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Robert Moore Williams – Jongor of Lost Land

Non è facile resistere – non lo è per me, almeno – all’attrattiva di un bel mondo perduto: un angolino del nostro pianeta ben isolato dal resto della terra e popolato di selvaggi, dinosauri, rovine, popoli misteriosi, vegetazione lussureggiante, macchine superscientifiche, tesori e magari anche un bel vulcano fumigante.
Come genere della narrativa fantastica aveva decisamente molto più successo fino ad un secolo fa o giù di lì, quando i satelliti non avevano ancora spiato ogni centimetro della terra cancellando ogni mistero e qua e là sopravvivevano ancora zone inesplorate che, nell’immaginario, potevano benissimo essere abitate dalle creature più fantastiche: oggi ormai i mondi perduti resistono solo nei vecchi libri d’avventura (e, chissà, magari anche nel sottosuolo, se la terra dovesse essere cava come immagina Edgar Rice Burroughs nell’affascinante serie di Pellucidar), per soddisfare il bisogno di evadere dalla grigia monotonia quotidiana.
Certo, è vero, storie e ambientazioni di questo tipo sono solitamente quasi identiche o almeno molto simili tra loro; ciononostante, riescono sempre ad accendere l’interesse dell’appassionato, perché raccolgono e mescolano tutti gli ingredienti di una bella avventura: è proprio il caso di «Jongor of Lost Land» (1940), un buon racconto di Robert Moore Williams che già dalla copertina, illustrata da Frank Frazetta (lo stesso disegnatore che ha dato un corpo possente a Conan), non manca di attirare l’attenzione del lettore.

Non uno ma tre racconti
A voler essere precisi, sono tre i racconti che hanno per protagonista l’eroe eponimo, pubblicati nell’arco di una dozzina d’anni e collegati l’uno all’altro in una sorta di storia unica, anche se spuntano parecchie incongruenze tra un episodio e il successivo: si tratta di «Jongor of Lost Land» (ottobre 1940), «The Return of Jongor» (aprile 1944) e «Jongor Fights Back!» (dicembre 1951), l’unico della serie che sia stato tradotto anche in italiano con il titolo di «Jongor, il terrore della jungla» (Urania, 1981).
In origine tutte le storie sono apparse su Fantastic Adventures, una delle riviste pulp minori, che però ha resistito per una quindicina d’anni, inclusi quelli della guerra, difficilissimi per l’editoria americana a causa delle limitazioni sull’uso della carta: si dice che alla fine del 1940, sull’orlo della chiusura, Fantastic sia stata salvata proprio dal primo dei tre racconti di Jongor e dalla copertina evocativa che lo illustrava. E parlando di immagini, tutte le illustrazioni, sia dei numeri di Fantastic (qui e qui) in cui sono usciti per la prima volta sia dei libri pubblicati in America nel 1970 (qui), condividono lo stesso fascino evocativo.

Un Tarzan minore
Come si intuisce dai titoli, l’eroe tuttofare dei racconti si chiama Jongor: anche se suona come un perfetto nome primitivo, è in realtà la fusione del nome e cognome del protagonista, John Gordon, storpiati dal bambino che cercava di pronunciarli. Jongor infatti è figlio di un aviatore americano e di sua moglie, precipitati nella terra perduta mentre la sorvolavano, a spanne attorno al 1915: tenuti prigionieri dall’anello di montagne invalicabili che la circonda (ma almeno un passo che la congiunge con l’esterno esiste, altrimenti non si spiegherebbe tutto il traffico da ora di punta che affolla le storie), mamma e papà Gordon non hanno potuto far altro che stabilirsi in questo angolo dimenticato del pianeta; in seguito è nato John, che però a soli dodici anni è rimasto orfano, a causa degli odiati «teros», gli pterodattili. Così ha dovuto crescere contando solo su se stesso e oggi, più o meno venticinquenne, è un gigante muscoloso dalla pelle abbronzata, dai capelli neri e dagli occhi grigi che si muove da padrone nella terra perduta.
Novello Tarzan, sul quale è chiaramente modellato, non conosce la compagnia degli altri uomini ma il ricordo della madre lo addolora ancora: confessa infatti ad Ann Hunter, la coprotagonista, che prima di incontrarla (e salvarla) si sentiva solo, al punto che aveva iniziato a parlare da solo, facendo finta che ci fosse qualcun altro con lui.
