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Edmond Hamilton – I pianeti perduti (Starwolf 2)

Dopo la bella presentazione di Morgan Chase, il Lupo dei Cieli, tratteggiata nel precedente volume («Il fuggiasco della galassia», che ho già commentato con un’ampia introduzione al ciclo), «I pianeti perduti» (1968) non si mantiene all’altezza delle aspettative: tipicamente «hamiltoniano» – ossia prevedibile – questo seguito è buono solo per metà e poi, senza preavviso, diventa di una noia mortale, altra caratteristica comune a molte opere del nostro.

Là dove nessun turista è mai andato prima
La prima delusione quando si prende in mano «I pianeti perduti» viene dal confronto col titolo originale, che è «The Closed Worlds», ossia «I pianeti chiusi» (al contatto con i forestieri): non ci sono dubbi che la traduzione italiana sia molto più attraente, quel «proibito» solletica subito l’interesse (e la fantasia) di un lettore avido di avventura, mentre un mondo solo «chiuso», per quanto più aderente all’idea dell’autore, riesce a malapena ad attirarne l’attenzione. Ma proprio da questo ridimensionamento delle aspettative è facile intuire che la storia prenderà una strada ben diversa da quella che si era creduta all’inizio.
In definitiva il pianeta proibito (o chiuso che dir si voglia) è uno solo ed è quello su cui si svolge quasi tutta la storia: da ambientazione, questo mondo (Allubane) ha interrotto da tempo ogni contatto con il resto della galassia per ragioni ignote che però, ben prima della fine del libro, diverranno ben note.

La prima metà: il libero viaggio
Su Allubane si sono perse le tracce del fratello del presidente di tale Commerciale Ashton, presentato in luce assai positiva: Hamilton scrive infatti negli anni Sessanta, quando ancora non esistevano le malvagie «Corp» assetate di potere e denaro, sempre pronte ad ingannare, tradire e sacrificare chiunque, siano amici, alleati o dipendenti. Queste (e la deriva criminale) sono arrivate col cyberpunk, che anche solo leggerlo è il vero crimine.
Incaricato dunque da quegli di ritrovare lo scomparso, Dilullo mette in piedi una piccola spedizione di Mercenari diretta ad Allubane di cui fa parte anche Chane.
Il pianeta è un’altra splendida costruzione di Hamilton: è ricoperto di giungle tranne laddove sorgono le città, molte delle quali in rovina da secoli, la cui architettura ricorda quella azteca. La tecnologia è avanzata ma non tanto quanto quella del resto della galassia, a causa dell’isolamento cui il pianeta si è sottoposto volontariamente. La ragione di questo isolazionismo, si scoprirà, sono le terribili tecnologie che gli antichi allubaniani hanno inventato, così potenti e spaventose da aver causato la caduta della vecchia civiltà: alcune di queste sopravvivono ancora (come i candidi ma malvagi Nane, creature antropomorfe immortali e praticamente indistruttibili: persino Chane li teme) mentre di altre si è persa conoscenza.
Proprio sulle tracce di una di queste antiche tecnologie si è messo l’uomo che i Mercenari devono rintracciare: tale espediente letterario è il «libero viaggio», un congegno enorme (è contenuto in una montagna) capace di separare il corpo umano dall’anima e di proiettare quest’ultima nello spazio cosmico, libera di spostarsi a volontà senza l’ostacolo del tempo e delle distanze. L’utilizzo di questa tecnologia consuma però molte energie fisiche e, un po’ come internet, crea dipendenza: si rientra nel proprio corpo di quando in quando, solo per soddisfare i bisogni fisici e poi, pur sciupati, si riparte nell’esplorazione dell’universo senza frapporre indugio.
La scoperta di questa tecnologia, la spiegazione del suo funzionamento ed il ritrovamento dei superstiti della spedizione di cui fa parte l’uomo che i Mercenari dovevano rintracciare avviene all’incirca a metà volume e non a caso coincide con la fine della parte gradevole del libro.

La seconda metà: l’anabasi
Una volta ritrovato il libero viaggio, la storia inizia a trascinarsi: la narrazione si fa più lenta, l’azione diventa inazione e rimane concentrata a lungo nel medesimo ambiente, i personaggi – tutti – si rincretiniscono in maniera inspiegabile. Basti dire che gli allubaniani vogliono giustamente distruggere il congegno ma i Mercenari si oppongono, anche se hanno visto gli effetti devastanti che l’artificio ha sul corpo umano: ne segue una scaramuccia, condotta malissimo dagli attaccanti (gli indigeni), che serve solo per togliere di mezzo l’opposizione ai Mercenari ed aprire loro la strada.
Hamilton ha infatti deciso che i veri avversari di Chane su Allubane siano i Nane, che i Mercenari nella loro anabasi devono affrontare mentre discendono un fiume su una zattera: per raggiungerli, le candide creature – come in una scena di un recentissimo telefilm (e pure del libro solo leggermente più vecchio cui è liberamente ispirato) – non esitano nemmeno a gettarsi dai ponti in rovina di una città abbandonata.
Questo viaggio di ritorno dei Mercenari dalla montagna del libero viaggio (che si trova in una zona selvaggia del pianeta) sino al punto di ritrovo con la nave madre (che si trova in un punto imprecisato ma molto lontano), compresa la battaglia nelle rovine con i Nane, avrebbe il potenziale per essere solida e non meno avvincente della prima parte del libro: tuttavia Hamilton la liquida in una manciata di pagine, così da lasciare un senso di incompiutezza e di insoddisfazione al lettore che da questo libro si aspettava qualcosa di più.

Il giudizio: tanto fumo e poco arrosto
Senz’altro inferiore ai volumi precedente e successivo della serie, «I pianeti proibiti» è un tipico prodotto hamiltoniano: tanto fumo e poco arrosto. Nell’insieme tuttavia non è uno dei suoi scritti peggiori ed è comunque necessario almeno come ponte tra il primo ed il terzo libro del Lupo dei Cieli, che dopo questa parentesi torna ad essere un’ottima space opera, come vedremo nelle prossime settimane.

Aggiornamento: il commento al terzo volume della trilogia, «Stelle del silenzio», si trova qui.

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