Per quanto assurde possano essere le sue storie (e, se non si sono lette, non si può nemmeno immaginare quanto), non si potrà mai dire che a Barrington J. Bayley mancasse la fantasia: anzi, in un suo libro qualsiasi sono concentrate più idee di quante molti scrittori ben più gettonati ne abbiano partorite nell’intera loro carriera, e non è certo un’esagerazione.
Eppure l’inglese è un autore sottovalutato e, ahimè, pure negletto, il che è ben più grave, perché questa dimenticanza ha condannato anche i suoi libri all’oblio: solo cinque di essi – tutti scritti a metà degli anni Settanta – più una manciata di racconti sono stati tradotti in italiano e persino queste opere non vedono una ristampa da più di trent’anni. Con la ricerca di autori sempre nuovi che scrivono sempre le stesse cose in sempre più parole, ben difficilmente il nostro può avere qualche speranza di essere recuperato a breve: il suo stile è troppo particolare e distante da ciò che il mercato oggi chiede e, senz’altro, propone.
A me però Bayley non dispiace: non è un autore per il quale farei salti mortali ma ho trovato gradevoli tutti i cinque libri citati, ossia, in ordine di lettura, «Le vesti di Caean» (The Garments of Caean, 1976), «Dai bassifondi di Klittmann City» (Empire of Two Worlds, 1972), «La Grande Ruota» (The Grand Wheel, 1977), «La caduta di Chronopolis» (The Fall of Chronopolis, 1974) e «Rotta di collisione» (Collision Course, 1973). Ecco, solo quest’ultimo mi ha deluso ma probabilmente perché va giù duro con i viaggi nel tempo ed i paradossi temporali, un sottogenere della fantascienza che proprio non digerisco: secondo i critici infatti questa sarebbe una delle sue opere migliori.
Così, recuperati i soliti vecchi appunti di lettura, mi accingo a scrivere questo articolo nella speranza che possa contribuire a far uscire Bayley dal limbo in cui è precipitato senza averne colpa.
«Frachonard va un casino quest’anno»!
Non sono molti i libri di fantascienza che parlano di abbigliamento e vestiti: al massimo compare magari qualche riferimento agli abiti indossati dai protagonisti, che aiuta i lettori a farsi un’idea della moda del futuro, ma nessuno scrittore ha mai avuto il coraggio di fare di un «vestiarista» – una sorta di sarto, stilista e consulente di moda – il protagonista di un libro. O meglio: nessuno tranne Bayley, dal quale è lecito attendersi qualsiasi cosa.
Peccato solo che il risultato finale di questo «Le vesti di Caean» (The Garments of Caean, 1976) non sia del tutto convincente e – nonostante un certo barocchismo che ricorda il miglior Vance, tanto per la ricercatezza delle ambientazioni quanto per il piacere con cui indulge nel descrivere i diversi abbigliamenti – si perda anzi in un finale che, alla luce delle idee di cui è imbottita la trama (abiti intelligenti che influenzano le azioni di chi li indossa, un pianeta interamente ricoperto di mosche fameliche, uomini siluro contro cyborg che si combattono nello spazio…), riesce deludente e poco immaginativo, per uno con la stoffa creativa di Bayley.
La trama del libro non è lineare ma segue due storie parallele che si incrociano solo verso la fine: protagonista dell’una è appunto Peder Forbath, vestiarista caeanico, che in maniera non del tutto legale entra in possesso di uno dei cinque preziosi abiti prodotti dal leggendario Frachonard e, una volta indossatolo, non vuole più separarsene; dell’altra un’astronave, credo terrestre, in missione esplorativa che, entrata in contatto col sistema di Caean (del tutto umano ma così separato dal resto dell’umanità che se ne è persa anche la memoria), ha la funzione di spiegare gli aspetti sociologici dell’abbigliamento presso i caeanici e di portare i protagonisti sul luogo dell’insoddisfacente finale.
Solo al termine del libro, dopo diverse disavventure, si scopre infatti che gli abiti senzienti di Frachonard – tessuti in «prossim», una fibra ricavata da una pianta che cresce solo su un certo pianeta disabitato – sono in realtà lo strumento attraverso cui questa pianta, sorta di cervello planetario, vuole schiavizzare l’umanità: quando l’equipaggio dell’astronave ne scopre le intenzioni la distrugge senza esitazione, non prima però che l’ingenuo Forbath, ancora dominato e condizionato dal cervellone vegetale, ne abbia sottratte alcune spore da piantare su Caean, per ricavarne altro prossim.