Grazie ad una gemma degli antichi lemuriani montata su un bracciale che porta al polso, Jongor è in grado di comandare i dinosauri che ancora popolano la valle: spesso li monta come cavalcature e nelle situazioni di difficoltà li usa come diversivi o forze d’assalto, a seconda delle circostanze; non è però in grado di comandare gli odiati pterodattili, per i quali esiste un’altra gemma, di cui si impossesserà. Ma da quel momento i mostri volanti scompaiono dai racconti.
Già nella prima storia si lega ad Ann Hunter, una bella e ricca newyorchese che si è avventurata nella valle in cerca del fratello gemello Alan, scomparso mesi prima durante un’esplorazione della valle: lei è cotta di lui (Jongor, intendo), lui (sempre Jongor) prova del tenero ma non è in grado di comprendere le nuove emozioni che sente dentro. Se fosse una storiella per teenager ci sarebbe materiale per riempire decine di volumi: ma per fortuna sono storie scritte per i pulp, dove c’è spazio solo per l’azione e la brevità, e così ce la caviamo con poche noterelle qua e là.
Del «team Jongor» fa infine parte anche il già citato Alan Hunter, che era stato catturato dagli uomini scimmia ma si libera nel finale del primo racconto e così si riunisce alla sorella e futuro cognato. Tra i due nasce subito una solida e maschia amicizia: Alan però è poco più di un espediente narrativo che appare quando c’è bisogno di una comparsa e sparisce una volta assolto il suo compito.
Sancita l’amicizia, il terzetto cerca continuamente di lasciare la terra perduta per tornare al mondo civile ma ogni volta viene bloccato dagli eventi che costituiranno la trama del racconto: nel finale della terza storia però si scorge già un’anticipazione del ritorno di Jongor al «paese dei suoi genitori».

Una terra non così dimenticata
Circondata dal grande deserto australiano, la terra perduta che offre l’ambientazione a tutti e tre i racconti è una sorta di gigantesco cratere circondato da montagne invalicabili, con l’eccezione di un passo che dovrebbe essere sconosciuto ma dal quale transitano almeno quattro spedizioni in pochi mesi: quella durante la quale Alan Hunter scompare; quella di Ann Hunter per ritrovare il fratello (in «Jongor of Lost Land»); quella dei due avventurieri Schiller e Morton (in «The Return of Jongor»); e quella degli altri due avventurieri Gnomer e Rouse (in «Jongor Fights Back!»); dai racconti dell’eroe, anche suo padre, il capitano Robert Gordon, avrebbe valicato il passo nel tentativo di tornare alla civiltà ma il deserto che circonda il cratere l’avrebbe poi costretto a desistere e tornare indietro.
Rimasta isolata dal resto del mondo a causa della sua orografia, questa valle (è più comodo chiamarla e figurarsela in questo modo) non è stata toccata dal tempo: è ancora così come doveva essere al tempo dei dinosauri, anche se con molte, forse anche troppe, licenze. La prima è il popolo dei Muros/Murtos (il nome varia tra il primo racconto e i successivi), discendenti imbarbaritisi degli antichi lemuriani: qui Williams prende ispirazione dai vagheggiamenti di Madame Blavatski, l’ideatrice della teosofia, che nella «Dottrina segreta» aveva teorizzato l’esistenza nell’antichità del continente di Lemuria, inabissatosi in epoche remote, del quale proprio l’Australia sarebbe un frammento. Secondo la Blavatski inoltre i lemuriani avrebbero avuto la coda: ed i Murtos, autentici uomini scimmia, non solo ce l’hanno ma traggono anche grande vanto e prestigio dalla sua lunghezza e floridezza. Vengono così definiti l’«anello mancante» dell’evoluzione.
I Murtos abitano ancora le rovine dell’antica città dei loro progenitori, una colonia di minatori che si sarebbe salvata dal disastro che ha colpito la madrepatria: gli edifici di pietra custodiscono ancora i macchinari sorprendenti dell’antica civiltà – macchine volanti, altre che possono scrutare ogni angolo della valle e farvi arrivare la voce dell’utilizzatore, altre ancora che creano turbini devastanti, scavatrici dotate di raggi disintegranti: il classico armamentario della superscienza, per intenderci – ma soprattutto traboccano di oro e diamanti, che per generazioni i minatori hanno continuato ad estrarre e accumulare anche dopo la caduta di Lemuria.
