Sono convinto che gli autori di un tempo sapessero costruire e narrare storie molto migliori di quelle che gli scrittori dell’ultimo ventennio o addirittura trentennio riescano a mettere assieme: non è solo questione di fantasia (più libera un tempo, condizionata dallo «scientificamente accurato» oggi) ma soprattutto di ritmo e di lunghezza delle opere. Probabilmente condizionati dal formato dominante all’epoca, quello delle riviste e quindi dei racconti, i libri di una volta erano più brevi, venivano subito al dunque e concentravano nella metà delle pagine il doppio degli avvenimenti, dal momento che gli autori non avevano in mente le mortali plurilogie prima ancora di cominciare a scrivere ma pensavano ad iniziare e concludere le loro storie in un unico arco narrativo.
Un’epica avventurosa da manuale
Questa premessa aiuta ad inquadrare l’ottimo «I superstiti di Ragnarok» (The Survivors, 1958) di Tom Goodwin, un’epica avventurosa da manuale: in meno di duecento pagine sono condensati altrettanti anni di storia dei superstiti eponimi e, soprattutto, dei loro discendenti. È un’avventura corale, senza autentici protagonisti che dominino la scena dall’inizio alla fine: al contrario, attraverso le vicende di alcune figure chiave funzionali all’avanzamento della storia, il lettore vede i reietti trasformarsi in una superrazza che, in qualche modo, richiama i varniani di Hamilton già visti nel Lupo dei Cieli (con quest’ultimo che potrebbe aver preso l’ispirazione dal libro di Goodwin).
Proprio come un’epica, che tace i mille eventi minori o irrilevanti per descrivere invece quegli avvenimenti fondamentali alla creazione di un’identità di riferimento, qui i personaggi sono descritti con poche pennellate sufficienti a dare un’idea delle loro qualità o dei loro difetti: l’autore non si perde in dialoghi inutili attorno ad un argomento fumoso né dedica pagine intere per descrivere, fisicamente ed intellettualmente, i diversi personaggi o le loro azioni più irrilevanti. No, quello che davvero conta qui è la sopravvivenza e l’evoluzione della razza, non le piccole faccenduole dei singoli: tutti sono sacrificabili, pedine del quadro più ampio, ossia la trasformazione dei quattromila scarti iniziali in una popolazione di diverse migliaia di superuomini, che via via hanno saputo adattarsi ad un ambiente mortale, piegarlo alle proprie esigenze ed infine vendicare il torto subito dai loro progenitori.
Per questo giudico Ragnarok un’epica avventurosa da manuale: perché non si fa mancare niente ma taglia tutti quei fronzoli che servirebbero solo a rallentare il ritmo e a perdere di vista l’unico obiettivo della storia.
Il mondo infernale
Non è molto che la terra si è affacciata allo spazio ed alla colonizzazione stellare: tanto è bastato però per infastidire i suscettibili Gern, che dieci giorni dopo aver dichiarato guerra al nostro pianeta intercettano ed abbordano la «Constellation», una nave civile con ottomila coloni a bordo, famiglie destinate al pianeta giardino di Athena. Dopo aver selezionato e tenuto per sé il meglio (i tecnici specializzati), i Gern costringono gli scarti rimasti a bordo del relitto ad un atterraggio di fortuna sul pianeta Ragnarok, «il mondo infernale dove la gravità era una volta e mezza quella terrestre e dove le belve e le febbri terribili non permettevano all’uomo di sopravvivere», con la promessa che sarebbero tornati a prenderli quanto prima.
Ovviamente questi reietti – per lo più vecchi, donne e bambini – vengono invece abbandonati a se stessi, senza armi, medicine e strumenti di sorta: bastano già i primi giorni di permanenza sul pianeta – caldissimo di giorno, freddissimo di notte, abitato da predatori famelici ed intelligenti e vessato da una febbre mortale per gli umani – a ridurre le migliaia di naufraghi a poche centinaia. Ma l’ingegno e la volontà di sopravvivere innati negli uomini, uniti ad un desiderio di vendetta sui loro carnefici, spingono questi superstiti, un’elite selezionata, la più adatta a sopravvivere sul pianeta, a stringere i denti, in vista di un futuro in cui «gliela faremo pagare ai Gern».
Passano gli anni, i personaggi che credevamo fossero i nostri protagonisti muoiono (persino di vecchiaia), ne vengono introdotti di nuovi che pure muoiono e via così per diverse generazioni: le condizioni estreme del pianeta, dove i metalli sono rarissimi, sono tali per cui la costruzione di una civiltà avanzata è praticamente impossibile. Tuttavia le nuove generazioni sono sempre più adattate all’ambiente e, col tempo, non solo diventano immuni alla febbre locale ma, a proprio agio nella maggiore gravità del pianeta, riescono anche ad addomesticare i terribili predatori locali, trasformandoli in cani da guardia fedeli ed intelligentissimi.
Finalmente arriva il momento in cui queste poche migliaia di discendenti dei primi coloni forzati riescono ad abbandonare il pianeta (attirando con l’inganno una nave pattuglia dei Gern, che è facile vittima dei nostri superuomini) e a farla finalmente pagare ai perfidi alieni: i primi coloni sono così vendicati, nella concezione biblica che un uomo sopravvive nei propri figli e via via nei figli dei figli.
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