Aver letto l’«Allodola dello Spazio» non significa essere preparati al suo seguito, l’«Allodola III» (Skylark Three, 1948): si può avere un’idea, certo, di ciò che ci attende ma la lettura del libro trascende ogni previsione. È infatti un luna park di idee strampalate, superscienza ed altre teorie che non stanno né in cielo né in terra, descritte però nei minimi particolari per pagine e tenute insieme dalla semplice presenza dell’Allodola e del suo intrepido comandante, Richard Seaton: le somiglianze con gli omonimi protagonisti dell’episodio precedente però terminano qui, dal momento che l’uno si è trasformato in un superuomo (superscienziato lo era già) per il quale nulla è impossibile e l’altra diventerà una superastronave lunga tre chilometri, capace di qualsiasi capriccio venga in mente all’eroe.
Una storia a due velocità
Scritto come l’originale da E.E. «Doc» Smith e pubblicato a puntate dall’agosto all’ottobre 1930 su Amazing Stories (poi riunite in volume nel 1948), l’atteso seguito dell’Allodola dello Spazio non ha neanche una vera e propria trama ma riunisce una serie di episodi collegati tra loro alla meno peggio e giustapposti dalla minaccia dei fenachroni, i grandi cattivi del libro, che arrivano tardi ma formano un po’ l’imballaggio della storia: come uno scatolone sono infatti inutili ai fini del contenuto ma necessari per tenerlo assieme. Il loro unico compito è di mostrare quanto siano intrinsecamente malvagi e mettere quindi in moto gli eventi che porteranno alla nascita della nuova Allodola III per poi lasciarsi cancellare docilmente dall’universo. E a Smith ci sono voluti due anni per scrivere questo seguito: ideare una trama così scadente non dev’essere stato affatto facile nemmeno per lui.
L’Allodola III prende dunque il peggio del precedente episodio – la superscienza e la faciloneria di alcuni passaggi chiave – e lo spara a undici: la trama è praticamente inesistente, i passaggi logici sono per lo più illogici e la superscienza è ormai fuori controllo, semplice espediente per giustificare la comparsa di una serie infinita di raggi fantasiosi che rendono possibile l’impossibile (persino soggiornare in una stella) e, pur caratteristici della fantascienza anni Trenta, qui puzzano davvero di magia. Il dubbio dev’essere venuto anche allo stesso Smith perché verso la fine del libro Crane, rivolto all’onnipotente Seaton, cita «tutte le altre imprese da stregone che hai compiuto».
Ogni situazione diventa quindi una ripetizione del medesimo paradigma, ripetuto non solo a volontà ma ogni volta con spiegazioni sempre troppo lunghe e pedantesche: 1) si presenta un problema; 2) si determina quale sia il raggio appropriato per risolverlo; 3) si arriva alla soluzione senza batter ciglio. Per un po’ lo schema è tollerabile ma presto diventa una sofferenza senza sorprese.
Così la stessa storia è a due velocità: la prima parte, non eccezionale ma ancora leggibile, sembra volersi aggrappare per quanto possibile a ciò che era stato stabilito nel primo volume ed infatti vede tornare DuQuesne, Dunark (principe osnomiano di Kondal) e qualcosa d’altro già visto nella precedente avventura. Poi però da metà in avanti – in pratica da quando Seaton scopre Norlamin e viene iniziato ai misteri radianti – il libro diventa un catalogo di curiosità superscientifiche e non ha più un solo grammo di storia o attrattiva: è una successione di paroloni, descrizioni fantasiose e seriosità senza un briciolo di frivolezza che uccidono ogni interesse a proseguire la lettura.
DuQuesne, una delusione
La vera frustrazione di questo seguito arriva però dai personaggi, che già non erano la forza dell’originale ma almeno lì erano credibili o per lo meno capaci di suscitare la simpatia del lettore: nell’Allodola III però quei manichini sono diventati delle macchiette, quasi delle caricature se non fosse che, a cominciare proprio dall’autore, si prendono così dannatamente sul serio.
