Philip Jose Farmer è noto soprattutto per aver iniziato la saga infinita e noiosetta di Riverworld, poi ripresa anche da numerosi altri autori: ma i più trascurano le sue opere secondarie o minori, come la serie del «Mondo dei livelli» (beh, almeno i primi due volumi, soprattutto il secondo) e «Pianeta in via di sviluppo» (Green Odyssey, 1957), quasi la sua opera d’esordio, se si eccettuano i tanti racconti pubblicati sulle riviste nella dozzina di anni precedenti. Che pur senza brillare è un’ottima storia, un romanzo planetario alla maniera del «Grande Pianeta» e del «Pianeta Tschai» di Jack Vance, il grande maestro del genere.
Una storia in continua evoluzione
Pubblicato dunque subito in volume nel 1957, «Pianeta in via di sviluppo» è un romanzo planetario che in molte sue parti richiama le idee e le atmosfere di Jack Vance (la pubblicazione del «Grande Pianeta» vanciano precede di cinque anni il libro di Farmer), anche se manca della creatività e del gusto per l’assurdo di quest’ultimo: tuttavia anche Farmer mette sul piatto alcune buone idee, a cominciare da quella che tiene insieme tutta la storia, ossia la funzione originaria della «Xurdimur», la sconfinata pianura che è teatro di eventi inspiegabili ed in apparenza soprannaturali.
La trama è lineare e in perfetto stile pulp: pur essendo solo uno specialista di cibo marino naufragato su un pianeta sconosciuto, Alan Green, il protagonista, è infatti sempre all’altezza della situazione, persino quando si tratta di servizi poco eroici, come fare da cicisbeo alla viziata duchessa e soddisfarne ogni desiderio.
Ma superato un inizio non proprio esplosivo, l’azione non manca mai, per tenere desta l’attenzione del lettore.
Ciò che manca semmai è la coerenza, dato che elementi già stabiliti in precedenza continuano a mutare nel corso della storia: l’esempio più significativo riguarda proprio la Xurdimur, che nei primi capitoli viene detta essere perfettamente piatta; solo le leggende parlano di isole vaganti che però nessuno avrebbe mai visto dal vivo. Man mano che la trama si sviluppa tuttavia l’esistenza delle isole semoventi, un pericolo per tutti i naviganti, diviene una conoscenza comune – tanto che è risaputo che si muovono solo di notte e mai di giorno – e nel finale addirittura si scopre che alcune di queste sono state mappate e persino abitate.
Ma è un difetto da poco: si tratta solo di piccole discrepanze caratteristiche del genere pulp (interessato più alle idee e all’azione che alla verosimiglianza e coerenza) che si è ben disposti a perdonare, dato che nell’insieme la trama regge e giustifica una storia tanto improbabile quanto gradevole. Tutte queste discordanze lasciano semmai intravedere una stesura pensata inizialmente per la pubblicazione a puntate su una qualche rivista – dove piccole correzioni di rotta erano frequenti e, dati i lunghi intervalli tra un episodio ed il successivo, più che ammissibili – riadattata solo in un secondo tempo per l’uscita direttamente in volume: una novità per Farmer, che fino a quel momento aveva scritto solo per le riviste.
Le falciatrici giganti della Xurdimur
L’enorme pianura attorno alla quale si muove la storia è appunto la Xurdimur, uno dei nomi più semplici e pronunciabili dell’intera storia: questo tavoliere è la grande caratteristica del pianeta senza nome sul quale il protagonista si trova a vivere da due anni, una sconfinata distesa di erba fitta e rasa, piatta come un tavolo da biliardo, che misura diecimila miglia di ampiezza. Percorsa da forti venti ed incessanti, la Xurdimur è divenuta simile ad un oceano: viene infatti attraversata da speciali velieri su ruote, l’anima del commercio sull’intero pianeta.
Abitata da branchi di bestie selvatiche, la Xurdimur è anche costellata di isole semoventi che sono in realtà antiche falciatrici adibite alla manutenzione del prato: larghe tre miglia e profonde uno, queste macchine sono ricoperte di rocce, terra, laghetti e vegetazione, per apparire simili a piccole isole; su alcune di esse si sono stabilite tribù di cannibali, che aggiungono così la loro minaccia alle tante che già caratterizzano la Xurdimur e rendono pericolosa la navigazione.
Queste isole però non sono semplici falciatrici ma macchine destinate alla manutenzione della pianura: ogni volta che «fiutano» un corpo estraneo lo eliminano, probabilmente disintegrandolo; e se scoprono una buca, la ricoprono fino a livellarla col resto del terreno e poi distendono sopra alla toppa un nuovo tappeto erboso. Così nel giro di pochi giorni relitti, cadaveri ed ogni altro rifiuto – persino le altre isole che dovessero aver smesso di funzionare – scompaiono senza lasciare traccia: l’unica eccezione sono i razzi parcheggiati in verticale, o le torri di pietra costruite a imitazione di un missile pronto al decollo, che i sistemi automatici di queste falciatrici riconoscono e quindi evitano. Proprio in questo modo, circondando alcune isole con un anello di torri a forma di missile, un popolo è riuscito a bloccare alcune di queste isole al centro della prateria, costruendovi sopra una città che, in virtù della posizione, è diventata il cuore del commercio delle nazioni che si affacciano sulla Xurdimur.
