Ah, il coraggio della fantascienza degli anni Settanta! Quando tutto era possibile, anche le trame più assurde, se serviva a scrivere una bella storia: e «Recall Not Earth» di C.C. MacApp (1970) coraggio ne ha da vendere, perché parte da uno spunto così ardito come la distruzione della terra (ad opera degli alieni, si badi bene, e non dell’inquinamento) per costruire una space opera solidissima, che vuol dire ricca di azione e povera di caratterizzazione e quindi squisitamente pulp.
Un libro dimenticato
Libro dimenticato dal tempo e dagli editori, «Recall Not Earth» è la penultima opera di C.C. MacApp, pseudonimo dello scrittore Carroll Mather Capps che, già malato da anni, sarebbe morto l’anno successivo alla pubblicazione di questo volume: e se si eccettua una traduzione polacca uscita negli anni Ottanta, «Recall Not Earth» non ha più ricevuto alcuna ristampa dopo la prima ed unica edizione americana del 1970.
Ambientata in un futuro imprecisato ma non troppo distante dall’oggi del lettore, la storia mette subito davanti al fatto compiuto: la terra non c’è più, distrutta otto anni fa da una razza di alieni, i Vuls. L’umanità, che stava muovendo i primi passi nello spazio, era infatti già riuscita a pestare i piedi a questi umanoidi spietati e pragmatici che, spaventati dalla spavalderia dei parvenu terrestri, non hanno esitato a mandare l’intera loro flotta a darci una lezione ed al tempo stesso mettere in guardia le altre razze dal fare altrettanto: annientate facilmente le nostre deboli difese, i Vuls hanno poi estirpato rapidamente ogni forma di vita dal pianeta bombardandolo con radiazioni ed altre amenità che lo renderanno inabitabile almeno per millenni.
Solo un’astronave terrestre si è salvata, quella del protagonista, il giovane commodoro John (Johnathan) Braysen, ora trentasettenne, che vista la sconfitta inevitabile ha forzato il blocco dei Vuls per darsi alla fuga: in tutto un mezzo migliaio di uomini – soltanto uomini – che orfani di un pianeta e di un domani si sono reinventati come mercenari al soldo delle altre specie della galassia. Una galassia tra l’altro molto abitata e anche molto bellicosa.
Per l’umanità però non c’è futuro: senza più donne, ai pochi superstiti rimane solo lo spettro di una rapida estinzione.
Le razze principali
Nella storia compaiono una mezza dozzina di razze, solo una minima parte di quelle che abitano la Via Lattea: alcune di queste sono umanoidi, altre di umano non hanno niente; alcune dominano imperi, altre sono soggiogate; alcune sono scomparse da migliaia di anni, altre sono persino benevole; tutte però sono molto battagliere e non perdono occasione per farsi la guerra.
I terrestri, che negli ultimi otto anni sono scesi a meno di trecento superstiti a causa della professione che si sono scelti, vivono sparsi su un’infinità di pianeti, quasi ognuno per sé: ormai rassegnati all’estinzione della specie per l’assenza di donne, in molti si sono abbandonati ai vizi, alle droghe, al fatalismo; alcuni – pochi in verità – hanno scoperto che dell’altro sesso possono persino fare a meno. Tuttavia una notizia diffusa all’inizio della storia riaccende la speranza dei più, perché pare che appena prima della distruzione della terra una razza aliena, i Chelki, abbia messo segretamente al sicuro un centinaio di giovani donne ed ora le tenga nascoste da qualche parte per usarle come merce di scambio ed assicurarsi così i servigi degli uomini nel loro piano contro gli odiati Vuls.
Le altre due razze umanoidi che compaiono nel libro sono i Vuls appunto e gli Hohdan, entrambe molto simili per aspetto agli umani, con solo poche differenze, come il corpo ricoperto di una morbida peluria o le unghie robustissime, quasi degli artigli: i primi dominano un impero che include molte razze di schiavi, inclusi i Chelki, il popolo chiave della storia; gli altri sono più amichevoli nei confronti dei terrestri, a fianco dei quali hanno spesso combattuto: il contatto tra le due razze avviene per tramite dell’ammiraglio Vez Do Han, camerata di Braysen e a sua volta partecipe del piano dei Chelki.
Tra i non umanoidi compaiono invece i tentacolari Bizh, attaccati ripetutamente dai terrestri con navi rubate ai Vuls nel tentativo di creare incidenti di frontiera che portino le due razze alla guerra aperta; ed i citati Chelki, quadrupedi con un bozzolo sopra il corpo da cui spuntano due braccia ed un lunghissimo collo che termina in una testa quasi umana: sono un popolo longevo e specializzato come le api e le formiche i cui governanti, i maschi maturi, sono intelligentissimi. Pur schiavi dei Vuls, i Chelki continuano a tramare nell’ombra ai danni dei loro padroni, soprattutto grazie ad un «Omniarca» vecchio duemila e duecento anni che è fuggito dalla cattività e vive da esule all’interno di un pianeta lontano da ogni rotta: come un burattinaio, sa tutto e manipola tutti. Così mette anche in moto gli eventi narrati nel libro.
