Come nella miglior tradizione dei pulp, La città incantata di Nelson Slade Bond – un autore che non conoscevo prima di questo libro – è un cosiddetto «fixup», ossia mette insieme più racconti (tre, in questo caso) e ne tira fuori un romanzo unico, con una trama più o meno coerente ed omogenea: qui si tratta della «Sacerdotessa che si ribellò» (The Priestess Who Rebelled, 1939), del «Giudizio della sacerdotessa» (The Judging of the Priestess, 1940) e della «Città della lunga morte» (Magic City, 1941), pubblicati su tre diverse riviste, nell’ordine Amazing (Stories), Fantastic (Adventures) ed Astounding (Science Fiction). Tutti hanno per protagonista Meg, la sacerdotessa eponima.
Pur senza essere una lettura eccezionale, nell’insieme ho trovato questa «storiona» abbastanza gradevole.
L’ambientazione
Nel futuro del trentacinquesimo secolo il mondo – almeno quello che conta: il Nord America – è tornato alla barbarie in seguito ad una guerra totale combattuta nel 1984: in alcuni punti si accenna alle bombe atomiche, in altri si parla solo di armi sempre più micidiali. Quello che conta davvero è che gli uomini al fronte combattevano, le donne a casa costruivano gli armamenti, finché non si sono stancate delle follie maschili, hanno smesso di foraggiare i combattenti e si sono ritirate in città fortificate. Rimasti senza munizioni, gli uomini hanno dovuto sospendere la guerra per iniziarne un’altra con le donne che, come avviene in ogni discussione domestica, alla fine hanno vinto.
Si è così costituita una società matriarcale suddivisa in clan che ha resistito per mille e cinquecento anni: nel prologo viene costruito un parallelo con le amazzoni dell’antichità, che però viene presto anche abbandonato. All’interno dei clan le donne sono divise in tre classi (le guerriere, le operaie, le «madri») mentre gli uomini, presentati come ritardati ed informi, vengono mantenuti solo come fuchi.
Su tutti governa la Madre (con la emme maiuscola, per distinguerla dalle comuni genitrici), una sorta di sacerdotessa che conosce il grande segreto: contrariamente a quanto creduto e professato da tutte le donne, la società degli Antichi era governata dagli uomini, tanto che persino le quattro dee di queste amazzoni del futuro (Jarg, Ibrim, Taamus e Tedhi) sono in realtà dei, come scoprirà la protagonista al termine del suo pellegrinaggio al monte Rushmore. Si tratta infatti di Washington (George), Lincoln (Abramo), Jefferson (Thomas) e Roosevelt («Teddy»), i cui nomi si sono storpiati nel corso dei secoli, come lo sono quelli di molte altre località: la «Jinnia» nativa di Meg (probabilmente la Virginia), il Braska ed il Kota, Loovil e Slooie e così via.
Le storie
Come detto, questo libro cuce assieme tre storie collegate tra loro ma pubblicate separatamente, che diventano altrettanti «libri»: per dare l’impressione di omogeneità, la numerazione dei capitoli è progressiva.
1 – La sacerdotessa che si ribellò (The Priestess Who Rebelled, 1939)
Il «libro primo» è anche il migliore dei tre: descrive l’ambientazione e presenta la scelta di Meg che, raggiunta l’età per decidere a quale tre delle caste vuole appartenere, sceglie di diventare la nuova Madre. L’attuale, ormai vecchia, la accetta come successora senza fare storie. Passano gli anni e Meg è finalmente pronta a prendere il posto di capoclan: per farlo deve solo compiere il pellegrinaggio rituale al «Posto delle Dee», che si trova nel «Kota».
Il viaggio, come prevedibile, la trasforma: aggredita da un selvaggio (gli uomini tornati allo stato selvatico che infestano le foreste in cerca di donne da rapire), viene salvata da Daiv, un uomo di una tribù sconosciuta alle amazzoni in cui non comandano le donne. Questi decide di accompagnare la protagonista, la quale a sua volta, accortasi che Daiv non è né un degenerato come gli stalloni dei clan né un bruto come crede siano tutti gli altri uomini, lo accetta di buon grado come compagno.