Il caso emblematico riguarda ovviamente il protagonista, Richard Seaton, che da coprotagonista (ma leggermente preferito) del primo episodio qui viene subito promosso protagonista in capo: non solo, oltre che superscienziato è ora divenuto anche un eroe d’azione, di quelli che prima sparano e poi fanno le domande o, nel nostro caso, le battute spiritose. Anzi, è un vero fenomeno da «one-liner» con sparate come «Non c’è niente di sicuro salvo la morte e le tasse» (ma qui cita Franklin), «Sono d’accordo con te fino al diciannovesimo decimale», «Potremo farli ballare come vogliamo» e l’ironico «campione», epiteto che usa per rivolgersi agli scienziati norlaminiani, i più antichi, saggi ed evoluti della galassia, oltre che suoi maestri.
A pagare la promozione di Seaton è invece Martin Crane, l’amico miliardario che pure si diletta di scienza, retrocesso da coprotagonista a spalla: per la verità, già nella scala gerarchica dell’Allodola originale stava un gradino più in basso rispetto a Seaton ma lì almeno aveva una sua funzione e rispettabilità. Qui invece viene tenuto in naftalina a lungo per essere rispolverato solo quando c’è bisogno di ragionamenti complessi, deduzioni ed astrazioni e poi, esaurito il compito, nuovamente riposto in un armadio: Seaton lo definisce «l’elemento pensante di questa nostra associazione simbiotica» e gli riconosce una «mente analitica e il più possibile obiettiva» che però sa quasi di contentino per tenere vivo il personaggio, dato che non è pensabile che un superuomo come Seaton non sia in grado di ottenere gli stessi risultati – o anche migliori – in minore tempo.
E veniamo quindi a DuQuesne, la più grande delusione dell’Allodola III: nell’originale era un bel cattivo, solido e credibile, con motivazioni concrete e comprensibili, se non condivisibili. In quanto antagonista era votato al fallimento ma nell’insieme non era certo una macchietta: anzi, così sicuro di sé e delle sue capacità, risaltava come l’unico personaggio tridimensionale del libro. Qui invece, dopo il prologo scoppiettante in cui ribadisce di essere «sempre stato per l’azione diretta, nelle parole e nei fatti», DuQuesne diventa l’ombra di se stesso: inetto, malevolo, il classico cattivo da fumetti che sceglie il male perché il bene è già stato preso. E così facendo riesce addirittura a farsi ammazzare malamente fuori scena, quando meno te l’aspetti, annientato dai suoi stessi complotti: davvero una trasformazione (in idiota patentato) ed un epilogo fuori carattere per il DuQuesne che tutti ammiravamo. Probabilmente lo stesso Smith dev’essersene reso conto ed infatti nel seguito («L’Allodola di Valeron») lo riporterà in vita, giustificandone la ricomparsa con la morte apparente: DuQuesne non era veramente morto, scopriremo, aveva solo fatto credere di essere stato ucciso. Infatti, come il cinema insegna, nessuno è davvero morto finché non se ne vede il corpo. Ed anche così la prova non è decisiva.
Tutti gli altri protagonisti del primo episodio che ritornano (Dorothy e Margareth, Shiro, qualche osnomiano) meritano appena l’inchiostro che consumano: un caso a parte riguarda Dunark il kondaliano, che pur avendo le stesse conoscenze di Seaton (per lo scambio delle menti che era avvenuto nell’originale) è tuttavia incapace di provvedere a se stesso e di pervenire agli stessi risultati del nostro. Singolare.
Ma a fronte delle altre carenze del libro questa è davvero una minuzia.
Il campo di energia
La storia si apre nel pieno dell’azione: si apprende subito che fuori scena sono successe parecchie cose, tutte provocate da DuQuesne o dalla World Steel, la multinazionale malvagia ma stupida con la quale lo scienziato malvagio ma intelligente (per ora) collabora; si tratta per lo più di tentativi di furto, rapimento, assassinio, bombardamento e cannoneggiamento sventati dalla scaltrezza di Seaton o più facilmente dall’inettitudine dei sicari. Nel breve prologo DuQuesne informa dunque Brookings, l’ottuso presidente della World Steel, che intende prendersi cinque-dieci anni sabbatici per perseguire un suo progetto ed in sua assenza invita il dirigente a desistere dai suoi progetti criminosi: «Io sono sempre stato per l’azione diretta, nelle parole e nei fatti: ieri, oggi, domani, sempre. Ripeto, lei ha le stesse probabilità di uccidere Seaton di quante ne ha un gattino cieco». In altre parole, copiata l’Allodola, DuQuesne vuole vagabondare nello spazio per trovare il modo di far fuori l’eroe. Illuso.