E poi ci sono gli ignoti Klee, una razza avanzatissima scomparsa circa ventimila anni fa della quale sopravvivono alcuni manufatti che nessuno sa come attivare: grazie all’Omniarca, che ha studiato a lungo la loro tecnologia cogliendone solo alcune nozioni superficiali, vengono portate alla luce persino astronavi enormi ed un «Vivarium», un’enorme arca che i Chelki useranno per fuggire. I Klee, rivela ad un certo punto l’Omniarca, erano riusciti a dominare in parte il tempo: non erano in grado di tornare indietro nel passato ma erano in grado di mandare oggetti avanti nel futuro o almeno nasconderli nel tempo, come hanno fatto ad esempio col Vivarium, che era di tredici minuti e spiccioli indietro nel tempo e quindi irraggiungibile dallo spazio normale.
Ci sono infine diverse razze minori, come i Dronthen del pianeta Drongail, menzionati solo perché producono una droga, il drong (viva la fantasia), dalla quale Braysen è dipendente: ma a parte questo il loro impatto sulla storia è irrilevante.
Correzione: la gravità è una spinta
Come in ogni space opera che si rispetti, anche in «Recall Not Earth» le enormi distanze astrali non sono un problema perché è stato trovato il modo di viaggiare molto più veloci della luce: quasi cinquecento anni luce all’ora, che significa praticamente annullare le distanze (si potrebbe infatti andare da un capo all’altro della Via Lattea in meno di una decina di giorni).
Dietro questa velocità inimmaginabile sta una scoperta superscientifica: la gravità è una spinta e non un’attrazione.
Secondo la fisica del libro, che dedica quasi un intero capitolo a spiegarne la teoria, lo spazio normale respinge la materia incessantemente. Ogni particella di materia però scherma le altre: non cancella la spinta, la devia. Ogni particella quindi viene spinta in ogni direzione ma è anche schermata da ogni altra particella: l’effetto che ne risulta quindi è che due particelle (quella che protegge e quella che viene protetta) muovono anche l’una verso l’altra, creando così la gravità. Ci sono poi anche delle forze contrarie che agiscono sulla materia ed evitano che si agglomeri in un’unica sfera, come l’inerzia, la repulsione naturale di elettroni e positroni, la pressione dell’energia radiante.
Questa scoperta ha quindi reso possibile la realizzazione del motore gravitazionale o «grav drive», che sfrutta questi principi fisici per muovere le navi nello spazio, senza l’uso di alcun motore e con una immediatezza, sensibilità e manovrabilità incredibili: ad esempio, sono possibili correzioni anche solo di frazioni di centimetro e curve ad angolo retto.
Tuttavia anche così sarebbe ancora impossibile coprire grandi distanze, perché il grav non è abbastanza veloce: lo diventa però nell’iperspazio, una sorta di limbo tra gli universi infiniti, dove la velocità può raggiungere i 490 anni luce all’ora. La transizione è resa possibile da un «null drive», che ha solo bisogno di accumulare una grande quantità di energia per effettuare il salto: quattro minuti sono il tempo minimo necessario ai migliori generatori in circolazione e sono anche il fattore che decide le battaglie spaziali, perché le navi appaiono all’improvviso in un determinato punto, scaricano tutto quello che hanno e attendono impazientemente che i loro generatori si ricarichino per fare un nuovo salto in zona sicura (o alle spalle del nemico) mentre si difendono freneticamente dal contrattacco delle navi nemiche.
I corsari della terra
Sono passati otto anni da quando i Vuls hanno distrutto la terra: solo un’astronave, quella comandata dal commodoro John Braysen, si è salvata. Ma l’equipaggio era composto di soli uomini: questo significa che l’umanità è destinata all’estinzione.
Per qualche tempo questi cinquecento spaziali si sono guadagnati da vivere come mercenari al soldo di questa o quella razza galattica che muoveva guerra ad un’altra ma da alcuni anni lo sconforto ha avuto la meglio ed i superstiti, meno di trecento, si sono abbandonati ai vizi: Braysen stesso, che oggi ha trentasette anni, è ormai ridotto ad un miserabile dall’abuso del «drong», una droga potentissima, e vive sulle spalle dei servizi sociali del pianeta Drongail, da cui la droga prende il nome. La sua unica preoccupazione quotidiana è trovare denaro sufficiente per acquistarne una dose.