Beati gli hippie perché erediteranno la terra
Pur senza gli eccessi creativi del precedente, anche «Dai bassifondi di Klittmann City» (Empire of Two Worlds, 1972) non manca certo di idee, molte delle quali paiono essere state rispolverate vent’anni più tardi ed incluse nell’ambientazione di un certo gioco di miniature ambientato nel lontanissimo futuro: per esempio, la stessa Klittmann City è il prototipo del formicaio, una gigantesca città chiusa costruita su centinaia di livelli, isolata dall’esterno ed autosufficiente, la cui popolazione vive in condizioni di quasi miseria e denutrizione. Questa è una caratteristica dei libri di Bayley che, come vedremo, paiono essere stati saccheggiati per arricchire la suddetta ambientazione che non è meglio non nominare mai. Per il resto il libro è uno spaccato non tanto della fantascienza quanto delle idee dei primi anni Settanta, tra terrestri hippie dalla pelle verde, conquistatori seleniti dalle pelle grigia e droghe per tutti.
Per una volta i protagonisti sono i cattivi, un gruppo di gangster, che vengono cacciati da Klittmann City e costretti a cercare la salvezza nel deserto: solo che essere cacciato da un formicaio significa essere condannati a morte, perché il cibo non cresce da nessuna parte sul pianeta desertico.
Così, guidati dal loro capo profetico, i reietti trovano una sorta di portale che collega il loro pianeta alla terra in stile Stargate: questo portale – e centinaia o forse migliaia di altri congegni analoghi sparsi per la galassia – era stato usato molto tempo prima per portare i coloni dalla terra al pianeta e poi dimenticato. Piombati sul nostro mondo, questi gangster, sfruttando le loro capacità di estorsione, sopravvivenza e combattimento, aiutano i seleniti a conquistare i terrestri (hippie pacifisti dalla pelle verde), dai quali inizialmente si erano fatti accogliere. Dieci anni più tardi, ormai divenuti esponenti di spicco dei conquistatori, i gangster riattivano il portale per tornare sul loro pianeta natale e conquistare Klittmann City: a questo punto però il protagonista (Klein, il vicecapo della banda) si ribella ed uccide il capo, divenuto ormai un tiranno avido di potere, peggiore persino dei governanti attuali dei formicai.
Preso il suo posto, Klein ne prosegue l’opera di conquista, con un progetto che nelle intenzioni pare più umano: ma il libro finisce qui e non sappiamo se il potere finisca per corrompere anche il nostro benamato protagonista.
Gran bella storia il cui pregio maggiore sta nell’imprevedibilità della trama e degli eventi: non è mai davvero chiaro cosa stia per accadere e lo è ancora meno prevedere il finale; si può intuire ma, visto il tono del libro, non se ne può avere mai la certezza.
La «randomatica» e le equazioni della fortuna
L’idea di costruire un romanzo attorno ad una teoria improbabile come la «randomatica», ossia lo studio scientifico della casualità e della fortuna, poteva venire solo ad un autore come Bayley, che infatti si è cimentato con questo concetto nella «Grande Ruota» (The Grand Wheel, 1977), scritta con le iniziali maiuscole perché è il nome proprio di un grande cartello o, nel gergo da telefilm degli anni Settanta, «sindacato» galattico della malavita.
Da questo autore e con una simile premessa mi sarei aspettato qualcosa di molto più scoppiettante ed invece, purtroppo, il libro in sé non riesce convincente: a parte alcune sparate qua e là (come le geniali «equazioni della fortuna» – che, appunto, influenzano la buona sorte individuale – o la dissacrazione del primo contatto con gli alieni, evento quasi sacro nella fantascienza ortodossa, che qui viene affidato agli esponenti della «mala»), la storia scorre piatta, quasi anonima, certo non invita a leggere e nemmeno rimane impressa nel tempo.
Il protagonista, Cheyne Scarne, è un giocatore d’azzardo piuttosto capace: drogato dai buoni della «Legalità», viene costretto a lavorare per il governo terrestre con un banalissimo ricatto, semplicemente perché l’hanno fatto diventare dipendente da questa droga, prodotta e sintetizzata appositamente per lui e quindi introvabile presso gli spacciatori anche più forniti. Convinto così ad entrare nella Grande Ruota, la grande organizzazione della malavita del futuro che controlla tutto il gioco d’azzardo, per rubare le «equazioni della fortuna» che si dice i suoi matematici abbiano trovato, Scarne si trova invece coinvolto in una partita con altre razze aliene, un primo contatto tra cartelli mafiosi del gioco d’azzardo in cui è in palio il futuro stesso della terra: alla fine, il capo della Ruota viene consumato dalle sue stesse passioni e macchinazioni, la Ruota terrestre viene assorbita dalla Ruota Galattica, gli alieni che stavano invadendo la terra sconfitti, e Scarne investito dalla fortuna del suo ex capo.
Peccato solo che il protagonista sia a dir poco insopportabile: il suo antagonista però, Mr. Dam, è un gran bel personaggio, tratteggiato assai bene nella sua continua ricerca della fortuna e di nuove sfide.