Pur selvaggi, i Murtos sono retti da un re ma alla sua morte (viene ucciso nel primo racconto per liberare Ann) si trasformano improvvisamente in una banda di scimmioni incapaci di costituire persino una parvenza di tribù: per ragioni loro odiano Jongor e desiderano vederlo morto, ma solo dopo atroci torture, così continuano ad architettare agguati che regolarmente falliscono.
La valle è abitata anche dagli ultimi centauri, gli Arklan: compaiono per la prima volta all’inizio del secondo racconto e prima della fine dello stesso si sono già estinti. Sono una razza antica, più antica persino dei lemuriani: per ragioni non specificate, dopo essersi estinti nel mondo esterno sono riusciti a sopravvivere solo nella valle, dove però non hanno mai rappresentato una vera potenza. Anche nei tempi migliori infatti gli Arklan erano meno di un migliaio e nell’oggi della storia sono ridotti a poche centinaia.
Sono una razza longeva e legata ottusamente alle tradizioni, come si costuma nei pulp: la regina Nesca infatti, pur essendo a conoscenza di un complotto per eliminarla e prendere il potere, non si difende in alcun modo ed anzi attende passivamente che i congiurati entrino nei suoi appartamenti per ucciderla, perché così si è sempre fatto quando veniva deposto un sovrano (anche suo padre, quando le ha passato la corona, ha accolto la decapitazione sul posto).
Dotati di leggere capacità precognitive, i centauri possiedono armi a raggio potentissime, dalle pistole ai cannoni, e pure macchinari così sofisticati che non si distinguono dalla magia: è il caso ad esempio di un sistema di messaggistica non dissimile dal telegrafo che raggiunge il destinatario alla prima occasione in cui si avvicina ad uno specchio d’acqua, non importa se si tratta della superficie di un lago o del contenuto di un bicchiere. In un qualche momento del passato hanno cullato anche il sogno di divenire la razza dominante della terra, come testimonierebbe una splendida statua del Pegaso che sorvola il globo terrestre. Ma oggi sono un popolo ristagnante – erano sulla china calante già quando Lemuria muoveva i primi passi – e quindi è venuto il momento di farla finita: con lo stesso fatalismo con cui pochi minuti prima stava accettando la morte, Nesca decide infatti che per l’intera razza dei centauri è venuto il momento di scomparire definitivamente. Un’uscita davvero col botto.
Una terza razza che deve esistere nella valle ma di cui persino a Jongor ignora l’esistenza è infine quella dei giganti, uomini alti tre metri dei quali si vede un unico rappresentante, un tale Calazao, che non fa proprio una bella figura: si può solo ipotizzare quali conclusioni di debbano ricavare dalla sua magra apparizione.
Non sarebbe però un mondo perduto se non ci fossero i dinosauri o dinos, anche se l’impressione è che ce ne siano meno di quanti sarebbe lecito aspettarsi: dalle descrizioni generiche che vengono offerte se ne notano i classici tipi, dai brontosauri ai tirannosauri, che però non vengono mai nominati esplicitamente; e l’unica volta in cui ne viene nominata una specie Williams fa pure confusione, probabilmente di proposito: Jongor infatti guida una carica di tre tirannosauri chiamati «thunder lizards» (lucertole tonanti) che, per carità, è un nome fantastico ma purtroppo è la traduzione dei più prosaici brontosauri, rettili molto meno famelici dei precedenti.
I dinos sono i dinosauri per così dire «buoni» ma la valle è infestata anche dagli pterodattili o teros, che sono il ramo deviante della famiglia: odiati da Jongor perché gli hanno ucciso i genitori, i teros praticamente scompaiono alla fine del primo racconto ed al massimo vengono nominati ma mai mostrati nelle storie successive. La descrizione che l’autore ne dà è molto ingegnosa: questi animali infatti non sono capaci di prendere il volo da terra ma solo di planare, così scalano le montagne e i cornicioni di roccia, da cui poi si gettano quando individuano la preda: una volta a terra sono abbastanza veloci, agili e micidiali in virtù del loro becco dentato da cavarsela anche quando sbagliano la mira.
