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Robert Silverberg – Stranieri dallo spazio

Robert Silverberg è uno di quegli autori che appartengono di diritto ai grandi nomi della fantascienza: ma se lo è diventato significa anche che deve aver scritto molto. Ed infatti una stima approssimativa delle sue opere arriva a sfiorare i duecento libri, incluso un buon numero di pubblicazioni divulgative su storia ed archeologia, più un numero incalcolabile di racconti: va da sé che in una produzione così sterminata non tutto può riuscire sempre gradevole a tutti. Fortunatamente però «Stranieri dallo spazio» (Aliens From Space, 1958), opera minore scritta sotto lo pseudonimo di David Osborne, rientra tra i suoi lavori migliori: certo, non sarà uno dei suoi romanzi più memorabili e nemmeno dei più influenti, ma nella sua semplicità racconta comunque un’ottima storia, con una trama solida e plausibile, sempre nei limiti della finzione.

Alieni in terra straniera
Pubblicato subito in volume nel 1958, «Stranieri dallo spazio» è, come detto, tra le opere meno note di Silverberg: a parte un paio di traduzioni – tra cui quella italiana del 1961 sulla rivista Galassia – ha avuto un’unica ristampa, come libro elettronico, nel 2016; e già questo fatto spiega la scarsa conoscenza di questo romanzo. Io stesso l’ho scoperto per caso e l’ho subito letto, senza nemmeno sapere a cosa stessi andando incontro. E per una volta è stato piacevole lasciarsi sorprendere: perché nell’insieme è un buon libro.
Tanto per sgomberare il campo da subito, gli «stranieri» del titolo sono più precisamente degli alieni ma, com’era in uso da noi fino almeno agli anni Settanta, per tutto il romanzo vengono indicati come «stranieri»: la scelta di questo termine sorprende il lettore moderno anche perché nell’originale inglese Silverberg li chiama esplicitamente «aliens» (come gli immigrati clandestini) e non usa mai parole come «stranger», «foreigner» od «outsider», che appunto indicano uno straniero od estraneo.
Questi «stranieri» appartengono a due fazioni distinte, in guerra tra loro da settemila anni, e piombano entrambi sulla terra del 1989 alla ricerca di un alleato: ma mettersi con gli uni significa inimicarsi gli altri e la terra – che qui si ritiene ancora guidata da uomini saggi e capaci ai quali sta a cuore il benessere collettivo e non i benefici personali (si tratta, appunto, di fantascienza) – ci tiene a restare neutrale, tanto più che non sarebbe in grado di opporsi militarmente ad un impero che usa il viaggio interstellare da decine di migliaia di anni.
Com’era tipico dell’epoca, la storia trasuda infatti fiducia nell’uomo e nelle sue capacità, dalle quali deriva un senso di superiorità sulle altre razze della galassia: ed infatti dalle trattative la terra non solo emerge come terza potenza galattica riconosciuta pur essendo chiaramente inferiore agli altri due schieramenti ma anche con un’assicurazione sulla propria incolumità futura, perché gli abili rappresentanti terrestri sono capaci di manipolare le debolezze degli alieni e gli odi reciproci per garantirci l’intoccabilità, almeno finché anche noi non saremo in grado di scorrazzare liberamente per la galassia.

Temo i Danai anche quando recano doni
Un giorno d’inizio ottobre del 1989 gli alieni sbarcano negli Stati Uniti: sono tre diplomatici Morotiani, inviati dal loro impero a chiedere l’amicizia del nostro pianeta. In cambio di un pezzo di terra su cui costruire la loro base, i Morotiani garantiscono doni ed assistenza contro i loro nemici di sempre, gli odiati Zugloriani, che dipingono come malvagi e guerrafondai. Viene subito nominata una commissione di nove notabili in rappresentanza di sette nazioni che si occuperà delle trattative ma la decisione finale spetterà ai presidenti americano e russo (qui il comunismo e l’Unione Sovietica sono crollati da oltre vent’anni) e al segretario dell’Onu: della commissione fa parte anche un professore di filosofia della Columbia University, Jeffrey Brewster, il nostro protagonista, giovane, intelligente e disinteressato. Un altro elemento fantascientifico, perché all’epoca le università americane non erano state ancora infettate così a fondo dal morbo del marxismo culturale di cui proprio la Columbia è divenuta l’epicentro.
Pochi giorni più tardi però arrivano anche gli Zugloriani, che scendono nell’ex Unione Sovietica: portano la stessa proposta dei Morotiani, a termini invertiti. In sostanza, è impossibile essere amici di entrambi gli imperi come vorrebbero i terrestri: allearsi con gli uni significa entrare in guerra con gli altri. Così, accettando un’alleanza ci troveremmo trascinati dentro una guerra che non è la nostra.
Tutti gli alieni padroneggiano l’inglese e misurano attentamente le parole: e proprio dai significati impliciti delle loro affermazioni, dal detto non detto dei loro discorsi e da tanti altri elementi che emergono o rimangono inespressi, come sospesi nell’aria, durante le conversazioni, Brewster riesce a decifrare quello che gli «stranieri» non vogliono dire apertamente.
Il professore capisce infatti che tanto i Morotiani quanto gli Zugloriani temono gli umani e ci offrono la loro alleanza come sistema per mettersi al sicuro in previsione di un futuro che a noi appare remoto ma a loro molto più prossimo: infatti, anche se la loro storia è antichissima e risale ad almeno novantamila anni fa, il loro progresso evolutivo è stato lento. Hanno avuto bisogno di trentacinquemila anni di civiltà per arrivare al punto in cui si trova ora la terra, che invece ne ha impiegati solo settemila: quindi, anche se siamo partiti in ritardo rispetto a loro, il nostro progresso procede molto più rapido del loro, e probabilmente segue anche una crescita esponenziale che, tra poche migliaia di anni, potrebbe già portarci al loro pari. E a quel punto la terra potrebbe diventare un concorrente pericoloso, soprattutto se dovesse allearsi con una fazione invece che con l’altra.