L’impero spaziale che si estende nel tempo e non nello spazio
Come detto, i viaggi nel tempo ed i paradossi temporali sono uno dei sottogeneri della fantascienza che meno sopporto: eppure con questo «La caduta di Chronopolis» (The Fall of Chronopolis, 1974) Bayley è riuscito a scrivere una storia che persino io ho trovato subito avvincente. Tutto è iniziato dalla curiosità di capire meglio il presupposto del racconto, quell’Impero Galattico – o, meglio, Cronostatico – che invece di estendersi nello spazio si estende nel tempo: così, pagina dopo pagina, la trama mi ha catturato sempre più, nonostante una teoria temporale non sempre chiarissima, che però è ben congegnata e pare avere almeno una sua coerenza.
La trama, intricatissima, può essere sintetizzata così: un impero che si estende nel tempo invece che nello spazio si vede minacciato da un nemico proveniente dal futuro. Dietro questa minaccia c’è l’eterna guerra condotta dal suddetto impero contro l’Egemonia, una sorta di demone che abita nello «Strat» – il substrato del tempo – ed ambisce a divorare tutta la realtà: questo conflitto viene combattuto da cicli infiniti e termina sempre con l’azzeramento della realtà, che ogni volta viene ricostruita da un gigantesco computer, lo stesso che in epoche remote permise di scoprire il viaggio nel tempo ma, così facendo, aprì anche le porte della realtà al succitato demone.
Questa è la sostanza della storia, che ovviamente il libro racconta con molto più colore e calore: persino l’eroe, suo malgrado, riesce convincente, mentre gli antagonisti hanno una loro dimensione (che non è solo lo Strat).
Come già notato con altre idee prese dai libri di Bayley (ad esempio il formicaio di Klittmann City), anche con Chronopolis si ha l’impressione che questo libro sia servito d’ispirazione all’universo futuristico di un certo gioco di miniature che non è mai bene nominare: qui ad esempio meritano una menzione per la somiglianza non solo lo «Strat» (il substrato del tempo), l’Egemonia e le sue creature demoniache ma anche la chiesa di stato e sua rigida teologia, che costituiscono l’ultimo baluardo dell’umanità contro la minaccia proveniente dall’altra dimensione.
Quando i tempi si scontrano
Senza ombra di dubbio «Rotta di collisione» (Collision Course, 1973) è il peggior libro di Bayley, almeno tra quelli tradotti in italiano: si tratta di un’altra storia di paradossi temporali, solo che in questo caso la trama è complicata, noiosa e poco convincente. Infatti, mentre nella «Caduta di Chronopolis» (che mi aveva fatto un’ottima impressione) la manipolazione del tempo e della realtà era stata una piacevole sorpresa, qui si viene annoiati in continuazione da speculazione fisica e spiegazioni scientifiche che rendono lento e pesante tutto l’intreccio: la parte davvero interessante, lo scontro anche fisico tra terrestri ed alieni che convergono sullo stesso momento, rimane sullo sfondo della storia, che viene invece riempita soprattutto dalle meraviglie della città Alambicco.
Dopo lo spunto iniziale – un colpo di genio – la trama stessa si involve in un ammasso senza pregi: gli scienziati di un governo planetario del futuro scoprono di essere attaccati da alieni che provengono dalla terra futura; per questi alieni il tempo scorrerebbe al rovescio, nel senso che il loro futuro è in realtà nel nostro passato e viceversa. Scontato che ad un certo punto, nemmeno troppo lontano, le due linee temporali finiranno per scontrarsi e provocare una catastrofe: anzi, nelle osservazioni condotte sul futuro pare non esserci nemmeno traccia della prosecuzione della nostra linea temporale, cosa che fa piombare nel panico tutti i nostri scienziati.
La storia però segue anche una seconda traccia: la già citata Alambicco, una città spaziale costruita dai cinesi e dimenticata da cinquemila anni, che adesso inizia ad interessarsi alla madre terra e vuole essere di aiuto.
E a questo punto succede il patatrac: i terrestri gettano finalmente la maschera, si manifestano per quello che sono in realtà e prendono la via dell’«idiot plot», ossia iniziano a comportarsi da perfetti ritardati o – che poi è la stessa cosa – da cattivi dei fumetti. Decidono infatti di conquistare Alambicco senza ragione e, fatto ciò, si sbarazzano pure del loro unico alleato nella città, il solo che davvero conosca la città. Così, mentre i terrestri commettono un errore dopo l’altro, uno scienziato di Alambicco riesce a mettersi in contatto con un’entità aliena e la convince ad intervenire: per evitare lo scontro delle due linee temporali sulla terra, questa entità riloca alcune zone della terra su altre dimensioni, su terre alternative, lasciando che terrestri ed alieni continuino a combattersi a colpi di bombe atomiche e batteriologiche. Wow.
Decisamente non è questo il libro meglio riuscito di Bayley, anche se trabocca di idee.