Col secondo racconto poi la valle si arricchisce di altri animali, per lo più mammiferi, che non si sa come siano arrivati né come facciano a sopravvivere accanto ai dinosauri: si citano cervi, daini e leoni oltre a coccodrilli lunghi dieci metri. Ma hanno una funzione per lo più ornamentale, proprio come la vegetazione, che non pare mai così rigogliosa e opprimente come ci si immagina dovesse essere una foresta primitiva ma ricorda semmai più la savana in cui scorrazza Tarzan.

– Jongor of Lost Land (1940)
Racconto abbastanza tipico dell’epoca: una ragazza, Ann Hunter, vuole ritrovare suo fratello Alan, disperso nella Terra Perduta, una specie di enorme cratere nel cuore del deserto australiano. La accompagnano l’ex socio del fratello, Varsey, che era fuggito portandole la notizia, e la loro guida, Hofer: entrambi nascondono cattive intenzioni. Nella terra perduta, che è abitata da dinosauri e subumani (i discendenti dei lemuriani), succedono cose ma la ragazza ne esce sempre bene grazie a Jongor, figlio di una coppia di americani che si erano schiantati qui con l’aereo e non ne sono più usciti, una specie di Tarzan che non nasconde di sentirsi solo perché non ha compagni.
Abbandonati dai portatori indigeni, che sobillati da una voce uscita dal nulla si ribellano e cercano di ucciderli, Ann, Varsey e Hofer vengono salvati dall’arrivo improvviso di Jongor, che mette in fuga i selvaggi: e per tutto ringraziamento si becca una pallottola da Varsey – descritto per tutto il racconto come un debole e un codardo – che lo scambia per il capo degli indigeni. Jongor scansa facilmente il proiettile, che lo ferisce solo di striscio alla spalla, e – incuriosito ma non ostile – si mette a seguire il trio, che è sempre deciso ad inoltrarsi nella terra perduta: non solo per trovare Alan ma soprattutto per gli interessi nascosti dei due accompagnatori della ragazza. Varsey infatti crede di aver ucciso Alan e adesso vuole mettere le mani sulle ricchezze che aveva visto nella città dei Muros, i discendenti di un’antica colonia di lemuriani; Hofer, un anarchico, ha invece sentito parlare delle meraviglie tecnologiche dell’antica razza e vuole impadronirsene per mettere in ginocchio il mondo.
Dopo altri pericoli (la trama è una fuga continua: dai portatori, dagli pterodattili, dal tornado artificiale, dalla nave volante degli uomini scimmia) Ann viene finalmente catturata dai Muros, che decidono di sacrificarla al dio del sole: ma Jongor si è già messo in moto e, dopo altre tribolazioni, salva la situazione. Prima Varsey, con l’aiuto di un dignitario dei Muros che vuole la ragazza per sé, uccide il re degli uomini scimmia e finge di liberare Ann; poi Hofer uccide Varsey; infine Jongor uccide sia il dignitario dei Muros, al quale strappa la gemma che permette di comandare gli pterodattili, sia Hofer, che si era rifugiato nella città ora deserta e minacciava di portare distruzione sul mondo: eliminata così ogni opposizione, Jongor ed Ann trovano anche Alan, che era tenuto prigioniero dai Muros ma è riuscito ad evadere approfittando del caos degli ultimi giorni.
In questo primo racconto c’è tutto quello che serve per una buona avventura pulp: giungla, rovine, dinosauri, subumani, superscienza, civiltà perdute, pericolo e pure un po’ di romanzetto rosa.

– The Return of Jongor (1944)
Il seguito non è all’altezza dell’originale: è invece quasi senza capo né coda e fatica ad andare d’accordo con l’ambientazione e gli eventi noti.
Dal contesto sarebbero passati solo pochi giorni ma la situazione che si presenta al lettore è cambiata radicalmente, probabilmente perché in realtà sono passati quasi quattro anni dalla precedente pubblicazione: tanto per cominciare, i tre protagonisti paiono conoscersi da molto tempo e affettano una familiarità che prima non avevano; poi, Ann e Alan sono ora abituatissimi alla vita primitiva, quasi come Jongor; ed Ann addirittura conosce la lingua dei Murtos, per essere stata loro prigioniera solo pochi giorni. I Murtos stessi sembrano un popolo diverso da quello già incontrato: non solo hanno guadagnato una «t» nel nome ma adesso vivono da autentici selvaggi – ancora più di quanto già fossero – e menzionano la «distruzione» della loro città come se fosse avvenuta molto tempo prima: ma in realtà abbiamo visto che è stata solo leggermente danneggiata dai dinosauri nel colpo di mano di Jongor (in buona parte era già in stato di abbandono da prima) e potrebbe essere rioccupata e aggiustata senza difficoltà.
