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Jack Williamson – L’enigma del Basilisco (La Legione dello Spazio 3)

Per recensire «L’enigma del Basilisco» di Jack Williamson (One Against The Legion, 1939) bastano davvero tre parole: non ha senso. Nulla nella trama ne ha. E la storia non è neppure una space opera ma una specie di giallo investigativo di ispirazione fantascientifica nella scia dei due precedenti episodi della Legione dello Spazio, che almeno erano avventure spaziali. Qui nulla sta in piedi, a cominciare dalle premesse su cui tutto si regge: e poi via per la tangente con un’indagine alla «Pallottola spuntata», dove gli investigatori (i tre moschettieri della prima avventura) si aggrappano agli indizi più deboli per inseguire una pista sbagliata dietro l’altra, i cattivi fanno le cose meno pratiche per mettersi nei guai con le proprie mani e tutto si risolve all’improvviso, con un finale alla Scooby-Doo.
Se ve la sentite di scoprire cosa riservi il terzo episodio della Legione dello Spazio, leggete quanto segue: ma poi non venite a lamentarvi che non vi avevo avvisati.

Niente space opera
Pubblicato in tre puntate sull’Astounding di Campbell tra l’aprile ed il giugno 1939 (ma curiosamente senza illustrazioni né richiami in copertina), «L’enigma del Basilisco» è il terzo episodio della serie della «Legione dello Spazio», cominciata sempre su Astounding cinque anni prima: non è tuttavia l’episodio conclusivo del ciclo, dal momento che molto più tardi Williamson ha pubblicato un quarto libro (The Queen of the Legion, 1983) e, in appendice all’edizione 1967 del «Basilisco», anche un racconto che ha per protagonista uno solo dei personaggi (il più caratterizzato e riconoscibile Habibula), intitolato «Nowhere Near». Come i precedenti volumi, anche il «Basilisco» ha avuto numerose edizioni, anche in altre lingue, italiano compreso: ma nel nostro paese non viene ristampato dagli anni Novanta.
Il libro, ambientato poco dopo gli eventi di «Quelli della cometa», abbandona la formula space operistica dei due predecessori per sfruttarne solo l’ambientazione futuristica, il sistema solare dell’anno Tremila o giù di lì, che qui fa da sfondo ad un’indagine giallistica in cui la superscienza è sovrana ma manca del senso del meraviglioso che invece aveva caratterizzato le due precedenti avventure: certo, le idee ed invenzioni straordinarie ci sono ma manca completamente la capacità di far restare senza fiato il lettore e più ancora di stupirlo.
Tanto per cominciare, il Mac Guffin da cui tutto muove (il «geofrattore», una sorta di teletrasporto) non è altro che un’invenzione già apparsa nel libro precedente: il suo uso indiscriminato da parte dell’antagonista sconosciuto desta curiosità e sorpresa ma non riesce a far scattare la scintilla dello stupore, sa troppo di forzato ed inspiegabile.
In secondo luogo, il pilastro su cui dovrebbe reggersi l’intera struttura narrativa, Nuova Luna, l’enorme satellite artificiale che ha preso il posto di quello naturale, distrutto da Aladoree Anthar nella prima avventura, non ha niente di mozzafiato, è solo una stazione spaziale che contiene un grande casinò per gente ricca o, per dirla in altri termini, un «big dumb object» le cui caratteristiche sono del tutto ininfluenti sulla trama.
Infine, l’unica puntata del protagonista al di fuori del nostro sistema solare occupa solo una manciata di pagine proprio alla fine della storia, viene liquidata in fretta e non ha nemmeno un briciolo di mistero o attrattiva: niente azione, niente mistero, niente senso di minaccia incombente, solo l’ennesimo giochetto mentale che il protagonista risolve mediante conoscenze che lui solo possiede e che non ha mai condiviso con i lettori.
E bisogna accontentarsi, perché questa è l’intera dose di space opera del libro.

