modo Burroughs non è costretto a frenare la sua fervida immaginazione.

Nuovi amici e luoghi nuovi
Negli «Dei di Marte» ritornano, sia pure brevemente, tutti i principali protagonisti della «Principessa», a cominciare proprio dalla principessa del titolo e moglie del protagonista, Dejah Thoris, che fa una fugace apparizione nel finale: ricompaiono poi anche Tars Tarkas, il Jed o capo dei marziani verdi che è divenuto il miglior amico di John Carter, e Kantos Kan, uno dei suoi più accesi sostenitori.
Ma è soprattutto sulle nuove conoscenze di Carter che si concentra l’attenzione del libro: tra tutti, il figlio Carthoris (sincrasi dei nomi dei genitori: John Car-ter e Dejah Thoris), l’unico marziano rosso visto sinora che abbia un nome solo, oltre che il protagonista del prossimo ciclo. Carthoris è in tutto uno splendido esemplare della razza rossa ma conserva anche qualcosa dell’indomito spirito terrestre e soprattutto del «superatletismo» paterno, che si spiega con la gravità più bassa del quarto pianeta. Ma rilevanti sono anche Thuvia, schiava fuggiasca che sarà coprotagonista del quarto libro della serie (assieme al figlio di Carter, Carthoris); e Xodar, nobile della razza dei marziani neri caduto in disgrazia a causa di Carter, che però lo prende con sé e riscatta, trasformandolo così in amico e alleato. Tutti aiuteranno il protagonista ad uscire dai guai e si distingueranno per il valore con cui combattono al fianco dell’eroe.
In questa seconda avventura si espande di parecchio anche la conoscenza del pianeta, dei suoi abitanti e delle sue tradizioni: si esplora in particolare il Polo Sud marziano, dove si trovano due luoghi di particolare importanza. Il primo è la felice valle di Dor col misterioso fiume Iss, dove appare Carter in seguito al suo trasferimento su Marte: qui i marziani che, dopo aver vissuto un migliaio di anni, sono stufi della loro esistenza compiono il pellegrinaggio per raggiungere quello che viene ritenuto il paradiso terrestre, dal quale nessuno è mai tornato. Nessuno tranne uno che, nel lontano passato, era fuggito per avvertire i concittadini degli orrori che qui li attendono: ma il suo ritorno e le sue rivelazioni non vennero accolte bene dagli altri marziani, che subito lo misero a morte. Da allora è rimasta in vigore questa tradizione per chiunque decida di tornare indietro dal pellegrinaggio.
La valle di Dor è un luogo di rara bellezza, soprattutto per un pianeta deserto come Marte: non solo perché giace sulle rive di un mare, il mare perduto di Korus (i grandi bacini d’acqua sarebbero scomparsi da tempo immemore), ma anche perché qui crescono erba, tagliata cortissima, ed alberi, splendidi e curati, ma solo perché l’una e gli altri sono il nutrimento di una razza di creature bestiali, gli Uomini Pianta, che si nutrono di vegetali e sangue umano. Questi esseri infatti hanno al posto delle braccia due lunghi tentacoli e al posto delle mani due bocche che fanno scorrere sul terreno per falciare l’erba oppure sollevano come proboscidi verso gli alberi per strapparne i ramoscelli più bassi: quando invece incontrano i pellegrini che credono aver raggiunto il paradiso, li aggrediscono a balzi e li uccidono colpendoli sulla testa con la loro possente coda e poi ne succhiano il sangue.
Qui, in una città fortezza scavata nella catena dei monti di Otz, vivono i Thern, i decaduti marziani bianchi che si credono gli dei del pianeta: a volte catturano i pellegrini per farne schiavi ma più spesso si divertono ad attirare su di essi gli Uomini Pianta, in base al capriccio del momento. Per difendere la loro segretezza e le leggende che sono sorte attorno alla valle di Dor, hanno costruito una rete di infiltrati e templi segreti in tutte le città marziane, che vigilano affinché nessuno osi tornare vivo dal pellegrinaggio: i loro agenti operano anche ad Helium. la città di Carter, ed ovviamente collaborano con gli impostori che ne hanno preso il controllo durante l’assenza dell’eroe. Prigionieri nella loro stessa fortezza, i Thern si nutrono di carne umana (quella degli schiavi) e temono gli attacchi dei Primi Nati, i marziani neri, che credono provenire dalle lune del pianeta.