E poi c’è la terra perduta, che nel primo episodio era di dimensioni più contenute – un’ampia valle o cratere – ed ospitava solo Jongor, i Murtos ed una manciata di dinosauri: adesso sembra essere molto più vasta. L’ambiente stesso è cambiato, meno selvaggio e minaccioso ma più fantastico e vivibile: i dinosauri restano ma ci sono anche cervi e leoni. E ci sono pure i cannibali e i centauri, con una loro città ed una civiltà avanzatissima (erano progrediti ancor prima che sorgesse Lemuria: e abbiamo già avuto modo di vedere quanto fosse evoluta la loro scienza).
La superscienza adesso è così spinta da sfiorare quasi la magia: c’è una gemma simile a quella di Jongor che però permette di controllare le menti umane; un sistema di comunicazione che utilizza gli specchi d’acqua (anche una tazza va bene) e raggiunge il destinatario ovunque si trovi; e poi le classiche armi a raggi che appartengono all’arsenale più tradizionale dei pulp.
Quanto alla trama, tutto si basa sullo stupid plot: anzi, su una sequenza di stupid plot, perché arrivano uno dopo l’altro, come per giustificarsi a vicenda.
Jongor sta facendo ritorno al mondo civile con i fratelli Hunter ma viene convocato da Nesca, regina dei centauri, che chiede il suo aiuto. La ragione si regge su fiacchi esercizi di ginnastica mentale: a causa delle azioni di Jongor, i Murtos hanno perso le loro abitazioni; adesso assediano la città dei centauri per conquistarla e prendervi dimora; e siccome è colpa di Jongor se i Murtos sono rimasti senza casa e quindi se stanno assediando i centauri, l’eroe deve accorrere il prima possibile per aiutarli. Ma tutti questi dettagli spuntano solo molto più avanti: in un primo momento si sa solo che una certa regina Nesca (viene taciuto che è una centaura) lo ha convocato, per suscitare la curiosità e soprattutto la gelosia di Ann, che così si mette nei guai e caccia nei guai anche il fratello.
I due infatti vengono catturati dai cannibali (una banda di aborigeni del deserto che si sono spinti appena al di qua del passo per un’incursione) e si salvano solo per il provvidenziale intervento di Jongor, che libera anche altri due individui sospetti, pure loro sul menù di quella sera. Tutto nel comportamento dei nuovi arrivati tradisce cattive intenzioni ma nessuno se ne accorge sino allo smascheramento finale (mentre sono di guardia, il dominante uccide il sottomesso per mettersi con l’altra fazione, che sembra stia per avere la meglio).
Nuovamente insieme, decidono di andare tutti e cinque da Nesca: ma la sera successiva, mentre Jongor è a caccia e gli altri attendono passivamente che lui provveda a sfamarli, il Grande Orbo (nome, non aggettivo), nuovo capo dei Murtos, usa una gemma per insinuare un pensiero nella mente di Ann e catturarla: il funzionamento di questa gemma è simile a quello del bracciale che permette a Jongor di comandare i dinosauri, solo che questa agisce sulle menti umane. E solo se la vittima non ne conosce l’esistenza, perché altrimenti la mente ne riconosce l’impulso e può resisterle facilmente.
La cattura di Ann servirebbe ai Murtos come esca per attirare Jongor in una trappola: ma già senza la ragazza l’eroe si stava cacciando nei guai, non c’era ragione di insospettirlo ulteriormente col rapimento di Ann. Infatti, nella stessa scena in cui Orbo illustra il suo piano a prova di fallimento, si apprende che il telegramma di Nesca era un’altra esca: in cambio di un sacchetto di diamanti, di cui i centauri sono avidi, il malvagio Mozdoc, avversario politico della regina, ha accettato di corrompere i preti del dio dell’acqua per mandare il falso messaggio a Jongor e attirarlo, udite udite, in un’altra trappola. I piani dei cattivi si fanno sempre più diabolici.
Quella notte stessa però Ann riesce a liberarsi, solo per farsi inseguire da un leone, dal quale infine sfugge arrampicandosi su un albero: la salverà, fuori scena, la stessa Nesca, che passava di lì.
