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Frederik Pohl – Gli antimercanti dello spazio

Frederik Pohl era un ottimista: perché credeva che sarebbe bastato mostrare la verità per aprire gli occhi alle masse di «consumatori» e spingerle a ribellarsi ad un sistema disumano dominato dai potenti di turno, che nel caso del romanzo «Gli antimercanti dello spazio» (The Merchants’ War, 1984) sono ancora la pubblicità e le grandi aziende.

Pohl l’ottimista: quando la realtà supera la fantasia
Per concludere che Pohl fosse un ottimista basta semplicemente osservare la realtà degli ultimi tre anni: perché nonostante l’apparizione di un’influenza di dubbia origine e ancor più dubbia esistenza; nonostante cure non troppo miracolose che fanno più male che bene; nonostante le prove al riguardo evidentissime e a portata di tutti che continuano ad affiorare; e soprattutto nonostante la pubblicazione ormai quotidiana di studi sempre nuovi che giustificano almeno qualche dubbio e una certa diffidenza sull’intera faccenda, e sulle sue reali finalità; in altre parole, nonostante la verità che è davanti ai loro occhi, se solo li aprissero, le masse si dimostrano invece contente di essere prese in giro continuamente e di vivere nella menzogna, nella paura e nella schiavitù, senza nemmeno mostrare non dico un accenno di ribellione contro i media e i loro padroni che le ingannano ogni giorno, ogni momento, ma almeno un briciolo di buon senso e capacità di pensiero autonomo.
E queste masse non solo sono contente di farsi ingannare e di obbedire ciecamente, al massimo con qualche borbottio innocuo, ma sono anche pronte ad abbaiare e balzare contro chiunque sostenga il contrario della propaganda ufficiale e cerchi di farle riflettere, presentando dati, cifre, prove – in altre parole, mettendole di fronte a quella verità – pur di non uscire dal conforto del loro guscio, di non dover pensare con la propria testa, di non dover aprire gli occhi, e di restare invece nella paura ed obbedire religiosamente al messaggio ufficiale, alla propaganda che li martella senza sosta.

Quando persino il pessimismo sembra ottimismo
E questo è esattamente ciò che succede anche nel libro di Pohl, per merito della pubblicità e delle pratiche disoneste dei bramini della comunicazione, che spingono i quaranta miliardi di «consumatori» della terra del prossimo futuro non solo a cercare il conforto dei prodotti della grande distribuzione ma anche a sviluppare un’autentica dipendenza da quegli articoli, di qualsiasi tipo siano. Tanto, provengono tutti dalle stesse, poche, grandi compagnie, che così si spartiscono profitti, controllo e potere.
Chi ha letto le sue opere più note e influenti, come «I mercanti dello spazio» (1953) e «Gladiatore in legge» (1954), sa bene che Pohl non riponeva grande fiducia nel futuro e nell’umanità, perché già aveva colto le tracce di quel degrado della società che negli anni successivi sarebbe diventato l’elemento distintivo del «progresso». Eppure le sue idee, messe a confronto con la realtà in cui viviamo oggi, lo fanno apparire davvero un ottimista, perché se non altro immaginava che, per quanto cupa e disperata fosse la situazione, bastasse solo una scintilla per far esplodere la polveriera e spingere le masse schiave non solo a rigettare quella società malata e decadente ma anche a ribellarsi contro lo status quo.
Ma ancora una volta la realtà ha superato la fantasia, perché, nonostante la verità messa a nudo, nella nostra attualità le masse continuano a pascolare tranquille: qualcuno che si ribella c’è ma, come la «vox clamantis in deserto» del Vangelo di Marco, rimane inascoltato ed anzi viene denigrato in ogni modo, se non addirittura demonizzato o perseguitato.
Ed intanto la situazione si fa così fosca che persino il pessimismo di Pohl può essere scambiato per inguaribile ottimismo.

Una storia meno cupa e più satirica
Ambientato un secolo scarso dopo gli eventi del precedente «I mercanti dello spazio» di cui ho già scritto, «Gli antimercanti dello spazio» è una copia scialba del predecessore: infatti, mentre quello era prima di tutto una critica sociale ed un avvertimento su ciò che sarebbe accaduto nel prossimo futuro (degli anni Cinquanta: il nostro recente passato quindi) se non si fosse cambiato il modello economico e sociale, questo è soprattutto una satira, perché negli anni Ottanta quella società dalla quale trent’anni prima Pohl ed il defunto Kornbluth cercavano di mettere in guardia si era ormai consolidata e già minacciava il mondo intero.
E così anche la storia è meno cupa e pessimistica e tende invece più verso l’ironico ed il grottesco, a cominciare dall’irritante protagonista, Tennison Tarb, un sommo sacerdote della pubblicità: Tarb viene presentato come un perfetto idiota che crede ciecamente nella manipolazione delle menti, anche quando è lui stesso a cadere vittima della «pubblicità limbale» (praticamente un raggio luminoso che in un momento solo fa il lavaggio del cervello e trasforma un uomo di successo in un derelitto, una specie di drogato o «prodottodipendente», nel suo caso un «mokomane», ossia un drogato da Mokie-Koke) e, degradazione dopo degradazione, a precipitare dall’olimpo della pubblicità più spregiudicata alla disperazione dei comuni consumatori timorati delle vendite.
La trama del libro è prima di tutto funzionale: non vuole tanto raccontare una storia (che pure c’è e segue il classico modello della caduta e riascesa dell’eroe sino al trionfo finale) quanto mostrare in che modo e fino a che punto la pubblicità abbia ormai infiltrato ogni attività umana e l’abbia corrotta sino a trasformarla in un vivaio da spremere come un limone o, per usare un’immagine più concreta, in un mercato inesauribile di falsi bisogni che vanno ad aggiungersi ai bisogni già creati, che non sarà mai possibile soddisfare ma al massimo sostituire con altri bisogni succedanei.
Il fine non è solo spolpare il cittadino o «consumatore» di ogni centesimo ma soprattutto privarlo dell’iniziativa e dell’autostima e così tenerlo passivo ed ignorante: parlando di una famiglia presso cui è costretto ad alloggiare dopo aver toccato il fondo, Tarb osserva infatti che i suoi ospiti «erano stati allevati e istruiti a fare quello che il mondo chiedeva da loro: comprare le cose che noi delle Agenzie avevamo da vendere. (…) Ciò che faceva il buon consumatore era la noia. La lettura era scoraggiata, le case non erano una gioia a stare. Cos’altro potevano fare delle proprie vite, se non consumare»?
La «quarta rivoluzione industriale» è proprio dietro l’angolo.