Stacco quindi sui nostri protagonisti, i cui ruoli sono cambiati dall’avventura precedente: come visto, tra un libro e l’altro Seaton è stato promosso protagonista mentre Crane è stato retrocesso a spalla. Seaton è dunque impegnato a studiare una soluzione per una sua recente scoperta: un campo di forza che non può essere passato da nulla, nemmeno dai raggi, ma allo stesso modo isola completamente dall’esterno chi sta all’interno; nelle parole del protagonista, è «una barriera di forza pura, impalpabile, immateriale, priva di qualunque spessore lungo tutta la sua estensione, eppure reale quanto basta a fermare una radiazione che ha valicato cento milioni di anni luce ed è ancora in grado di attraversare uno spessore di dieci metri di piombo come se fossero vuoto spinto». Nemmeno a dirsi, sarà una scoperta decisiva per la storia.
In quella arriva Dunark, il principe ereditario di Kondal, la metà buona di Osnome: in sostanza ha bisogno di due tonnellate di sale di X, il metallo da cui tutto ha avuto inizio, per far fronte all’invasione di un vicino pianeta che, dopo aver spazzato via Mardonale (il regno malvagio che occupava l’altra metà di Osnome) in due giorni, punta adesso ad invadere anche Kondal. Gli attaccanti vengono da Urvania, il terzo pianeta del quattordicesimo sole del loro sistema – l’Ammasso Verde – che però possiede solo l’energia atomica ed i razzi: il sale ed X servono invece agli scienziati osnomiani per provocare un’esplosione tale da lanciare il sesto pianeta e la luna del settimo contro Urvania, provocandone la distruzione. «Non è questione di distruggere o no una popolazione – sentenzia Seaton – l’unica questione è quale popolazione dovrà finire distrutta. Una delle due deve sparire».
Finalmente la storia si è messa in moto: ma i veri cattivi della storia non si sono ancora manifestati.
Arrivano i fenachroni
Basterà infatti flettere i muscoli poco più avanti per far desistere Urvania dai suoi progetti di invasione e costringerlo invece alla pace con Osnome e alla collaborazione: un’esibizione di forza porta sempre consiglio. A quel punto però l’attenzione si sarà già spostata sui veri cattivi, i fenachroni, abitanti del pianeta…Fenachrone, una razza di uomini (non proprio umani, si vedrà) così malvagi e corrotti che ambiscono a impadronirsi della galassia con la forza.
Tornando quindi alla storia, le due Allodole – quella di Seaton e quella di Dunark – caricano tutto il sale che possono portare e decollano alla volta di X (il pianeta coi dinosauri già incontrato nel libro precedente) per prendere tutto l’X (il metallo questa volta) che possono portare: lungo la strada però vengono attaccati senza ragione da un vascello sconosciuto, che distrugge l’Allodola di Dunark e vorrebbe fare lo stesso con quella di Seaton. Tuttavia, prima che sia troppo tardi, l’eroe riesce a mettere in funzione il campo di forza già visto all’inizio e poi, attivandolo e disattivandolo ad intervalli troppo rapidi per essere notati, lo usa come affettatrice per fare a pezzi la nave degli aggressori: fatto ciò, cattura l’unico superstite (il comandante) e salva Dunark e signora (i quattro marinai osnomiani che li accompagnavano invece sono già stati cacciati ed eliminati uno ad uno dai cattivi).
Dal relitto recupera anche una carta stellare tridimensionale e «ultrastereoscopica» dell’intera galassia, il ritrovato più geniale e realistico (o meno superscientifico) di tutto il libro, non troppo diverso da ciò che la fantascienza contemporanea ci mostra oggi grazie ai computer: la mappa del libro è ancora squisitamente meccanica e retrofuturistica, un nastro di pellicola lungo chilometri e chilometri avvolto su due bobine rotanti con un motorino che lo fa scorrere attraverso il proiettore, con ingrandimenti, prospettive e passaggi fluidi di settore in settore. Un autentico gioiellino.