Giunta infine al Posto delle Dee (il monte Rushmore), dove Daiv non può entrare, Meg ha la rivelazione: le dee sono in realtà dei. Con questa consapevolezza, si affretta a raggiungere l’uomo (per il quale aveva già iniziato a provare certe emozioni) e ad iniziare una nuova vita con lui.
2 – Il giudizio della sacerdotessa (The Judging of the Priestess, 1940)
Questo racconto – il più debole dei tre – riprende la narrazione laddove si era conclusa: Meg e Daiv stanno tornando a Jinnia, dove la ragazza, che adesso cavalca una cerbiatta, vuole rendere pubblica la rivelazione e, già che c’è, presentare il compagno alle «sorelle». Superfluo dire che deve fare i conti col rifiuto del clan: quando le cose si stanno mettendo male per i protagonisti, la situazione precipita per tutti: un vicino villaggio è stato razziato da «malvagi gnomi gialli» (erano gli anni in cui la minaccia orientale era ancora forte: entro un anno l’America sarebbe entrata in guerra col Giappone), dotati di armi all’avanguardia.
La notizia fa appena in tempo a giungere a Jinnia quando anche il clan di Meg viene attaccato dagli invasori, così da permettere a Daiv di fuggire: gli gnomi combinano tutti i peggiori errori che un cattivo da pulp può commettere (spiegano il funzionamento delle loro armi ai prigionieri, ne danno dimostrazioni gratuite, fanno minacce a vuoto, scelgono di eliminare i nemici con rituali lunghi e complessi invece di farla finita subito e parlano, parlano, parlano), così da rendere possibile la rivolta delle amazzoni già prigioniere e, all’arrivo di un’armata di selvaggi guidati da Daiv, la propria disfatta totale.
La storia termina con l’inizio di una nuova era: Meg, divenuta la nuova Madre, decide che le amazzoni ed i selvaggi (che poi così selvaggi non sono) debbano vivere assieme e formare coppie.
3 – La città della lunga morte (Magic City, 1941)
Decisa a fermare lo Spirito del Silenzio (la morte), Meg e Daiv lasciano il clan diretti nelle terre proibite a nord est e alle rovine di New York. Entrano in contatto con un altro clan di amazzoni, che vive nei tunnel della metropolitana e, col loro aiuto, raggiungono i resti del St. Luke’s Hospital, dove ritengono dimori lo Spirito. Attaccati dagli adoratori di Salibbidà (la consorte dello Spirito), si rifugiano in una stanzetta in cui trovano manuali di medicina: da qui però non c’è via di fuga e così Meg, con posa profetica, decide di affrontare gli aggressori che, al solo vederla, cadono in ginocchio. Il suo aspetto e la posa che assunto la rendono infatti identica alla Statua della Libertà, la loro dea.
Sistemate le ultime formalità, Meg e Daiv tornano a Jinnia.
Il giudizio
Pur senza essere uno dei pulp più ispirati, La città incantata è una buona lettura: lo si legge più per lo svago che per le sorprese, dal momento che, nella miglior tradizione del genere, la trama è così lineare da lasciare sempre prevedibile come si risolveranno le diverse situazioni. È una storia di un’altra epoca, nella quale l’aderenza scientifica non era tanto importante quanto la capacità di intrattenere e divertire il lettore.
La prima storia è di gran lunga la migliore: il ritmo è veloce, la trama ben congegnata, l’epilogo abbastanza sorprendente. La seconda è trascurabile (e certo non aiuta a renderla migliore ciò che scrive il traduttore nell’introduzione: alcuni tratti più estremi degli gnomi invasori sono stati cambiati o addolciti, d’accordo con Bond stesso), la terza appena decente.
Non è un libro che consiglierei a chiunque ma sono certo che gli amanti dei pulp sapranno apprezzarlo comunque.
Voto: 6
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