Un protagonista fantozziano
Il capitano Chan Derron, mai visto prima, viene incaricato da Jay Kalam in persona, il comandante della Legione (era uno dei custodi della custode, nel primo episodio), di vigilare lui solo sull’esperimento segretissimo del superscienziato che sta per tenersi in un luogo non meno segreto, un’isoletta del Pacifico: nessuno sa cosa sia l’invenzione da testare, a parte una pletora di persone che vanno via via aggiungendosi all’elenco.
La squadra guidata da Derron deve costruire un rifugio sotterraneo in poche ore e poi levare i tacchi, lasciando di sentinella solo l’ufficiale: successivamente arriverà il professore col suo assistente, che si chiuderanno a chiave nel rifugio e potranno così svolgere l’esperimento indisturbati, mentre all’esterno l’eroico capitano monta la guardia solitaria.
Tutte queste precauzioni però non servono a niente perché il Basilisco del titolo (un ometto insignificante che si è improvvisato criminale dopo aver assassinato l’assistente del professore ed essersi sostituito a lui) riesce a rubare comunque l’invenzione che il professore stava sperimentando e ad uccidere, con la baionetta del disintegratore appena sottratto a Derron, lo stesso scienziato: semplicemente, all’improvviso Derron scopre di non avere più l’arma nella fondina e, allertato da una richiesta di soccorso del professore, dà l’allarme al razzo di supporto che sorvola la zona.
Solo verso la fine del libro si scoprirà quale fosse l’invenzione, che spiega questi eventi e la trama dissennata che segue: un «geofrattore», una versione potenziata del «proiettore tridimensionale» visto nel libro precedente, una sorta di teletrasporto. Con questa macchina il Basilisco può fare quello che vuole e far ricadere sempre la colpa sul fantozziano Derron, che infatti viene subito accusato del furto e del duplice omicidio e, pur senza prove concrete, condannato ai lavori forzati a vita.
Sul luogo del delitto tutti gli indizi cospirano contro il capitano ma hanno poco senso: qualunque avvocato potrebbe smontarli senza fatica, se non altro perché, al momento del ritrovamento dei corpi, l’assistente dello scienziato risulta morto già da una quindicina d’ore mentre, dall’istante in cui Derron rimane solo con i due all’istante in cui Hal Samdu (secondo dei tre protagonisti originali, ora ammiraglio della Legione) atterra sull’isola e trova i due cadaveri passano meno di due ore.
Comunque sia, le prove sono giudicate sufficienti dalla corte, che spedisce Derron ai lavori forzati in una qualche colonia penale spaziale dalla quale, due anni dopo, fugge: ma l’ormai ex capitano non è divorato né dall’odio né dallo spirito di vendetta bensì da quello ben più debole della giustizia.
Crede infatti ancora nella Legione, nel bene e in tutte quelle cose lì.

La più grande insegna pubblicitaria di sempre
Passano altri due anni, durante i quali Derron vive da ricercato ma soprattutto è vessato dai tiri mancini del Basilisco, che si diverte a perseguitarlo: «Immagino che all’inizio ti sono servito come capro espiatorio perché mi trovavo sul posto in cui hai ucciso il dottor Eleroid, ma da allora non ho sofferto abbastanza? E non è stato tutto inutile?» esclama esasperato ad un certo punto rivolgendosi all’aria, quando scopre di essere ancora una volta la vittima designata dell’invisibile criminale. O meglio, non tanto l’obiettivo delle sue malefatte quanto il parafulmine su cui fa ricadere sempre ogni colpa.
Il Basilisco infatti non ce l’ha con lui bensì col Palazzo Verde (il governo del sistema solare, colpevole di aver abbattuto l’impero) e Nuova Luna, un enorme satellite artificiale che ha sostituito quello naturale, distrutto da Aladoree Anthar nel primo episodio: nei piani originali doveva essere una cittadella per i più alti studi scientifici, nella pratica è diventata la sentina di tutti i vizi, soprattutto il gioco d’azzardo. Oltre che la più grande insegna pubblicitaria mai costruita, illuminata dalla luce del sole e leggibile chiaramente anche dalla terra.
Qui il Basilisco ha appena colpito, uccidendo un ricco ospite della stazione, e ha minacciato di ucciderne un altro quella notte stessa, quello che avrà vinto la somma maggiore ai tavoli da gioco, che quella sera sono animatissimi nonostante la minaccia di morte.

