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H.P. Lovecraft – I topi nei muri

Tra i primi esperimenti di scrittura esplorati da Howard Phillips Lovecraft rientra anche il romanzo gotico, il genere letterario dal quale si è poi sviluppato tutto il filone dell’orrore: un orrore che in queste storie è ancora molto contenuto e limitato per lo più all’atmosfera, con un’aggiunta di fantasmi, vampiri e maledizioni. E proprio una maledizione di famiglia è la chiave del racconto «I topi nel muro» (The Rats In The Walls, 1924), una delle storie più note e riuscite di Lovecraft: occupa infatti il quinto posto nell’ideale classifica del meglio della produzione dell’autore americano, che da un paio di anni ho ripreso ad approfondire con una serie di recensioni dedicate ai singoli racconti.

Una famiglia maledetta
Pubblicato dal solito Weird Tales nel marzo 1924, «I topi nel muro» si è subito guadagnato un’ottima reputazione tra gli appassionati dell’orrore, perché raccoglie una serie di temi cari al genere e li confeziona in un racconto di atmosfera non troppo lungo: di conseguenza, la trama è abbastanza lineare e punta alla rivelazione finale, perché sin dall’inizio è chiaro che c’è una sorpresa ad attendere il lettore.
Con quell’attenzione per il passato che gli è caratteristica, Lovecraft passa rapidamente in rassegna la storia di Exham Priory, l’antica dimora inglese in cui si consuma il dramma, ma a differenza delle altre opere in cui fa sfoggio della sua consueta pignoleria per i dettagli qui si accontenta di dare poche pennellate superficiali: non si perde infatti né in lunghe ricostruzioni storiche né in ricerche documentarie ma si limita a fornire con semplicità una serie di indizi chiave per comprendere almeno parte del mistero.
Exham Priory sorge dunque in cima ad una parete a strapiombo su una valle disabitata e incorpora rovine di antichi edifici di culto eretti a partire dall’epoca druidica preromana: donato nel Duecento ai De La Poer, la famiglia del narratore, e ridotto ad un rudere da un incendio probabilmente doloso provocato da un antenato all’inizio del Seicento, l’edificio è stato infine restaurato dal protagonista, un industriale americano sessantenne rimasto senza famiglia, che intende abitarlo.
Che i De La Poer, oggi Delapore, avessero qualche terribile segreto da nascondere appare subito chiaro sia dalle testimonianze di strane morti improvvise e assassinii citati brevemente da Lovecraft sia dall’epiteto di «maledetto da Dio» che un altro antenato si era guadagnato all’inizio del Trecento: ma, come si vedrà, la famiglia non si è mai liberata né della maledizione né della depravazione che ha accompagnato i De La Poer per secoli. L’ultimo a farne le spese prima di questa storia è stato infatti Randolph, il fratello del protagonista, che dopo aver combattuto contro i rivoluzionari messicani ha trovato la sua vocazione come stregone vudù.
Prima di procedere è opportuno aggiungere un avvertimento: più che altrove, la forza di questo racconto sta davvero nel mistero e nella sorpresa. Il colpo di scena finale funziona solo quando si legge la storia per la prima volta: infatti, anche se l’atmosfera rimane intatta, il fatto stesso di conoscere il retroscena attorno al quale tutto ruota guasta ogni rilettura. Quindi sconsiglio di proseguire con questo articolo se già non si conosce il racconto: tra l’altro è una lettura veloce, che richiede nemmeno un’ora.
Caveat lector.

Ritorno alle radici
Il protagonista, un certo Delapore, è l’ultimo discendente di una famiglia inglese maledetta, in origine i De La Poer: nel Seicento un figlio minore del barone fu l’unico superstite dell’incendio della dimora avita, Exham Priory, nel quale perirono tutti i familiari. Nonostante il sospetto di omicidio volontario, il giovane erede venne giudicato innocente dal tribunale, probabilmente in segno di riconoscenza perché col suo gesto aveva liberato la zona dalla pessima reputazione dei De La Poer, che esistevano sin dal Duecento ed erano odiati e temuti in tutto il circondario. Emigrato in Virginia, questi cambiò cognome nell’attuale: istituì anche la tradizione di famiglia che alla morte del capofamiglia l’erede dovesse leggere un certo documento con informazioni segrete; ma questo documento andò distrutto con l’incendio della casa durante la guerra di secessione americana, quando il protagonista aveva sette anni.
Adesso è il 1923: il protagonista, ormai sessantenne, è rimasto solo, perché la moglie lo ha abbandonato da tempo ed il figlio pilota è morto due anni dopo essere tornato come grande invalido dalla prima guerra mondiale. Grazie all’aiuto del capitano Norrys, un nobile inglese della zona che era stato commilitone del figlio, Delapore è riuscito a riacquistare i ruderi di Exham Priory e a ristrutturarli: ricostruire, sarebbe più giusto, perché dopo l’incendio del Seicento era rimasto solo il guscio esterno dei muri.
L’edificio si trova in cima ad una collina o monticello, con una parete a strapiombo su una valle che guarda un vasto tratto di terra disabitata: il luogo è antichissimo, pare che fosse usato a scopo religioso già dai druidi ed in seguito dai romani e così via nella storia. Ogni popolo ha costruito sulle rovine del precedente: le fondamenta dell’edificio, che affondano nella roccia dell’altura, sono romane ma probabilmente su un nucleo druidico.
Terminata la ristrutturazione, Delapore va a vivere ad Exham Priory con sette servitori e nove gatti: ma dopo nemmeno una settimana inizia già ad essere disturbato la notte da incubi e rumori notturni prodotti dalle zampette di ratti che però non vede. Tolti i gatti, solo lui sente questi rumori, dei quali non riesce a comprendere l’origine: dopo due settimane si rivolge quindi ad alcuni studiosi ed archeologi e con loro torna ad Exham Priory per studiarne i sotterranei, che aveva già esplorato assieme al capitano Norrys. In questa occasione avevano scoperto che da una fessura sotto un blocco di pietra, probabilmente un altare, proveniva una corrente d’aria: ma non c’era stato modo di spostare quel blocco di pietra.
Quando finalmente il noto archeologo trova il modo di rimuovere l’altare, protagonista e studiosi si imbattono in uno spettacolo orribile: una galleria scavata dal basso ricoperta di scheletri umanoidi divorati dai topi. Poco più avanti la galleria sbuca in una caverna enorme, così grande che non è possibile vederne la fine: è illuminata dalla luce del giorno, che filtra dalla parete a strapiombo attraverso fessure nella roccia, invisibili all’esterno. Anche qui il pavimento è ricoperto di ossa, che l’antropologo del gruppo giudica essere di incroci umanoidi degenerati.