Quando decidono che è venuto il momento di un nuovo saccheggio, i Primi Nati scendono sui monti di Otz con le loro navi volanti e razziano tutto quello di cui hanno bisogno, soprattutto schiavi: perché, pur civilizzatissimi, anche loro sono cannibali e disprezzano il lavoro manuale.
In realtà i marziani neri – una delle tre razze originali dalla cui mescolanza sono infine discesi i marziani rossi, la stirpe oggi dominante – vivono nelle profondità del pianeta, in una caverna sconfinata nella quale si trova la gran parte delle acque del pianeta, che formano il mare di Omean, costellato di isole: dal momento che qui si raccolgono le acque di tutto il pianeta, un sistema di pompe evita che la caverna si allaghi completamente e riversa quella in eccesso alla superficie, dove riempie i canali che forniscono la scarsa acqua disponibile al resto del pianeta.
Un sommergibile collega questo luogo con un altro giardino lussureggiante nel quale vive un’altra dea. Anzi, la dea di Marte, dal momento che a lei e al suo tempio persino i Thern rendono onore: è Issus, la dea della vita e della morte, una vecchia sdentata dei Primi Nati che sembra una prugna secca. Chiunque la veda in volto e non appartenga alla razza dei marziani neri può vivere solo un anno (marziano, dettaglio importante per la trama), al termine del quale viene ucciso e servito in tavola: e se si pensa che su Marte nessuno indossa vestiti, si può comprendere perché chi vede Issus non possa vivere più a lungo. Non deve essere proprio un bello spettacolo.
Da ultimo, alcuni aspetti vengono rivisti e ridimensionati rispetto a ciò che era stato stabilito nel precedente libro: il più illustre è la telepatia, che nella «Principessa» costituiva un elemento importante (tutte le creature marziane nascono telepatiche, tanto che il linguaggio stesso include l’uso della comunicazione mentale) mentre qui è quasi dimenticata. Fa giusto un’apparizione quando Carter si infiltra nel campo dei Warhoon per salvare Tars Tarkas e ricorda che i thoat, le bestie usate come cavalli dai marziani verdi, siano controllati tramite la telepatia. E c’è anche minore enfasi sull’escursione termica, non solo tra il giorno e la notte ma persino tra le zone temperate del pianeta e l’«immensa distesa di neve e ghiaccio» del Polo Sud: nella «Principessa» attrezzarsi di pelli per superare le gelide notti nel deserto era essenziale per la sopravvivenza; qui invece le navi volanti passano sui ghiacci e nessuno a bordo sente il bisogno di infilare nemmeno una maglietta della salute.

Ritorno su Marte
Dopo dieci anni trascorsi sulla terra a vagheggiare Dejah Thoris e cercare il modo di tornare su Marte, finalmente un bel giorno John Carter viene trovato stecchito: secondo le sue disposizioni testamentarie, il corpo viene seppellito in una sorta di cripta aerata che può essere aperta solo dall’interno. Carter infatti non è proprio morto: ha solo abbandonato il suo corpo per tornare su Marte. Ne avrà infatti ancora bisogno nel prossimo futuro: senz’altro un paio di anni più tardi, quando torna brevemente sulla terra per scrivere le memorie che Burroughs finge di aver ricevuto in custodia per la pubblicazione del libro che si sta leggendo.
Riapparso dunque su Marte, Carter si trova in una zona del pianeta che non ha mai visto prima: è così diversa dall’ambiente che gli è familiare che in un primo momento teme addirittura di essere finito su un altro mondo; solo più tardi scoprirà che è la valle di Dor, dove i marziani vanno in pellegrinaggio alla fine della loro vita, ossia attorno al migliaio di anni di età. Questo luogo è stupendo: un bosco di alberi floridi e curati, con un prato tagliato cortissimo ed un placido mare sullo sfondo, ben altro scenario dai desolati deserti di sabbia, rocce e muschio che costituiscono il panorama consueto del quarto pianeta. Qui però viene subito attaccato da un gruppo di creature mai viste prima, attirate sulla sua posizione da uno strano richiamo: è un branco di Uomini Pianta, creature bestiali, malvagie e aggressive il cui cervello non è più grande di un pisello. La loro particolarità sono le braccia, due lunghi tentacoli che terminano in una bocca ciascuno: con queste falciano l’erba e strappano i ramoscelli più bassi, la loro alimentazione base, che integrano con abbondanti libagioni di sangue umano. Prima di raggiungere Carter però gli Uomini Pianta incontrano ed attaccano un gruppetto di sei marziani verdi, tra i quali il protagonista scorge Tars Tarkas, il suo più grande amico: così corre in loro soccorso e combatte al fianco dei superstiti, che presto si ridurranno al solo Tars.