«Con quella somma insanguinata…»
E finalmente si entra nel vivo della storia: o meglio, nella parte più lunga, corposa e noiosa, che introduce il finale col suo breve e deludente epilogo.
Quella sera tutti quelli che contano sembrano essersi dati appuntamento al casinò di Nuova Luna: entra infatti in scena anche l’ultimo dei tre custodi della custode, Giles Habibula, che già nella «Cometa» aveva rubato la scena al protagonista nominale. Anche se dei tre moschettieri è quello che ha fatto meno carriera (è una sorta di pensionato che nel tempo libero fa il nonno vigile: dovrebbe infatti sorvegliare John Star e Aladoree Anthar su Phobos) è anche quello un po’ meglio caratterizzato: di conseguenza risulta il più umano dei tre nonostante le continue geremiadi, che finiscono per stufare presto.
Ricompare anche Derron, travestito e con una identità fasulla: ciononostante viene subito riconosciuto da tutti, anche da chi non l’aveva mai visto di persona, come Luroa, la bellissima criminale androide dagli occhi verdi, che lo ghermisce all’ingresso del casinò neolunare e se lo prende come accompagnatore.
Solo che la ragazza non è proprio Luroa bensì Vanya Eloyan di Thule, cioè di Giunone: anzi, svelerà in seguito, è proprio Stella Eleroid, figlia del fu professor Eleroid. Infatti il malvagio ma defunto Eldo Arrynu, creatore degli androidi (umani generati in provetta: anche Stephen Orco, il traditore della «Cometa», era opera sua), aveva modellato la crudele Luroa perché assomigliasse a Stella, di cui era segretamente innamorato: ma Luroa è morta da anni (voleva uccidere Stella per rubarle l’identità ma è rimasta vittima del suo stesso piano malvagio) e così ora Stella finge di essere lei. Per qualche ragione nessuno aveva mai notato la somiglianza tra le due donne, quella vera e quella sintetica.
E qui l’assurdità fa corto circuito.

Le miserie dell’uomo chiamato Habibula
Per districarsi nell’abisso di controsensi che è Nuova Luna, l’autore scava a fondo nel passato di Habibula per trovare nuove idee e così finisce per raschiare il fondo del barile: ne esce che Habibula, che già si sapeva non avere un passato immacolato, in gioventù era stato in affari con due tipi loschi, Gaspar Hannas detto Pedro lo Squalo, attuale proprietario di Nuova Luna, e Amo Brelekko detto l’Anguilla, il suo inaffidabile tirapiedi. Con loro aveva messo in piedi casinò e altre attività illecite, salvo poi ravvedersi ed entrare nella Legione.
Così, sfruttando le conoscenze acquisite nella sua vita dissoluta, Habibula vince un sacco di soldi alla roulette (col beneplacito di Hannas, al quale viene fatto credere che questo serva per smascherare il Basilisco), sottrae – e poi rimette – documenti dalle tasche di Derron, ed intanto gigioneggia per capitoli interi: e la minestra si allunga con scene pietose in cui il grasso legionario mostra tutta la sua miseria di essere umano.
Con i suoi trucchetti Habibula aiuta pure un ometto, Abel Davian, a vincere alla roulette, per prendersi gioco delle sue teorie sulle probabilità e delle sue formule per vincere al tavolo verde: Davian è un malato del gioco che, spiega Hannas, negli anni ha già perso una fortuna, oltre che la moglie. Nessuno sospetta che sia lui il Basilisco (nemmeno il lettore a dire il vero: Davian spunta all’improvviso e ha tutto l’aspetto dell’artificio narrativo necessario per passare alla parte successiva della storia) sino alla rivelazione a sorpresa finale: con uno smascheramento alla Scooby-Doo, Derron rivelerà l’identità del Basilisco, che è Davian appunto, noto anche come Enos Clagg, costruttore di robot militari illegali. Questi, confesserà, col furto e le malandrinate voleva non solo rifarsi di una vita di perdite e di soprusi da parte della società ma anche tentare di ripristinare l’impero di cui la sua famiglia era stata fautrice.
Allo scoccare della mezzanotte Davian è dunque il giocatore che ha vinto di più, così nessuno rimane sorpreso – non troppo almeno – quando scompare e al suo posto compare invece un essere mostruoso, che si porta via la finta Luroa: Derron, che sotto lo smoking porta una sorta di propulsore personale, si lancia all’inseguimento e uccide il mostro, solo per trovarsi sotto il tiro della pistola della ragazza, che rivela la sua vera identità e vuole vendicare la morte del padre.
Non così in fretta: è infatti arrivato il turno di scomparire di Derron, che viene trasferito dal Basilisco nella camera di sicurezza di Nuova Luna, dalla quale pure riuscirà ad evadere per rifugiarsi nella sua astronave, ancorata fuori dal satellite. Ma all’interno dello scafo trova Habibula che l’aspetta; e, nascosta in una cabina ad insaputa di entrambi, c’è anche Stella che ancora medita la sua vendetta e si paleserà al momento opportuno.