Perché le isole – a questo punto non sarà più un mistero – non sono naturali bensì frutto di un antico popolo tecnologicamente avanzato, probabilmente i terrestri stessi, che aveva ideato la Xurdimur come un immenso parcheggio per astronavi in attesa di riparazione: le falciatrici avevano il compito di tenere perfettamente piatta e in ordine la superficie, per permettere ai razzi di atterrare e decollare agevolmente. Per questa ragione le isole si muovono solo di notte ed i loro sistemi automatici riconoscono il profilo dei missili e li evitano accuratamente: in origine le isole dovevano avere anche un equipaggio minimo, dal momento che tutte hanno una «caverna» che conduce ad una serie di locali interni, inclusi una sala comando con sei telecamere (una per ciascun lato) ed i controlli per trasformarle in piccoli ma efficienti velivoli capaci di decollare e muoversi anche al di fuori dell’atmosfera.
Uno schiavo con molta libertà
Due anni fa la piccola astronave su cui viaggiava Alan Green ha dunque fatto naufragio su un pianeta sconosciuto fuori da ogni rotta, che però è abitato da umani: probabilmente la colonizzazione umana risale a millenni prima, quando la civiltà terrestre si era spinta molto lontano nello spazio ed aveva raggiunto vette tecnologiche che poi si sono perse a causa di una qualche catastrofe. Oggi lentamente la terra sta recuperando sia la tecnologia perduta sia i contatti con le colonie dimenticate, molte delle quali nel frattempo si sono imbarbarite: ed il pianeta innominato è senza dubbio una di esse.
Il «pianeta in via di sviluppo» del titolo italiano infatti è regredito ad una società feudale che ammette la schiavitù (anche se gli schiavi godono di parecchi diritti e libertà), crede ciecamente nell’esistenza dei demoni e degli spiriti ed è tecnologicamente simile ad un medioevo fantasy: tutto funziona a forza di braccia o mediante l’azione del vento, che soffia sempre a grande velocità. Così, grazie anche alla peculiarità della Xurdimur, la sconfinata pianura sulla quale si affacciano le nazioni più progredite del pianeta, sono nate le navi su ruote, in sostanza velieri di grandi dimensioni (i marinai vivono su di essi assieme alle loro famiglie e formano dei clan suddivisi su più galeoni) montati su ventiquattro assi, che vengono mossi dalla forza del vento, proprio come le navi a vela.
Scambiato per un barbaro del nord, Green viene subito fatto schiavo dal duca di Tropat, che è anche la sorte migliore che poteva capitargli: se infatti lo avessero riconosciuto come alieno lo avrebbero bruciato immediatamente sul rogo perché non avrebbe potuto essere altro che un demone in forma umana.
Per l’aspetto – belloccio, certo, ma anche esotico agli occhi dei tozzi aristocratici di Tropat – Green viene acquisito dalla duchessa, grassoccia e poco attraente, che lo trasforma nel suo cicisbeo: così da due anni il suo compito è assecondarla in tutto sia di giorno sia soprattutto di notte, fino a quando ella non si sarà stancata di lui e lo farà eliminare dal duca, con la scusa che ha tentato di sedurla. Tuttavia al protagonista è stato permesso di sposarsi con un’altra schiava, Amra, che l’ha accalappiato non appena giunto in città: piccola imprenditrice (come detto, a Tropat gli schiavi godono di parecchi diritti e libertà), Amra ha sei figli, di cui solo l’ultima, Paxi, di un anno, è anche figlia di Green; gli altri invece – avuti dal duca o da altri nobili e cittadini illustri della città – segnano la sua ascesa e caduta a Tropat.
Già nell’apertura del libro a Green giunge voce che nella città di Estorya – la più ricca della Xurdimur – sono apparsi due demoni in forma umana: dal racconto comprende che in realtà si tratta di due astronauti che hanno avuto la malaugurata idea di atterrare su questo pianeta di superstizioni. Così con l’aiuto di un certo Miran – mercante, pirata e zingaro guercio che è in affari col duca e con la duchessa – architetta un piano di fuga che però fallisce e lo costringe a darsela a gambe da palazzo: riesce però ad imbarcarsi comunque sul veliero a ruote di Miran, l’Uccello della Fortuna, sul quale all’ultimo momento sale anche Amra con i sei figli e la sua schiava personale.