Datisi alla fuga per non essere sopraffatti dagli aggressori, i due eroi riescono a scalare un picco passando per l’interno di un albero cavo, nel tronco del quale è stata ricavata una scala, e si avventurano in una galleria chiaramente artificiale: qui sopravvivono ad ulteriori agguati da parte dei crudeli abitanti delle gallerie, gli ancora più malvagi Thern, i marziani bianchi. Solo il valore e l’arguzia di Carter li salvano, quando scorge una parete mobile che è veloce ad infilare per poi uccidere al di là il loro carnefice: fa sorridere la meschinità di Carter, che prima dileggia il suo avversario perché gli spara a vista invece di usare la spada come vorrebbero le regole di cavalleria marziane e poi, quando se la vede brutta nel duello all’arma bianca, lui stesso afferra la pistola sfuggita di mano al Thern per far fuori l’avversario, senza troppi dilemmi morali.
Terminato il combattimento, Carter libera un certo numero di schiavi dei Thern che quel giorno sarebbero stati serviti alla mensa dei loro padroni, che si nutrono solo di carne umana fatta prima dissanguare dagli Uomini Pianta, per i quali hanno una sorta di venerazione in quanto discendenti diretti del Primo Albero ormai scomparso. Tra i salvati c’è anche una certa Thuvia, schiava addestratrice di banth (sorta di leoni locali), che subito si comprende essere destinata a ricoprire un ruolo di una certa rilevanza nelle vicende a venire: ha un nome infatti, e si mostra da subito capace.
Con loro Carter e Tars si avventurano nelle gallerie dei Thern, sui quali viene così gettata un po’ di luce: si tratta proprio dei marziani bianchi ritenuti estinti, che si credono i signori di Marte; anzi, credono di esserne gli dei, anche se poi loro stessi pagano tributo ad Issus, la dea della vita e della morte, della quale omaggiano il tempio. Questi Thern dispongono di una rete di agenti che raggiunge ogni città marziana ed opera per tenere viva la credenza che la valle di Dor sia il paradiso in terra, e guai a chi torna indietro dopo aver intrapreso il pellegrinaggio: così si sono garantiti un flusso ininterrotto di carne fresca, che a volte decidono di catturare per farne schiavi (e poi riempire le dispense) ma più spesso abbandonano agli Uomini Pianta, che anzi attirano verso i pellegrini con richiami particolari, come quello usato all’apparire del protagonista. I Thern hanno anche una particolarità: sono completamente calvi ed indossano parrucche ingioiellate per nascondere la testa pelata.
Quando finalmente Carter, Tars e Thuvia (gli altri schiavi liberati sono morti in uno scontro) riemergono all’aperto e stanno per lasciare i monti di Otz li colpisce una nuova catastrofe: dal cielo scendono i pirati neri di Barsoom, i cosiddetti Primi Nati, che di quando in quando attaccano in forze la città dei Thern per saccheggiarla, prendere schiavi o anche solo per divertirsi. Perché nella società dei marziani neri il lavoro è disonorevole e la sola attività lecita è il combattimento o, appunto, la pirateria.

Il sottosuolo di Marte
Aprendosi la strada con le armi, Carter raggiunge una navicella a due posti dei pirati, nella quale entra con i due compagni di fuga: ma il loro peso è eccessivo e così l’eroe, avviati i controlli, balza giù dallo scafo per alleggerirlo e mettere in salvo almeno gli amici, che però non sanno pilotarla. Ma in questo modo si espone ancora al pericolo: combattendo contro Primi Nati e Thern, alla fine riesce a salire a bordo di una nave più grande dei marziani neri e la ripulisce di tutto l’equipaggio tranne uno, il nobile Xodar, che prende prigioniero; a bordo c’è anche una principessa Thern, Phaidor figlia di Matai Shang (il loro capo), che ovviamente si innamora di Carter e gli riversa addosso tutto il suo odio quando lui la respinge goffamente, perché il suo cuore appartiene solo a Dejah Thoris.