Il geofrattore della redenzione
Adesso tutti si dirigono ad un debole sole rosso nella costellazione del Drago conosciuto come Ulnar XIV: Derron grazie alle coordinate che ha trovato scritte in un appunto, la Legione grazie agli scienziati terrestri, che studiando la carcassa della creatura mostruosa – che però è un robot – riescono a determinarne con precisione l’origine.
Lungo il viaggio c’è tutto il tempo per le confessioni: innanzitutto, Habibula si convince dell’innocenza di Derron quando questi gli confida di essere figlio di una cantante venusiana, Ethyra Coran, che – piccolo il sistema solare! – è la figlia dell’anziano legionario; Derron quindi è nipote di Habibula e questi subito stabilisce che «il nipote di Giles Habibula non può essere un Basilisco» e quindi lo solleva da ogni sospetto. La logica non fa acqua.
In secondo luogo, per l’intercessione di Habibula anche Stella Eleroid ha deciso di fidarsi di Derron e finalmente spiega in cosa consista l’invenzione del padre che il Basilisco ha rubato e sta usando per i suoi crimini: si tratta di un «geofrattore», ossia una versione potenziata del «proiettore tridimensionale» già visto nella «Cometa» per teletrasportare Kay Nimidee dall’interno dell’ellissoide all’asteroide di Arrynu su cui si trovava Bob Star.
L’apparecchio – il secondo «big dumb object» della storia: un planetoide di forma simile ad una nocciolina che pesa venti milioni di tonnellate – è in grado di prendere un oggetto da qualunque punto nell’universo e trasportarlo in un qualunque altro punto: ma deve bilanciare ciò che prende con ciò che porta, ecco perché alla sparizione di Davian nel casinò è comparso un robot; e perché sul luogo delle sue malefatte il Basilisco lascia (quasi) sempre un piccolo serpente di argilla.
Un gioiello simile ad un cristallo di neve ingrandito che porta al collo protegge Stella dagli effetti del geofrattore: e, finché le restano abbastanza vicini, può proteggere anche i compagni, che così riescono ad entrare agevolmente nel planetoide, sorprendentemente privo di difese, ed usarlo per intralciare i piani del Basilisco.

Un finale alla Scooby-Doo
Da alcuni giorni questi ha iniziato a rapire i terrestri, per lo più illustri (tra loro figurano la famiglia Star al completo e tutti e sessanta i membri del Consiglio del Palazzo Verde), e concentrarli su uno scoglio nel mezzo di un oceano di un pianetaccio inabitabile dove l’aria è satura di cloro, l’acqua velenosa e creature micidiali infestano cielo e mare: è il pianeta originario delle creature così facilmente identificate dagli scienziati terrestri studiandone la copia robotica. Il suo obiettivo è arrivare a cento ostaggi per poi farne morire novantanove: il superstite designato è Abel Davian, l’ometto divorato dal demone del gioco, perché il Basilisco è proprio lui, anche se tutti lo ignorano ancora.
Mentre la marea sale ed iniziano ad esserci le prime vittime tra i rapiti, Derron si teletrasporta col geofrattore sullo scoglio perché non solo ha intuito che il Basilisco si è mescolato ai rapiti ma ora sa anche come riconoscerlo: intanto Habibula e Stella iniziano a mettere in salvo quanti più ostaggi riescono.
Nonostante la situazione disperata, Davian e altri sono impegnati a giocare d’azzardo (coi sassolini come moneta!): Derron, con una scusa o con un’altra, tocca le mani di tutti i giocatori, esaminandone le reazioni. Quando sfiora quelle di Davian, l’ometto mostra immediatamente i sintomi di una violenta allergia causata dalla vicinanza del suo corpo (sarebbero responsabili le proteine ed un «fenomeno raro ma provato»), sufficiente a rivelarne l’identità. Derron procede quindi a spiegare che aveva sospettato di Davian già quando questi al casinò si era messo a starnutire violentemente in sua presenza: infatti, in occasione del disgraziato incidente di quattro anni prima, anche se l’impostore si era tenuto sempre alle sue spalle, Derron aveva comunque notato che le dita dell’«assistente» si gonfiavano rapidamente e che starnutiva. «È stato questo a darmi la certezza di averti identificato, signor Basilisco»!
Se questo non è un finale alla Scooby-Doo…
Finalmente riabilitato, Derron fa in tempo a teletrasportarsi in un luogo sicuro giusto un attimo prima che il geofrattore, rimasto senza controllo, piombi sul pianeta e smetta di essere una preoccupazione: solo Davian viene abbandonato sullo scoglio a scontare la giusta punizione.