Col prigioniero vengono finalmente rivelati i veri cattivi della storia, i fenachroni appunto, umanoidi solo d’aspetto, perché «si sono evoluti da un genus che riuniva in sé le peggiori caratteristiche dei gatti e delle lucertole carnivore, i due rami più assetati di sangue di tutto il regno animale», sentenzia Seaton dopo aver studiato la mente del prigioniero, e pazienza se questi muore durante l’operazione. Merita leggere la descrizione dell’ufficiale per farsi un’idea dell’aspetto dei fenachroni, che nulla hanno a che vedere con i gatti e le lucertole che conosciamo: «Non era alto più di un metro e mezzo. Le sue gambe erano blocchi massicci, larghe quanto alte, che sostenevano un tronco di proporzioni erculee. Le sue braccia avevano lo spessore della coscia di un uomo robusto, e scendevano fin quasi al pavimento. Le sue stupefacenti spalle, larghe un metro e più, formavano un monoblocco con la testa enorme. Quell’essere possedeva naso e bocca e orecchi riconoscibili; la grande fronte prominente e l’enorme cranio a cupola indicavano un cervello immenso e altamente sviluppato. Ma erano gli occhi, ciò che affascinavano più di ogni altro particolare. Grandi e neri, avevano l’opacità smorta e opaca di una spugna di platino. Le pupille si distinguevano per essere di un nero più vivido, e vi fiammeggiava una luce color rubino: spietata, gelida, beffarda. In quelle sinistre profondità si leggevano un’indicibile saggezza antichissima, una spietatezza assoluta e una ferocia senza confini».
Per qualche arcana ragione, pur avendo sguinzagliato un migliaio di astronavi in ogni angolo della Via Lattea in preparazione del piano di conquista prossimo a scattare, i fenachroni non hanno ancora colonizzato alcun pianeta oltre il loro mondo natale, che non solo ha una gravità elevata ma è anche così caldo ed umido da essere ricoperto dalle nebbie perenni: per Seaton sarà quindi semplicissimo spazzarne via la minaccia dall’universo, quando verrà il momento.
E la storia accelera
Da qui in poi nuovi elementi escono dal nulla in continuazione e vengono gettati nella trama senza sosta, non appena se ne presenti il bisogno: dapprima i nostri scendono su Osnome ed impongono la pace ad Urvania, che riceve anche l’ordine di costruire un nuovo supervascello per Seaton; quindi viene finalmente stabilito che Osnome e gli altri sistemi solari dell’Ammasso Verde si trovano, con una certa approssimazione, al centro della galassia; poi i nostri decidono che per sconfiggere i fenachroni è sufficiente arruolare il miglior scienziato della zona, che Crane (pensiero analitico!) ritiene di poter scovare su Dasor, un pianeta interamente ricoperto dall’acqua e abitato da una razza di uomini focena: si tratta di Sacner Carfon (il 2.347° Sacner Carfon), il cui unico scopo nella storia è indirizzare Seaton alla sua meta finale, il pianeta Norlamin, dove la storia va a morire. E già che c’è, fornire anche la voce – «la più grossa e tonante fra tutti noi» – all’ultimatum lanciato da Seaton a Fenor, imperatore di Fenachrone.
Nel frattempo è ricomparso brevemente anche DuQuesne, solo per farsi disintegrare dai fenachroni stessi mentre cerca di mettersi in contatto con loro: un finale fuori carattere per il personaggio, che infatti nel terzo episodio viene riesumato con la scusa della morte apparente.
Norlamin, il pianeta dei raggi e della noia
A questo punto la storia è ormai sfuggita di mano a Smith: succedono più cose di quante riesca a tenere sotto controllo e, messo forse un po’ alle strette da una trama sempre più ingarbugliata, si vede costretto a inventarsi idee sempre più brillanti o sorprendenti per cavarsene fuori.
La soluzione a tutti i problemi sembra arrivare col pianeta Norlamin, dove i nostri trascorrono in vacanza una buona metà del libro mentre Seaton viene iniziato ai misteri radianti: grazie alla fusione delle menti con Rovol (il Rovol dei Raggi) ed altri scienziati locali, l’eroe apprende tutto quello che c’è da sapere sull’argomento. Per i profani, basterà dire che esiste un raggio per tutto: i più misteriosi e potenti sono quelli del quinto ordine (ma ce n’è anche almeno un sesto, ancora tutto da esplorare), che si suddividono in diverse grandezze e centinaia di bande. A questo punto la sua divinizzazione è completa: non c’è più nulla che possa fermarlo, certo non i fenachroni.
