Libri

Arnaud d’Apremont – La vera storia di Babbo Natale

Che il Natale sia debitore al Sole Invitto romano ed al culto che se ne faceva in epoca imperiale ormai è noto a tutti, così come tutti ormai sanno che Babbo Natale così come lo conosciamo deve il suo aspetto alla Coca Cola, di cui infatti indossa i colori: molti ignorano tuttavia una serie di aspetti etnologici che, spostando le radici del Natale ancora più a nord e ancora più indietro nel tempo, vedono nel dio norreno Odino il vero progenitore dell’odierno Santa Claus.
Anzi, in verità è sorprendente scoprire fino a che punto le tradizioni pagane germaniche abbiano influenzato il Natale, la cui rilevanza appare invece fondamentale nel saggio «La vera storia di Babbo Natale» del francese Arnaud d’Apremont, un’opera divulgativa ma approfondita sulle antiche origini della festa e del nonno più amati al mondo.

Dal Padre di Tutto alla Coca Cola
Dalla lettura di questo volume emergono almeno sei momenti fondamentali nel processo che porta dal paganesimo germanico al Natale contemporaneo: lo Jul (o Yul) scandinavo, la festa del solstizio d’inverno dei popoli nordici, il momento più importante dell’anno; le cacce selvagge di Odino e la tradizione druidica; il culto di san Nicola in Puglia e la sua successiva propagazione nel Nord Europa per il tramite dei vichinghi; la fondazione di Nuova Amsterdam ad opera di coloni olandesi nel XVII secolo; il poemetto «A Visit from St. Nicholas» (noto anche come «La notte prima di Natale») di Clement Clarke Moore del 1822; l’illustrazione di Santa Claus fatta mezzo secolo più tardi da Thomas Nast, padre dei vignettisti americani, che per l’ispirazione era ricorso all’immagine del «Knecht Ruprecht» della sua infanzia in Germania; la pubblicità della Coca Cola degli anni Trenta.
In questa breve recensione proverò a riassumere e collegare tra loro questi passaggi, che purtroppo nel libro sono presentati in maniera frammentaria. L’unico difetto di questo saggio sta infatti proprio nella sua struttura caotica: l’autore tende a saltare qua e là, prima accenna ad un argomento, poi lo abbandona improvvisamente per passare ad altro ed infine lo riprende parecchie pagine, addirittura capitoli, più avanti. Questo disordine non aiuta certo la comprensione: al contrario, il volume ed il lettore trarrebbero beneficio da una struttura diacronica che collocasse nella debita successione le diverse influenze e gli sviluppi delle tradizioni che, nel corso dei secoli, hanno infine portato al «nostro» Natale.