Intanto Jongor ha sgominato i Murtos, spremendo da uno di loro tutte le informazioni che desiderava più altre non richieste.
L’eroe alla fine raggiunge Ann, che è custodita da Nesca nel suo appartamento: non è prigioniera e anzi la regina esorta entrambi ad andarsene immediatamente. Si sta infatti consumando una congiura di palazzo: e la tradizione impone che il sovrano deposto accetti di essere ucciso dai congiurati senza opporre resistenza; la regina sta quindi aspettando con impazienza che si consumi l’ultimo atto. Jongor però la convince a lottare e assieme alle guardie fedeli raggiungono, dopo aver raccolto per strada il resto del gruppo, la fortezza scavata sotto la montagna, nella quale i centauri tengono le armi più potenti.
Sotto assedio da parte del resto del suo popolo, Nesca ha modo di confidare gli ultimi segreti a Jongor e soci (che la loro razza è antichissima, che avevano cullato il sogno di conquistare il mondo, che sono leggermente precognitivi e quindi lei già sa che quella notte la sua razza scomparirà per sempre) prima di caricarli con l’inganno su una barca ancorata in riva ad un fiume sotterraneo che scorre nelle viscere della fortezza. E poi, quando i nostri sono lontani, fa esplodere la fortezza e la città: i centauri non ci sono più. Ma potrebbero sempre tornare: infatti, dopo la scena con Orbo, non si è più visto Mozdoc, anche se era l’istigatore principale della congiura. Probabilmente è scampato al disastro.

– Jongor Fights Back! (1951)
Epilogo imbarazzante delle avventure di Jongor: la storia non è così assurda come la precedente ma nella ricerca di nuove idee ad ogni costo rasenta comunque il ridicolo.
Come il precedente episodio, anche qui i tre protagonisti – Jongor e i fratelli Alan e Ann Hunter – stanno cercando di uscire dalla terra perduta per tornare nel mondo civile. E ancora una volta i Murtos ostacolano i loro piani: nonostante le batoste subite sinora infatti non hanno ancora rinunciato ai loro propositi di fare la pelle a Jongor. Questa volta hanno dalla loro un gigante uscito letteralmente dal nulla (persino Jongor ne ignorava l’esistenza), un omaccione alto più di tre metri che usa (male) un’ascia bipenne e fa la figura del babbeo: spunta all’improvviso, si lascia sfuggire l’eroe e subito scompare per riapparire nelle ultime pagine, e solo per farsi sistemare una volta per tutte dall’eroe.
Il racconto si apre dunque con un’altra imboscata dei Murtos ai danni dei nostri: solo che questa volta quasi riesce, perché gli uomini scimmia catturano gli Hunter e costringono Jongor alla fuga. Ma mentre questi cerca di rifugiarsi nella foresta viene colpito alla nuca da una clava lanciata con incredibile precisione che, pur senza causare danni seri, qualche conseguenza ce l’ha: l’eroe infatti perde la memoria dell’ultimo anno. Così, dimenticati gli amici, non pensa nemmeno ad andare a salvarli ma anzi, quando si imbatte in due poco di buono (per essere un mondo perduto, la terra di Jongor è piuttosto frequentata), è convinto che questi siano i primi umani che incontra e cerca di farseli amici. Quelli per tutta risposta lo catturano e lo costringono a fargli da guida: sanno infatti della città dei Murtos, delle miniere e delle sale zeppe di oro e diamanti. Ma, stufo dei maltrattamenti, una notte l’eroe fugge con l’aiuto di un dinosauro.
Nel frattempo anche i due fratelli riescono a liberarsi dai Murtos ma vengono ricatturati poco dopo: Ann, quantomeno, perché Alan viene abbandonato a terra e dato per morto. Più avanti i due avventurieri già incontrati da Jongor si uniscono ai Murtos ed assieme progettano nuove imboscate al signore del luogo: la ragazza, che conosce la lingua locale, si presta a fare da interprete tra i due gruppi e traduce diligentemente la conversazione invece che tentare di sabotarla come sarebbe logico.