Prima di proseguire, mi vorrei soffermare un momento su Norlamin, il pianeta della noia: è la classica società utopica esemplare, dominata dalla scienza e dagli scienziati, dove tutto è perfettamente lindo e ordinato: nessuno lavora veramente perché ci sono i raggi a provvedere ad ogni necessità così tutti sono liberi di dedicarsi allo studio o all’arte. I migliori nelle singole discipline proseguono il lavoro dei loro progenitori, dedicandosi via via a specializzazioni sempre più minute nei diversi campi: la possibilità di apprendere in un attimo tutto ciò che si può sapere grazie alla fusione delle menti agevola parecchio l’inserimento dei giovani, che fino a cinquant’anni vivono spensierati, poi si dedicano alla ricerca per altri cinquanta ed infine si ritirano a vita di ozio per l’ultimo cinquantennio di vita. Nonostante i loro progressi scientifici, i norlaminiani però non solo non sono né violenti né aggressivi ma non sentono nemmeno il bisogno di colonizzare alcun pianeta: anzi, aspettavano solo di essere scoperti dal Seaton di turno, per trasmettergli tutto il loro sapere.
Fuochi d’artificio
Finita l’interminabile intermezzo di istruzione, Seaton rimette in moto l’Allodola: non la vecchia ma la nuova, l’Allodola III appunto, un mostro lungo tre chilometri per mezzo di diametro che ha fatto costruire agli urvaniani e recapitare a Norlamin. Gli scienziati indigeni hanno poi trasformato l’indistruttibile «dagal» del vascello nell’ancora più indistruttibile «inoson» che solo loro conoscono ed installato apparecchiature di ogni genere, soprattutto il quadro comandi che gestisce il proiettore dei raggi.
Con questa supernave, Seaton salva la giornata: manda l’ultimatum ai fenachroni, che ovviamente lo respingono; per rappresaglia uccide quindi Fenor, il loro sovrano, e condanna all’estinzione il pianeta, salvo ritardarne l’esecuzione per un mese. Quasi volesse dare il tempo al loro scienziato migliore – tale Ravindau, che si aspettava una simile eventualità – di radunare i suoi in tutta fretta e di lasciare il pianeta alla volta di un’altra galassia, dove fondare una colonia da cui, nel futuro remoto, lanciare un nuovo assalto alla Via Lattea: così quando, un mese più tardi, Seaton si ricorda dell’ultimatum, prima disintegra Fenachrone, poi rintraccia tutte le loro navi sparse per la galassia e le distrugge una per una ed infine insegue il missile di Ravindau al di fuori della nostra galassia, col quale ingaggia battaglia (stranamente una delle scene più realistiche del libro: le due navi si combattono da distanze incredibili, affidandosi ai soli strumenti).
Superfluo dire che le «forze della pace universale» vincono, proprio all’ultima pagina.
Un libro che si prende troppo sul serio
Non credo che a questo punto serva davvero tirare le conclusioni; penso anzi di aver già lasciato filtrare abbondantemente il mio giudizio nei paragrafi precedenti: infatti, a differenza dell’originale, che aveva i suoi limiti ma nell’insieme sprizzava entusiasmo, l’Allodola III è decisamente un cattivo libro, dalla trama forzata. Manca del tutto l’ingenuità e la leggerezza della precedente avventura, che magari possono apparire risibili al lettore moderno ma non si può negare che forniscano anche una storia godibile, un ottimo esempio della space opera degli esordi: l’Allodola III invece si prende sin troppo sul serio e si perde nel tentativo di mettere insieme una storia che deve essere grandiosa.
Ne risulta un libro al quale non manca certo il senso del meraviglioso ma dal quale purtroppo è assente tutto il resto: è solo un catalogo di superscienza sfrenata che tra paroloni e descrizioni impossibili assomiglia davvero troppo alla magia, anche tenendo conto della citatissima terza legge di Clarke.
Ciononostante sono deciso a proseguire e recensire anche il terzo volume, «L’Allodola di Valeron»: per niente al mondo però mi spingerò oltre.
Aver letto una volta «L’Allodola DuQuesne» – il quarto volume – basta per tutta la vita.
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