Le origini pagane del Natale
In tutte le civiltà antiche il solstizio d’inverno era il giorno più importante dell’anno, o almeno pare esserlo stato: se ne trova infatti traccia in tutte le culture. Lo era di certo per i popoli che vivevano a nord, e diveniva via via sempre più rilevante man mano che si saliva sempre più a settentrione: lo Jul (il solstizio) era infatti il periodo più riconoscibile dell’anno, il sole che lentamente si spegne sino a scomparire per poi riprendere lentamente a risplendere ogni giorno di più. Ogni anno si ripeteva lo stesso fenomeno, che quindi rappresentava l’eterno ritorno: proprio per sottolinearne il carattere ciclico, il suo simbolo era la ruota.
Lo Jul era però anche una festa associata alla morte e alle cosiddette «cacce selvagge», che iniziavano con la fine di ottobre e proseguivano fin verso gli inizi di febbraio: secondo le credenze pagane, in certe notti il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti si assottigliava a tal punto da permettere il passaggio dei morti nel mondo dei vivi. Queste fuoriuscite, che si credeva seguissero sempre lo stesso percorso e quindi bastava tenersene alla larga per evitare guai, erano guidate da Odino, che cavalcava Sleipnir, il suo cavallo ad otto zampe, e creavano grande strepito in cielo: secondo d’Apremont, la slitta di Babbo Natale trainata dalle renne con le campanelle tintinnanti richiamerebbe proprio le cacce selvagge dello Jul.
A rinforzare questa interpretazione interverrebbe il culto druidico: nelle loro cerimonie tra gli alberi della foresta, i sacerdoti pagani erano soliti indossare pelli di animale e cingere palchi di corna di cervo (che, proprio come le cacce selvagge, simboleggiano la fecondità). Sarebbe questa una delle ragioni per cui, in epoca cristiana, le corna sono poi divenute un attributo del diavolo: demonizzare il culto pagano, dal momento che era risultato impossibile estirparne del tutto le credenze e le tradizioni, che anzi sopravvivevano nel popolo come superstizioni.
Lo Jul durava dodici giorni, che corrispondono, guardacaso, ai dodici giorni della canzone natalizia «The Twelve Days of Christmas» ed all’intervallo che separa il Natale dall’Epifania.
Sempre tra le influenze del paganesimo, non va trascurato il mondo romano, anche se nel libro di d’Apremont il suo ruolo esce fortemente ridimensionato: la notte del 24-25 dicembre coincide infatti con la festa del Sole Invitto introdotta nel 274 dall’imperatore Aureliano, che la identificò con la festa della nascita di Mitra, il cui culto all’epoca era molto influente; proprio per le ovvie analogie, in seguito fu facile sovrapporle la nascita di Gesù, che è entrato nel mondo portando la luce.
Il Sole Invitto concludeva la festa romana più antica, i Saturnali, che pure nascevano come celebrazione del solstizio d’inverno: alcune tradizioni (come lo scambio di piccoli regali) e decorazioni (come l’agrifoglio e le conifere) del Natale moderno paiono proprio venire dai Saturnali.

L’evoluzione cristiana: San Nicola
In questa solida base di tradizioni pagane si è successivamente innestato il culto di San Nicola, che parte dalla Puglia verso la fine dell’XI secolo: per una serie di trasposizioni che coinvolgono il dio romano Mercurio (i cui attributi erano simili a quelli di Odino), il dio preceltico Gorgan (assimilabile a Mercurio: da questi – pare – prenderebbe il nome il Gargano) e le reliquie del santo (che all’epoca erano appena giunte a Bari, quindi non troppo distanti dal Gargano), i vichinghi (che in quello stesso periodo facevano ancora scorrerie nel Sud Italia) ne avrebbero quindi appreso il culto sul posto e poi, favorito anche dall’attributo di «patrono dei marinai» proprio di San Nicola, lo avrebbero infine portato con sé al Nord.
Divenuto patrono, tra l’altro, anche della città di Amsterdam, è proprio dall’Olanda che inizia la trasformazione di San Nicola in Santa Claus e quindi Babbo Natale: qui nel XVI secolo la festa del santo includeva una processione per le vie cittadine, nella quale il santo procedeva a cavallo accompagnato da un servitore, lo Zwarte Piet (Pietro il Nero), tutto imbrattato di fuliggine, che rimbrottava i bambini e distribuiva loro dei piccoli doni.
Ovunque comparisse, San Nicola era sempre seguito da accompagnatori tenebrosi: lo Schwarzer Peter (che sarebbe l’origine dell’Uomo Nero e quindi dell’Orco cattivo), il Krampus (peloso, cornuto, rumoroso, bestiale: richiama alla mente i costumi dei druidi), il Knecht Ruprecht (che servirà di ispirazione per l’ultima incarnazione di Babbo Natale), il Castigamatti e tanti altri personaggi dei quali in sostanza cambia il nome ma non gli attributi. Questi accompagnatori bestiali, che mettevano paura ai bambini e punivano i cattivi, sono oggi spesso armati di un fascio di verghe: in origine portavano però una ramazza o una scopa, simbolo del paganesimo e, proprio così, anche della fecondità.
E adesso tenetevi forte: questi sarebbero i veri Babbi Natale.
Nella concezione dualistica cristiana non è infatti pensabile che un santo mescoli in sé aspetti positivi e negativi mentre è una caratteristica dell’etica bipolare pagana che le divinità riuniscano sempre funzioni ambivalenti: perciò anche nella devozione a San Nicola, che ha dovuto necessariamente assorbire elementi della precedente tradizione pagana per attecchire, ad un certo punto è stata necessaria una scissione tra gli elementi per così dire «positivi», rimasti prerogativa del santo, e quelli più bestiali o negativi, che sono invece slittati sui suoi accompagnatori. Questo dualismo chiaramente visibile aveva inoltre un’utile ricaduta pedagogica, soprattutto sui bambini.
Così, quando agli inizi del XVII secolo gli olandesi sbarcarono in America e fondarono Nuova Amsterdam, portarono con sé anche San Nicola (che è tuttora il patrono di New York), anche se pare che il santo sia arrivato oltreoceano solo attorno alla metà del secolo successivo: e questo è singolare, dal momento che gli olandesi erano protestanti e quindi rifiutavano il culto dei santi.