Un finale per niente a sorpresa
La navigazione procede senza problemi, a parte l’ovvia contrapposizione tra Green, il nuovo venuto, ed alcuni membri dell’equipaggio, che formano anche il clan di Miran, gli Effenycan: Green batte, più con l’ingegno che con la forza, uno di loro, che però medita vendetta. Che puntualmente arriva – ma senza andare a segno – una notte in cui Green è di guardia, la stessa del disastro: un’isola vagante individua la nave e la attacca, distruggendola.
Nell’impatto Green, che è di vedetta sulla coffa, viene sbalzato sull’isola stessa: il resto dell’equipaggio non ha la stessa fortuna. I più muoiono nell’incidente, i superstiti vengono invece uccisi e divorati da una tribù di cannibali che vive sull’isola; solo alcune donne – tra cui Amra, la sua schiava e le sue due figlie (Paxi compresa) – vengono risparmiate e condotte in una capanna da cui Green poche ore dopo le salva. Nella fuga, il gruppetto prima si imbatte in Miran e Grizquetr, il figlio maggiore di Amra (tutti gli altri sono morti nell’incidente ma non vengono pianti da nessuno), poi trova una caverna che conduce nelle viscere dell’isola, che così si scopre essere una macchina.
Fuggiti infine anche da quest’isola con una piccola imbarcazione a ruote e vele tenuta nascosta dai cannibali, i superstiti arrivano a destinazione: la città di Estorya, costruita su tre isole vagabonde, tenute bloccate da un anello di torri a forma di missile pronto al decollo. Nell’impossibilità di muoversi senza danneggiare i razzi, i comandi automatici delle macchine, si sono infatti spenti e così nel tempo sulle tre isole è sorta una città, la più ricca ed influente della Xurdimur. Una quarta isola, ad alcune ore di navigazione più ad ovest, è pure bloccata da un analogo anello di finti razzi: qui Estorya ha costruito una fortezza che controlla il traffico navale.
Giunti in città, Miran accusa Green di essere un demone perché è stato la causa della sua sfortuna: così Amra ed il resto della sua famiglia vengono catturate ma Green è troppo scaltro e riesce a fuggire col figliastro e raggiungere di nascosto l’isola fortezza. Col favore delle tenebre s’intrufola nella caverna (proibita) che conduce ai locali interni e, compreso al volo come funzionano i comandi, assume il controllo della macchina: sei telecamere (una per direzione, alto e basso compresi) garantiscono una visuale completa mentre altri strumenti permettono all’isola di prendere il volo e raggiungere persino lo spazio. Forte di questa minaccia, torna alla città e chiede la liberazione della moglie, della famiglia e dell’astronauta superstite (l’altro si era suicidato tempo prima piuttosto che subire altre torture), il cui rogo era previsto proprio per quel giorno stesso.
Ottenuto ciò che voleva, si allontana con la famiglia, ordinando allo spaziale liberato di seguirlo col razzo: a debita distanza, isola e missile atterrano. Tre settimane dopo, quando tutti – soprattutto il pilota – si sono ristabiliti, Green parte per la terra: è un razzo biposto, quindi non può portarsi dietro la famiglia. Ma promette di tornare il più presto possibile, con una spedizione che sicuramente non tarderà ad essere organizzata perché la scoperta del pianeta e della sua caratteristica saliente, la Xurdimur, aiuteranno senz’altro la scienza a risolvere il mistero della diffusione umana nella Galassia in epoche preistoriche.
Una storia in perfetto equilibrio
Così finisce la storia: né troppo presto né troppo tardi.
Il libro offre infatti un bello spaccato del mondo attorno alla Xurdimur ma senza perdersi in troppi dettagli, che in un certo senso ne rovinerebbero l’atmosfera. Già con le informazioni che Farmer semina nel corso della storia il lettore può farsi un’idea solida dell’ambientazione e semmai colmare i vuoti con la propria fantasia o il buon senso: l’equilibrio tra il detto e il non detto è infatti la chiave che distingue le opere migliori da quelle meno riuscite e solitamente queste ultime sono pure quelle che snocciolano una sovrabbondanza di informazioni anche inutili per soddisfare la curiosità morbosa del lettore.
Troppe informazioni rallentano il racconto e tolgono spazio all’immaginazione: in «Pianeta in via di sviluppo» invece la storia non rallenta mai e si legge tutta d’un fiato o quasi. L’azione ha sempre il sopravvento e quando la trama sembra frenare è solo per preparare una nuova serie di scene d’azione, spesso incredibili: ma se si legge un romanzo planetario non lo si fa certo per la verosimiglianza della storia bensì per gustarsi una bella storia d’avventure ricche di fantasia e scenari esotici. Che qui non mancano: certo non abbondano nemmeno come in Vance ma alla fine non si può restare delusi da quest’opera di Farmer, una delle sue migliori.