L’orribile scoperta
Così la storia dei De La Poer viene a galla: si cibavano di carne umana, ed in questa caverna allevavano le loro greggi di umanoidi da macello. Così assume un significato anche l’incubo ricorrente delle notti del protagonista, che vedeva un gregge di bestie flaccide e pallide come funghi guidato da un porcaro che aveva il suo volto: era il destino di tutti i De La Poer. Altri ritrovamenti in edifici costruiti in epoche diverse all’interno della caverna confermano l’ipotesi dell’antropofagia, perché uno di essi è chiaramente una macelleria, con strumenti e scritte di inizio Seicento. E in un’altra, chiuso in una gabbia, scoprono uno scheletro umano alla cui mano è ancora infilato un anello con lo stemma di famiglia.
Quando l’antenato fuggiasco aveva ucciso la famiglia ed incendiato la casa, aveva anche abbandonato a se stesse le bestie da carne che, spinte dalla fame, avevano cercato di uscire dalla caverna in cui erano tenute prigioniere: ma dai cunicoli al centro della terra in cui «Nyarlathotep, il dio folle e senza volto, urla cieco nelle tenebre» si erano subito riversati nella caverna sciami di topi, che hanno ucciso e divorato questi umanoidi. Il rumore delle zampette di ratto che il protagonista sentiva durante le notti era il modo in cui la maledizione di famiglia – le cosiddette «esperienze ereditarie» – cercava di richiamarlo al luogo dei loro peccati.
Ad un certo punto però Delapore si stacca dal gruppo di esploratori ed impazzisce, probabilmente per effetto di energie psichiche residue ancora presenti nella caverna: quando, ore più tardi, lo trovano in un angolo buio, è riverso sul cadavere semidivorato di Norrys e grida frasi senza senso in lingue sconosciute, mentre il suo gatto preferito sta cercando di squarciargli la gola con gli artigli. Da allora è rinchiuso in un manicomio: e nella cella accanto è incarcerato anche Thornton, l’esperto di fenomeni psichici che faceva parte del gruppo di scienziati, il primo che aveva avvertito una qualche presenza nella caverna. Nell’epilogo si dice che Exham Priory è stato fatto esplodere in gran segreto, caverna inclusa, ed il suo mistero non è stato rivelato da nessuno.

Un orrore molto contenuto
Come detto, «I topi nel muro» è uno dei racconti minori di Lovecraft, spesso ignorato dalle antologie, attratte soprattutto dalle storie più note o più d’effetto: a voler ben vedere infatti manca di una serie di caratteristiche per le quali l’autore è diventato celebre, come ad esempio la creatività e la pedanteria storica o cronachistica. Tuttavia si tratta di un racconto molto suggestivo, che fa dell’atmosfera il suo punto di forza: gli aspetti orrorifici sono molto contenuti e sono semmai quelli tipici del romanzo gotico al quale è debitore, quindi poco più uno spavento e qualche brivido.
Sono però esposti in un crescendo di grande effetto psicologico che parte da un mistero capace di suscitare curiosità, con il riferimento ai culti orribili praticati nei sotterranei di Exham Priory dai druidi e dai romani (che qui avrebbero venerato Cibele e Attis: ma pur cruento, per certi eccessi che i sacerdoti sarebbero stati soliti infliggersi nelle cerimonie, il culto di Cibele non era un culto sanguinario), e poi si allarga per includere elementi soprannaturali come i topi fantasma e i fenomeni psichici per giungere quindi alla rivelazione finale: il cannibalismo e la conseguente maledizione dei De La Poer/Delapore.
La follia del narratore è la necessaria conclusione di questa scoperta, un espediente abbastanza tipico nelle storie di Lovecraft, che così sottolineava le scene chiave: ad esempio, quando la ragione si scontra con l’irrazionale o con esperienze che trascendono la realtà o la rivelazione è troppo incredibile per poterla accettare.
Sebbene venga citato il nome di Nyarlathotep, questo racconto non ha niente a che fare con il ciclo di Cthulhu: ne condivide in buona parte le atmosfere però ed infatti solo pochi anni più tardi Lovecraft avrebbe scritto «Il richiamo di Cthulhu», che continuo a considerare il suo racconto migliore.

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