Dividi e regna
Così Brewster suggerisce al presidente americano – il decisore delegato: ma almeno questo presidente non è un rimbambito, e non cade nemmeno dalla bici o dalle scale dell’aereo – la strategia che giudica migliore: proporre l’alleanza ad entrambi. Nel peggiore dei casi la terra si garantisce il sostegno di entrambi gli schieramenti; nel migliore, impone la propria neutralità e si mette al sicuro da qualsiasi pericolo.
Il professore infatti fa affidamento sull’odio che divide le due fazioni e la conseguente incapacità degli alieni sia di andare d’accordo tra loro sia di accettare di dividersi un potenziale alleato: ed infatti nessuno dei due imperi è disposto ad accettare un’alleanza in questi termini. Così la terra, che ha dimostrato di voler essere amica di entrambi ma ha anche dichiarato di non voler essere tirata dentro un conflitto che non la riguarda, ha l’opportunità di proclamarsi potenza indipendente e neutrale, sempre pronta a stringere amicizia non esclusiva con tutti coloro che lo desiderino.
Ma in questo modo la terra si è anche messa al sicuro da qualsiasi ritorsione, perché nessuno dei due imperi oserà mai attaccare la terra, per paura di perdere un potenziale alleato, che per di più giudica così prezioso; e men che meno lo faranno unendo le forze, perché l’odio che divide i due schieramenti è tale da impedire loro anche qualsiasi azione congiunta.
Così la terra esce vincitrice e, sebbene qui non si sia ancora spinta più in là di Callisto, si trova già a rivestire un ruolo di primo piano nella galassia. Va da sé che l’espediente funziona perché si tratta di un romanzo: nella realtà probabilmente la situazione sarebbe ben diversa e, con le buone o con le cattive, saremmo costretti ad accettare una delle alleanze, se non altro per quel senso di inferiorità verso le altre culture che ha ormai infettato le nazioni che contano; e sicuramente per gli interessi personali di coloro che conducono le trattative che, com’è ormai tradizione, non sarebbero scelti tra i più meritevoli ma solo sulla base di principi suicidi come la diversità, l’inclusione e la rivalsa, che sono una garanzia di incapacità e fallimento.

Un libro che ripone troppa fiducia negli uomini
Per quanto semplice e lineare, il libro è scorrevole e racconta una storia gradevole: non c’è affatto azione ed il passo è anzi piuttosto lento; tuttavia la trama riesce comunque interessante e – incredibile a dirsi – non annoia nemmeno. Perciò, data la staticità della narrazione, sono proprio le riflessioni del protagonista a scandire il ritmo della storia e a guidare il lettore in una riflessione che lo porta all’unica conclusione possibile: a nutrire cioè un senso di orgoglio per appartenere al genere umano, così abile da mettere nel sacco anche due civiltà più antiche e progredite della nostra.
Ecco, il libro semmai pecca un po’ di ingenuità, per due ragioni: la prima, perché non tiene conto della soggezione istintiva che deriverebbe – così almeno immagino – dal trovarsi di fronte ad esseri così diversi da noi non solo per aspetto ma anche per mentalità e soprattutto così evoluti che, se lo volessero, potrebbero fare polpette della terra con uno schiocco delle dita. Ed invece non c’è traccia di minacce, implicite o esplicite, né di un senso di superiorità negli alieni né tantomeno di inferiorità nei terrestri: le trattative sono condotte alla pari, forse addirittura con un lieve vantaggio da parte dei nostri rappresentanti, che hanno sempre la situazione sotto controllo, anche quando si presenta l’unico imprevisto durante i colloqui.
Ma è la seconda ragione quella che colpisce il lettore contemporaneo: perché Silverberg mostra di riporre ancora fiducia sconfinata nei politici e nei loro consiglieri, che mostra capaci, motivati dai più alti principi e realmente interessati al bene e al progresso dell’umanità. Sono uomini di una tale integrità che, nel libro, l’interesse della terra ed il benessere della popolazione vengono al primo posto, e non solo a parole: una pratica ben diversa dall’esperienza comune alla quale siamo ormai assuefatti, che invece vede sempre trionfare gli interessi individuali su quelli della comunità.
E si arriva così all’unica macchia del libro: perché il giovane Silverberg, come molti altri autori dell’epoca, ha una tale fiducia nei governanti che preme senza riguardo per il governo unico mondiale posto sotto il giogo dell’Onu, senza rendersi conto che la cancellazione degli stati nazionali in favore di un leviatano globalista che in teoria dovrebbe rappresentare tutti ma in pratica rappresenta solo gli interessi delle elite che lo compongono porterebbe alla soppressione definitiva di ogni libertà.
Ma questa è una consapevolezza tutta moderna: sessant’anni fa – abbondanti – la realtà era ancora diversa e giustificava ogni ottimismo.

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