Da San Nicola a Santa Claus
L’ultima tappa del viaggio che porta al Babbo Natale moderno pare inizi proprio a New York nel 1822, quando Clement Clarke Moore, specialista di lettere classiche e professore di ebraico e lingue orientali nel collegio teologico episcopale della città, scrive il poemetto «A Visit from St. Nicholas»: destinato inizialmente ai propri figli, venne tuttavia fatto pubblicare anonimamente dagli amici all’insaputa dell’autore (che pare se ne sia risentito) sulla rivista «The Troy Sentinel».
Qui si trovano tutti gli elementi che si sono poi riversati nell’immagine ormai comune di Babbo Natale: guida una slitta piena di regali, trainata da otto renne (di cui vengono dati i nomi: manca solo Rudolph, che però è molto più recente), che fa un gran clangore; è grasso, ha la barba bianca e l’aria gioviale, indossa pellicce (non se ne dice il colore però) e scende dallla canna fumaria con un sacco pieno di giocattoli per riempire le calze che i figli dell’autore hanno appeso al caminetto; la stessa festa scivola dal tradizionale 6 dicembre alla notte del 24. Nell’insieme appare ancora più simile ad un folletto che ad un uomo ma questa immagine verrà corretta una trentina di anni più tardi da Thomas Nast, il padre dei vignettisti americani, che per illustrare un’edizione del poemetto era ricorso ai propri ricordi: nato in Germania, aveva quindi preso in prestito l’immagine del Knecht Ruprecht già visto, che evidentemente ricordava ancora molto bene.
Mancava però ancora un dettaglio: fissare i colori dell’abito, che in passato variavano per lo più dal bianco al rosso al verde. L’odierna figura vestita di rosso con bordi di pelliccia bianca è infatti molto recente: ha pressappoco l’età dei nostri nonni e viene diretta dalla pubblicità.
Per promuovere la Coca Cola tra i giovanissimi, negli anni Trenta l’azienda americana affidò una campagna pubblicitaria ad Haddon Sundblom, un artista di origine scandinava: questi ebbe l’idea di rappresentare dei bambini che, invece di bere la bibita, la offrivano a Santa Claus, che evidentemente occupava già un posto nel cuore degli americani. In quei disegni Babbo Natale indossava i colori della Coca Cola, quindi il bianco ed il rosso che oggi sono gli sono divenuti tipici.

Una storia infinita
Così è nato Babbo Natale nella sua versione definitiva odierna, ormai canonizzata dall’uso e dall’immaginario collettivo: nessuno immaginerebbe mai che sotto il costume della Coca Cola e dietro l’identità di San Nicola si nasconda in realtà una trama così fitta di tradizioni pagane, sebbene siano state ben dissimulate e per così dire edulcorate da due millenni di cristianesimo.
L’aspetto più singolare e divertente dell’intera faccenda è però un altro: secondo d’Apremont pare infatti che, sebbene sia divenuto l’archetipo di Santa Claus/Babbo Natale, non sia mai esistito un Nicola vescovo di Mira a cavallo tra il terzo ed il quarto secolo.
Se così fosse Babbo Natale non sarebbe solo il personaggio più amato al mondo ma anche quello più sincretistico mai esistito.

Scrivi qui il tuo commento