La fuga dei nostri però dura poco, perché l’indomani mattina vengono raggiunti e ricatturati dalla flotta dei neri: vengono così condotti nell’impero sotterraneo dei Primi Nati, un’enorme cavità al cui interno si trova un oceano costellato di infinite isole (probabilmente l’ispirazione del ciclo di Pellucidar, la terra cava, pubblicato a partire dal 1914). Carter viene chiuso in una prigione dalle mura alte una decina di metri ma convenientemente senza tetto assieme ad un altro prigioniero, un giovane rosso che subito colpisce Carter per aspetto e spirito: infatti è suo figlio Carthoris, anche se ancora non lo sa.
La rivelazione dell’identità arriverà molto più avanti.
Poco dopo Carter e Phaidor vengono condotti al cospetto di Issus, la dea della vita e della morte, il cui palazzo si trova da qualche parte raggiungibile solo con un lungo viaggio in sommergibile. Nessuno tranne i neri può guardare in faccia Issus: chi lo fa vive ancora un anno (marziano) e poi viene ucciso e trasformato in pranzo, perché anche i Primi Nati, come i Thern, sono cannibali. Quando gli viene permesso di voltarsi, Carter finalmente può vedere in volto colei che calpesta un intero pianeta: una vecchia avvizzita e senza denti, dall’espressione – oltre che dall’indole – malvagia. Carter viene condannato a combattere nell’arena per il diletto di Issus e degli altri nobili neri: e Xodar, degradato per essersi fatto disarmare e catturare da Carter, in segno di dileggio viene dato come schiavo a Carter: ma il terrestre sta già meditando la fuga e gli promette di prenderlo con sé.
L’indomani Carter e il figlio (di cui ancora ignora l’identità) vengono portati all’arena, dove regalano un brutto quarto d’ora ai Primi Nati: disgustato dall’imminente destino delle schiave il cui anno di vita è scaduto, Carter guida Carthoris e gli altri prigionieri in una rivolta che a momenti riesce e viene sventata solo mediante la classica botola segreta, nella quale l’eroe e suo figlio cadono come polli proprio quando stanno per uccidere Issus. Poco male, il giovane non ancora rivelatosi sa come uscire dalla cella sotterranea: assieme tornano quindi di soppiatto al sommergibile, lasciato incustodito, che usano per tornare alla prigione dov’è ancora rinchiuso Xodar.
Come molte delle idee di Carter, il piano di fuga è assurdo ma riesce: per tornare in carcere senza destare sospetti, i due fingono di essere schiavi ubbidienti che sono stati rimandati indietro dall’arena e devono essere ricondotti in prigione. Così possono ricongiungersi con Xodar ed evadere nottetempo assieme a lui, grazie ai soliti balzi esagerati dell’eroe: impadronitisi di una nave volante, nella fuga si tirano dietro l’intera flotta dei neri ma si nascondono dietro un banco di nuvole e così fanno perdere le loro tracce.
Almeno fino a quando il vascello, danneggiatosi nella fuga, non li abbandona e li costringe ad un atterraggio di forturna in un’oasi.

Ritorno a casa
E così ritrovano Thuvia: proprio qui infatti un paio di giorni prima si era schiantata la navicella con cui Carter l’aveva fatta fuggire assieme a Tars Tarkas. Alla faccia delle coincidenze!
Il Jed dei verdi però non è più con lei: è stato infatti catturato dai Warhoon, nemici giurati della tribù dei Thark alla quale appartiene Tars, che occupano le rovine di una città poco distante. Carter si incarica della missione di salvataggio, che riesce meglio del previsto: i due si impadroniscono infatti anche di cinque thoat, le bestie usate come cavalli dai verdi, uno per ciascuno dei compagni di fuga.
Presto scoperti e inseguiti dai Warhoon, vengono salvati dalla provvidenziale apparizione una squadriglia di navi volanti di Helium, la città di Carter: la comanda l’ammiraglio Kantos Kan, vecchio amico di Carter, che gli rinnova il giuramento di fedeltà assieme a tutti gli ufficiali e marinai. Ma intanto è scomparsa Thuvia.
Tornato a Helium, Carter scopre che solo pochi giorni prima la moglie Dejah Thoris, affranta per la perdita del marito prima e del figlio poi, aveva deciso di intraprendere il pellegrinaggio per la valle di Dor, dove però non è mai giunta: l’arrivo improvviso di Sola (la figlia di Tars Tarkas), che l’aveva accompagnata nel viaggio, rivela infatti che la piccola comitiva è stata attaccata dai neri, che hanno preso prigioniera Dejah Thoris e ucciso tutti gli altri.