Una storia senza senso
Io vi avevo avvertiti: «L’enigma del Basilisco» non ha senso, ostinarsi a leggerlo serve solo a farsi del male.
La storia è un continuo attaccare nuovi pezzi, prendere nuove direzioni, cambiare le carte in tavola nel tentativo di allungare la minestra ma senza aggiungere niente che sia davvero sorprendente, per non dire avvincente: manca del tutto il senso del meraviglioso, sostituito da un certo «superscientismo» svogliato che, sì, era presente anche nei due episodi precedenti ma non ne era l’interesse principale, che invece consisteva nell’avventura, tanto nello spazio quanto sui pianeti. Qui invece di avventura ce n’è poca e quella che c’è è pure fiacchetta.
In sostanza, questo libro soffre degli stessi difetti già osservati nel precedente «Quelli della cometa» – in particolare la trama senza senso ed un protagonista inconsistente – con l’aggiunta di un terzo che è una sua esclusiva: la perdita dell’identità, col passaggio dalla space opera – un genere che la Legione dello Spazio ha contribuito a modellare – al giallo investigativo che non solo non appartiene a questa serie e sa di forzato ma è pure scritto male, caratterizzato da faciloneria, sciatteria e buchi narrativi che culminano nella rivelazione finale, che sembra davvero uscire dal cilindro del mago. C’erano pochi elementi per sospettare di Davian e certo nessuno collegato alla sua reazione allergica.
Anche se l’ambientazione è la stessa delle precedenti avventure (quelle sì che lo erano, almeno nello spirito), nel «Basilisco» non serve più a nulla se non come richiamo: infatti, tolti alcuni riferimenti agli eventi della «Cometa», nel libro non c’è niente che sfrutti davvero gli elementi già seminati nei due precedenti libri. Anzi, l’ambientazione è quasi un ostacolo, perché costringe Williamson a fare i salti mortali per adattare la grassa forma di Habibula al ruolo che gli ha assegnato, una via di mezzo tra il dottor de Grandin di Seabury Quinn, la simpatica canaglia ed il «sidekick» dell’eroe, perché da solo non ha abbastanza carattere per emergere come reale protagonista ma è buono tutt’al più come intermezzo comico.
E così si arriva all’altro grande problema del libro: i suoi personaggi e l’assenza di un chiaro protagonista. All’inizio sembra esserlo Derron – e nell’insieme è proprio lui quello che più si avvicina all’eroe della storia – ma presto viene relegato in secondo piano per essere soppiantato da Habibula, che per una buona metà della storia ruba la scena a tutti, salvo tornare nella penombra quando Derron risale alla ribalta, nelle poche pagine finali dedicate all’azione e alla risoluzione degli eventi. Questa difficoltà a identificare chiaramente il protagonista della vicenda, mescolata alla personalità inconsistente di entrambi i candidati, impedisce di identificarsi con l’eroe dell’avventura e favorisce invece un certo distacco o «non coinvolgimento», proprio come nella precedente «Cometa» si faticava ad immedesimarsi con Bob Star, così privo di carisma e carattere com’era.
E proprio l’ambiguità è una malattia che colpisce tutti i personaggi principali: Stella Eleroid che è anche Luroa; Davian che è anche il Basilisco oltre che Enos Clagg; Hannas e Brelekko che si fingono rispettabili ma sono tipi loschi dal passato ancor più losco. In un’ambientazione dove tutto continua a mutare non c’è ragione per cercare di capire chi siano i buoni e chi i cattivi né cosa potrebbe accadere perché all’improvviso tutto potrebbe cambiare ancora, e senza che ce ne siano le avvisaglie.
Così anche per «L’enigma del Basilisco» vale ciò che avevo già scritto per «Quelli della Cometa»: il primo volume, «La Legione dello Spazio», è un libro affascinante, che merita di essere letto se non altro per l’influenza che ha avuto sulla space opera e per il catalogo di idee favolose che snocciola quasi ad ogni pagina. Ma è bene non spingersi oltre e lasciar perdere tutti i suoi seguiti per non restare delusi.

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