Un giorno, mentre medita su questo problema, viene raggiunto da Bart Lange, il suo secondo in comando, che gli porta la notizia inattesa: alcune donne si sarebbero salvate dal disastro. Poco prima di distruggere il pianeta infatti i Vuls avrebbero prelevato alcune migliaia di donne per condurre esperimenti ma i Chelki, una razza intelligentissima schiava dei Vuls, sarebbero riusciti a metterne al sicuro un centinaio, che adesso offrono a Braysen e ai suoi in cambio di un servizio: trasformarsi in corsari per qualche tempo e compiere scorrerie ai confini dell’impero dei Bizh – un’altra razza – per creare incidenti di frontiera che conducano alla guerra aperta tra questi ed i Vuls. Per attribuire a questi ultimi la colpa delle incursioni, gli umani ricevono nove navi di fabbricazione Vuls che i Chelki assegnati alla produzione hanno trovato il modo di far sparire dai registri.
L’intero piano è stato elaborato da un «Omniarca» dei Chelki sfuggito alla schiavitù, benevolo e generoso quanto si vuole ma privo di scrupoli quando si tratta di manipolare gli alleati per raggiungere il suo obiettivo, che è l’affrancamento della sua razza: nel complotto sono coinvolti anche gli Hohdan, che dalle scorrerie trarrebbero un vantaggio immediato, alleggerire la pressione su un paio di alleati minacciati dalle mire espansionistiche dei Bizh.
Oltre alle donne, il premio per le scorribande dei terrestri include anche altre due ricompense immediate: un pianeta abitabile ma disabitato nella regione controllata dagli Hohdan ed una supernave dei Klee, un’antica razza inspiegabilmente scomparsa che si è lasciata dietro enigmatici manufatti: lunga un chilometro, attrezzata con apparecchiature avanzatissime e di gran lunga più grande di qualsiasi altra astronave conosciuta, questa nave diventa la base operativa dei terrestri, che la battezzano col nome di «Bertha».
Dopo una serie di battaglie, una sola delle quali viene descritta per mostrare come funzioni la tattica degli spostamenti nell’iperspazio, il piano dell’Omniarca sembra funzionare: ma mettendo assieme gli indizi il capace Bulvenorg, Secondo Primo Maresciallo Anziano del Perimetro Difensivo del Grande Impero di Vulmot (in sostanza un pezzo grosso dell’Ammiragliato dei Vuls), comprende chi stia dietro le incursioni e non solo evita la guerra con i Bizh ma, dopo essersi messo sulle tracce degli umani e dell’Omniarca, ordina anche lo sterminio degli schiavi Chelki.
Mentre tutto questo accade, Braysen e i suoi si ritagliano il tempo di fare anche una visitina alla terra, per rifornirsi di armi e munizioni (pur dotata di portelloni per l’artiglieria, la Bertha è arrivata priva di armamenti): lo scenario che si offre agli occhi degli spaziali è sconfortante, perché invece della distruzione totale che si aspettavano trovano le città in buono stato ma ancora disseminate di cadaveri, perché le armi utilizzate dai Vuls hanno ucciso quasi istantaneamente ogni forma di vita, anche i batteri responsabili della decomposizione; e le radiazioni massicce che continuano ad ammorbare l’aria renderanno inabitabile il pianeta ancora per millenni.
Un salto nel tempo
Nel finale, l’improvviso esodo dei Chelki mette in allarme i Vuls, che attivano l’intera flotta e si gettano alla loro ricerca, con continui balzi alla cieca: gli schiavi fuggiaschi intanto convergono verso un punto di raccolta prefissato nel settore degli Hohdan, dove li attende la Bertha per condurli alla terra promessa. A bordo dell’ammiraglia terrestre infatti si trovano anche l’Omniarca e Vez Do Han, che in cambio di una quantità di manufatti Klee (tra cui altre astronavi) è riuscito a garantire la protezione della flottiglia di esuli da parte del suo governo: ma la battaglia che ci si aspetta non avviene, nemmeno quando i Vuls scoprono finalmente la posizione della flottiglia e compaiono in tutta la loro potenza.
Manipolando una sorta di telecomando infatti l’Omniarca ha appena fatto comparire il «Vivarium», un enorme planetoide (sempre di fattura Klee) che si trovava dislocato tredici minuti e spiccioli nel passato e che quindi era invisibile e irraggiungibile dallo spazio normale: l’interno dell’enorme struttura è suddiviso in un certo numero di grandi ambienti o terrari, alcuni dei quali abitati. In uno di questi terrari vivono da anni anche le donne messe al sicuro dal burattinaio Chelki: è un ambiente di per sé sicuro, una sorta di bosco con finte montagne e finto mare che le terrestri condividono con una razza di creature simili a castori pacifici ed intelligenti; un buco prodottosi su una parete però permette l’ingresso saltuario delle creature più aggressive che vivono nel settore adiacente ma solitamente queste non rappresentano un pericolo se non in prossimità del varco.