L’eroe medita quindi una spedizione di soccorso ma viene fermato da Zat Arras, nobile di Zodanga, la città già sconfitta da Carter e dai verdi nel libro precedente, che ha assunto il potere ad Helium in assenza del padre e del fratello di Dejah Thoris, partiti in due diverse spedizioni di ricerca dello scomparso Carter. Ovviamente Zat Arras governa da despota e riesce a far condannare a morte il terrestre per essere tornato dalla valle del Dor: ma l’esecuzione viene sospesa per un anno e Carter condannato agli arresti domiciliari, così è libero di avviare in segreto i preparativi della spedizione di soccorso assieme ai marziani che gli sono fedeli. Ma una notte viene rapito dal suo letto e, attraverso gallerie segrete, rinchiuso in una prigione sotterranea, dove rimane quasi un anno terrestre: quand’è ormai certo che non ci sia più tempo per salvare la moglie dai neri, viene liberato da Carthoris, al quale era riuscito a far sapere che era ancora vivo mediante un altro dei suoi piani impossibili.
Il figlio però gli restituisce la speranza, perché gli ricorda che l’anno marziano è più lungo di quello terrestre: Dejah Thoris potrebbe essere ancora viva.

Rivolta contro gli dei
In men che non si dica il corpo di spedizione è pronto a partire: migliaia di navi per un milione e mezzo di uomini (rossi e verdi), raccolti e addestrati in segretezza dagli alleati durante la prigionia del protagonista, il cui obiettivo è non solo liberare Dejah Thoris ma anche cancellare i Thern, i Primi Nati ed i loro regni di iniquità.
Al termine di una colossale battaglia aerea, Carter ed alcune centinaia di rossi riescono a penetrare nel palazzo di Issus, che poco più avanti verrà fatta a pezzi dal suo stesso popolo su istigazione del protagonista, che però non se la sente di sporcarsi le mani col sangue di una donna, per quanto malavagia.
Separato dalle sue forze e vagolando a caso, il nostro ritrova la moglie, spaventata ma illesa, e decide di abbandonarla nuovamente – ma in una stanza sicura, e brevemente – visto che fuori imperversa ancora la battaglia. Ovviamente è la scelta più stupida che potesse fare, perché quando torna a prenderla Dejah Thoris non c’è più: è stata ricatturata da Issus e rinchiusa assieme a Thuvia e Phaidor in una stanza del tempio del sole, che ruota e rende accessibile ciascuna delle sue cinquecento e più stanze solo un giorno all’anno, sempre marziano. Quando Carter la raggiunge nuovamente c’è appena il tempo di un addio e, mentre il muro si sta sigillando, di vedere Phaidor che si getta con un pugnale contro Dejah Thoris: è la sua vendetta per essere stata respinta dall’eroe.
E su questa scena drammatica si chiude il libro: «Il signore della guerra di Marte», terzo libro della serie, è già pronto e sarà pubblicato da All-Story pochi mesi più tardi, a partire dal numero di dicembre dello stesso anno, il 1913.

Commenti finali 1: un concentrato di idee
«Gli dei di Marte» è un concentrato di idee con alcune debolezze, come la serie di coincidenze che guidano la trama nella direzione desiderata e la risoluzione forzata di certe situazioni apparentemente disperate: ma nell’insieme è un libro solido – un po’ ingenuo magari, come potevano esserlo i romanzi di un secolo fa – e piacevole, che si collega abbastanza bene all’ambientazione e agli eventi della «Principessa» e contribuisce ad ampliare di molto la conoscenza di Marte e dei suoi abitanti, così alieni nonostante il loro aspetto umano.
Come non mi stanco mai di ripetere, le idee e l’ambientazione sono infatti più importanti della trama e dei personaggi, che qui per la verità sono abbastanza piatti e, nel caso dell’intreccio, piuttosto prevedibile, sia pure con l’aggiunta di complicazioni sempre nuove per far progredire la storia: l’ambientazione però rimane solidissima e affascinante perché non solo mescola passato e futuro (qui simboleggiati dalla compresenza di spade e navi volanti) ma lascia anche spazio all’individuo senza soffocarlo nella mediocrità che è conseguenza della tecnologia; anzi, per quanto comune e straordinaria, la tecnologia su Marte non è mai onnipresente né onnipotente: svolge solo un servizio, tutto qui.