Finalmente tutte le strade si ricongiungono alla città dei Murtos, che dopo essere scomparsa nell’avventura precedente riappare in questa, anche se in condizioni di abbandono: in buona sostanza, qui anche Jongor viene catturato e sta per essere sacrificato assieme ad Ann al dio delle miniere (un antico macchinario dei lemuriani per scavare la roccia, che impiega un raggio disintegratore: i due avventurieri hanno trovato il modo di riattivarlo) quando ricompare Alan, che si lancia al salvataggio davanti all’intero popolo degli uomini scimmia. Non avrete mica pensato che fosse morto davvero?
Nell’articolato finale, Jongor uccide uno dei due avventurieri (l’altro viene sistemato dai Murtos) e poi stermina i selvaggi col raggio disintegratore: infine, mentre lascia le miniere ormai deserte con Ann e Alan, liquida pure il gigante visto in apertura, che a quanto pare cercava solo un modo per uscire di scena in maniera umiliante.

Il fascino tiene finché resta il mistero
Nonostante l’ambientazione esplosiva, le storie ambientate nei mondi perduti finiscono spesso per deludere: partono infatti con grandi aspettative che però non mantengono quasi mai. Così alla fine il lettore rimane con un senso di amarezza in bocca che lo spinge a cercarne altre, nella certezza (perché è una certezza) che queste saranno migliori: e così il ciclo continua, una mezza delusione dopo l’altra.
Sì, sono solo mezze delusioni, non piene, perché anche le storie peggiori riescono comunque ad offrire ore di svago e a creare ottime ambientazioni: tutte infatti descrivono mondi seducenti, carichi di pericolo e mistero che attendono solo di essere esplorati.
Ecco, forse ciò che rovina le storie è proprio questo: il fascino di una terra perduta rimane tale finché è misteriosa; quando il velo viene sollevato e l’ambientazione, le sue minacce, i suoi misteri messi a nudo, l’attrattiva si dissolve come neve al sole, perché all’improvviso svaniscono tutti gli elementi per così dire magici che servono di richiamo: è un meccanismo naturale che però spiega perché queste storie partono sempre bene e poi sembrano perdersi per strada. Certo, anche i finali hanno una loro parte di responsabilità, soprattutto quando queste terre dimenticate dal tempo svaniscono in seguito alle azioni dei protagonisti, un espediente classico del genere: e così, scoperte all’improvviso dopo ere intere di tranquillo isolamento, in brevissimo tempo si inabissano o scompaiono, e questa volta per sempre. Bella delusione.
Le storie di Jongor seguono lo stesso copione: l’ambientazione è ricca e appassionante, il protagonista ha un suo fascino – che poi è lo stesso che accompagna Tarzan – ma man mano che si scava in questa terra e se portano alla luce le diverse sfaccettature si scopre che poi non è così eccezionale come sembrava in un primo momento. Tanto per cominciare, è una terra sin troppo nota, a giudicare dal traffico di esploratori che la percorrono in lungo e in largo: e non è così selvaggia come si vorrebbe, perché i dinosauri non rappresentano una minaccia per nessuno, tanto che possono convivere con i mammiferi. Anche i cattivi, i Murtos, non hanno niente di fantastico o misterioso a parte la loro ascendenza lemuriana, che però da sola non basta a creare un mondo alieno, primitivo: per l’incarico sarebbero stati più indicati i centauri ma compaiono solo nel secondo racconto e pure lì per poche pagine, prima di scomparire anche loro per sempre.
Così si arriva nella Terra Perduta di Jongor animati da grande entusiasmo: e la vista che si offre dal passo che tutti percorrono è spettacolare. Ma poi, man mano che si scende nel cratere e ci si avventura nella valle la delusione aumenta perché ci si rende conto che questa terra non è poi troppo dissimile da uno zoo safari, con un po’ di rovine artificiali messe lì dai progettisti per dare un senso di antichità all’ambiente. Ma di vero mistero e pericolo, il piatto forte del genere, non c’è nemmeno l’ombra. La banalità di certi espedienti narrativi (leggasi: lo stupid plot a raffica) poi non aiuta ma aumenta solo il senso di distacco nel lettore, che non trova alcun appiglio per appassionarsi ad una vicenda che di per sé non ha nulla di particolarmente originale: è come guardare una puntata dei Jefferson, dove tutti ci mettono del loro per fraintendere gli altri personaggi o tenere nascosto l’elemento chiave della trama nel timore che possa succedere quello che poi effettivamente succede, ma solo a causa del loro silenzio.
E questo è anche il canovaccio delle tre storie di Jongor.

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