Novello Mosè, l’Omniarca aveva progettato di condurre il suo popolo nella terra promessa del Vivarium ed usare questo manufatto alieno per fuggire in un futuro in cui i Vuls non rappresenteranno più un pericolo per la razza dei Chelki: solo che, una volta salito a bordo, persino lui incontra dei problemi ad attivare tutti i sistemi del planetoide, che ne ritardano il salto nel tempo. Quando finalmente è pronto a partire, congeda le navi di scorta: ma la Bertha, sulla quale sono già state caricate tutte le donne, non riesce a compiere il balzo nell’iperspazio: è come bloccata da un qualche sistema di sicurezza del Vivarium, che nemmeno l’Omniarca riesce ad individuare. Ad un certo punto il meccanismo si sblocca da sé e la Bertha può finalmente partire, diretta al nuovo pianeta dei terrestri, che però non trovano come l’avevano lasciato: al posto delle baracche è cresciuta una fitta vegetazione che prima non c’era; e dove avevano depositato armi e munizioni trovano solo tracce di metallo.
Anche i pianeti degli Hohdan non sono più quelli che avrebbero dovuto essere: sono mondi arretrati, pastorali, che per cultura ricordano l’età del bronzo terrestre. Di tecnologia nemmeno l’ombra, per non parlare di astronavi ed imperi stellari.
Dalle leggende che Vez, camuffato da locale, riesce a raccogliere – faticando parecchio con la lingua però – i nostri desumono che il Vivarium ha trainato per un po’ con sé anche la Bertha, depositandola circa dodicimila anni nel futuro: per questo non erano riusciti a fare il balzo quando volevano. Nel frattempo la galassia – almeno la parte di galassia in cui si svolge la storia – è regredita in seguito ad una guerra totale che dovrebbe essere scoppiata un migliaio di anni o due dopo gli eventi narrati. Visite lampo ai settori dei Vuls, dei Bizh e degli altri imperi mostrano ai nostri che tutte le razze hanno subito lo stesso destino.
La terra è ancora inabitabile ma qualche forma di vita – muschi e muffe – inizia ad affacciarsi: Braysen decide quindi che sarà compito dei superstiti cercare di far rinascere la terra, impiantandovi fauna e flora del nuovo pianeta che era stato regalato loro, in modo tale che un domani l’umanità possa tornare a reclamare il suo pianeta natale.
Soprattutto, l’umanità che aveva corso il rischio di scomparire è ora la razza più avanzata dello spazio, la sola ad avere le astronavi e la capacità di viaggiare tra i pianeti: quindi ha non solo guadagnato quel primato nello spazio che non aveva mai avuto prima ma ha anche un bel vantaggio su tutte le altre razze.
Mai mettersi contro i terrestri
Il libro insegna una lezione tipica della fantascienza: mai mettersi contro i terrestri o almeno non lasciare nessun sopravvissuto, perché abbiamo la volontà, le capacità e le risorse fisiche e mentali per far rimpiangere chiunque di essersi messo contro di noi. Qui la vittoria finale dei terrestri è frutto del caso e della tecnologia aliena – così aliena che non sappiamo nemmeno come abbia fatto a funzionare – ma il fatto stesso che un paio di centinaia di umani, gli ultimi superstiti della nostra razza, si siano impegnati a fondo a causare problemi all’impero che ha condannato l’umanità all’estinzione dice qualcosa della nostra natura: l’uomo non si arrende mai ma cerca sempre la rivalsa, fosse anche l’ultima cosa che fa.
Questo spirito da umanità «über alles», tipico dei pulp, è andato scomparendo negli ultimi decenni, sostituito da un ecumenismo galattico che crea storie molto meno attraenti: è proprio la convinzione che all’umanità spetti il primato nella galassia ad incarnare così a fondo lo spirito dei pulp e della space opera, come insegnano le grandi opere degli anni Trenta che hanno definito il genere, come la Legione dello Spazio di Williamson e l’Allodola dello Spazio di Doc Smith.
Il libro nell’insieme è scorrevole e ricco di idee: la teoria della gravità come spinta ad esempio non sarà per niente scientifica però non solo è descritta in modo credibile per un profano ma è anche molto più affascinante della fisica reale, soprattutto se si considera che renderebbe possibile viaggiare nello spazio con una certa facilità.
E la superscienza è un altro elemento tipico dei pulp, di cui «Recall Not Earth» è uno degli ultimi esempi ben riusciti: dopo, la fantascienza ha iniziato il suo declino verso tematiche molto meno avvincenti.
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