Così nel ciclo di Barsoom il coraggio e l’eroismo sono ancora i valori cardine di un mondo che, pur morente, rimane testardamente attaccato alle sue tradizioni e alla sua moralità millenarie: ecco che quindi si è già creato lo scenario ideale per un mondo ricco di avventura ed immaginazione. Che poi è terreno fertile di idee, appunto.

Commenti finali 2: narrazione in prima persona
Proprio come il precedente, anche «Gli dei di Marte» è scritto in prima persona, per dare l’impressione di essere realmente il memoriale che lo zio John Carter avrebbe scritto e consegnato al nipotino Edgar perché lo pubblicasse, o ne facesse quello che voleva. Ciononostante, la storia è narrata con entusiasmo ed un ritmo sostenuto, tanto che è difficile staccarsi dalla lettura: non ci sono quasi mai pause o tempi morti e le poche interruzioni che affiorano qua e là (per lo più in corrispondenza dei punti di congiunzione tra le diverse puntate in cui il romanzo era stato suddiviso per la pubblicazione su All-Story) sono brevi, utili per riprendere il fiato in vista di ciò che sta per arrivare.
Solitamente trovo sgradevoli i libri scritti in prima persona e li evito: come già Cesare aveva compreso, l’uso dell’io narrante suona presuntuoso; ad un abile scrittore (e Burroughs lo è) la terza persona offre invece maggiori possibilità di vanteria, tutte molto più sottili ed efficaci dell’approccio diretto. Così in genere i libri in cui il protagonista racconta quanto è fantastico perdono attrattiva perché sanno di boria e ostentazione, come quell’amico che ci sta qui e che continua a montare storie incredibili sui suoi successi lavorativi, sportivi, finanziari, amorosi ma per qualche ragione rimane sempre la stessa mezza calzetta: ma nei libri di Carter (includo anche la «Principessa») l’uso della prima persona non disturba affatto. Aggiunge semmai carattere al protagonista, che è chiaramente una spanna sopra chiunque altro e sa di esserlo sebbene ostenti una falsa modestia: ma può permetterselo, dopotutto non solo ha già salvato Marte una volta e ha sposato la donna più bella del pianeta ma adesso ne ha anche demolito gli dei.
Così nella mente del lettore a Carter si associa l’immagine del neoconvertito che è così assorbito nella sua nuova fede che fa il bulletto con tutti gli altri: ed ora anzi ha preso ulteriore confidenza, quella confidenza che nel primo libro ancora gli mancava, e perciò si sente di poter fare il gradasso con tutti, anche con i marziani puri (per quanto possano esserlo i rossi, risultato dell’incrocio di tre razze) e di nobile nascita, alla presenza dei quali nel primo episodio si avvertiva ancora un certo suo disagio.

Commenti finali 3: un cast variegato
L’inclusione del ciclo di Barsoom nella famigerata «Appendice N» del Manuale del Master di AD&D (che è del 1979) dimostra la sua influenza sul fantasy moderno, una cui caratteristica è l’origine multirazziale dei protagonisti: e «Gli dei di Marte» offre uno dei primissimi esempi di questa tendenza del genere fantastico, che era visibile già nella «Principessa di Marte», sia pure in maniera più contenuta (si trattava solo di Carter e Tars Tarkas). Adesso infatti il cast principale è formato da quattro eroi in rappresentanza di altrettante razze: Carter, il terrestre; suo figlio Carthoris, per i marziani rossi dominanti; Xodar, per i neri Primi Nati; e Tars Tarkas, per i verdi, l’unico non umano di aspetto. Mancano solo i bianchi (dei quali fa le veci Thuvia, quando è presente) ed i gialli non ancora incontrati.
Certo, sono tutti guerrieri che si distinguono l’uno dall’altro non tanto per le competenze individuali come vorrebbe la convenzione quanto per le diverse conoscenze (ciascuno serve a gettare luce sulla propria società) – e su tutti spicca sempre la grandezza di Carter – ma l’abbozzo di un gruppo così variegato mostra già un tentativo di diversificazione che è notevole in un libro scritto più di un secolo fa, quando il fantasy ancora non esisteva come genere a sé e semmai confluiva nel più vasto e generico romanzo d’avventura. Con gli «Dei» ci si trova davvero alle sue origini, quando si sono iniziate a mettere le basi di un colosso che era cominciato come genere d’evasione ma oggi, ahinoi, è diventato sin troppo popolare e serioso.
Così, per un paradosso, l’aria più fresca si rinviene non nelle ultime uscite ma in un libro vecchio più di un secolo.

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