La guerra fredda tra la terra e…Venere
All’altro estremo si trova invece Venere, il pianeta la cui colonizzazione era partita proprio alla fine dei «Mercanti dello spazio», con la fuga precipitosa del protagonista, Mitchell Courtenay: è passato quasi un secolo da allora e qua e là – soprattutto nella prima parte, ambientata proprio sul secondo pianeta – affiorano piccoli riferimenti a quella storia e a ciò che deve essere avvenuto nel frattempo.
Anche se rimane ostile alla vita, Venere conta ora quasi un milione di abitanti, concentrati nei pochi centri che sono in grado di provvedere ai bisogni umani primari, come l’aria, l’acqua, il riscaldamento e gli altri servizi essenziali alla sopravvivenza: per carattere e necessità i venusiani sono divenuti un popolo di uomini indipendenti e tengono così tanto alla loro autonomia e identità (riassumibile in «essere e fare il contrario della terra») da rifiutare ogni pubblicità, promuovere l’onestà anche quando viene a proprio svantaggio e celebrare feste come l’Antinatale, in reazione alle «dieci settimane di Natale» che sulla terra iniziano ad ottobre con la sera del Primo Regalo (e in un’altra storia sempre di Pohl, «Buon compleanno, caro Gesù», che è del 1956, addirittura a settembre). Ma nel loro rifiuto assoluto dei mali della terra anche i venusiani sono divenuti degli estremisti, che non si tirano indietro da una certa rivalità col nostro pianeta, anche per una questione di sopravvivenza.
Il libro mostra così subito la sua fragilità, perché inizia come una storia spionistica da guerra fredda (Tarb lavora all’ambasciata terrestre su Venere e gestisce la rete di agenti, infiltrati e sabotatori sul pianeta) per poi trasferirsi subito sulla terra: dove la guerra tra spie rimane e diventa una storia di infiltrazione ma passa in secondo o addirittura terzo piano, per dare invece spazio all’ampio catalogo di scenette grottesche di cui Tarb di volta in volta è protagonista, che servono per mostrare i diversi aspetti dell’umanità ormai dominata dalla pubblicità e dalle grandi aziende. Così abbiamo «Tarb e la religione», «Tarb e la politica», «Tarb e l’esercito», «Tarb e i consumisti anonimi» e via dicendo, giustapposte l’una all’altra per creare una trama che abbia un po’ di senso e, tappa dopo tappa, conduca all’incredibile finale: cioè quando Tarb, disintossicatosi dalla dipendenza dalla Mokie-Koke con una terapia d’urto, rinsavisce e guida una campagna pubblicitaria televisiva suicida che in una sola notte – quella che precede le elezioni presidenziali – porta al risveglio delle masse e all’implicito crollo della società basata sul consumo, sulla pubblicità e sulla manipolazione.
Ah, l’ottimismo di Pohl!

La verità, se solo venisse ascoltata
Questa è una recensione particolare, perché non è proprio una recensione ma soprattutto uno sfogo, dal momento che «Gli antimercanti dello spazio» tratta una tematica così attuale che offre lo spunto per una riflessione sulla nostra società: e così il commento al libro si mescola qua e là con altre osservazioni sull’attualità. Infatti è innegabile che, nonostante l’intento satirico, ci sia una forte rassomiglianza tra la società grottesca tratteggiata da Pohl e quella spaventosa in cui viviamo: in entrambe l’essere umano è solo una pedina, un «consumatore» che viene tollerato in misura di quello che spende; e in entrambe è la pubblicità – o i mezzi di comunicazione tradizionale, televisione in testa – che manipola la sua mente, riempie le sue giornate, crea i suoi bisogni: in altre parole, gli dice cosa fare, cosa pensare e lo spinge dove vuole, senza mai permettergli di tirare il fiato, provare soddisfazione, raggiungere un traguardo.
Così la sua vita (quella del cittadino/consumatore) si svuota, diventa una corsa senza fine a desiderare cose che non potrà mai avere o a circondarsi di succedanei delle soddisfazioni autentiche, in cerca di quella realizzazione personale che non riesce mai a raggiungere: ormai svuotato di una personalità, privato di una finalità e incapace di pensare con la propria testa, il cittadino/consumatore non può far altro che delegare ogni sua decisione ai media e lasciare che siano altri a riempirgli la mente con idee, pensieri, opinioni, scelte preconfezionate che non sono il frutto del suo ragionamento ma sono identiche per tutti, e spesso pure contro il suo interesse. Così entra in una quotidianità fatta di automatismi, nella quale ogni giorno ripete sempre le stesse azioni per abitudine, senza realmente riflettere su quello che sta facendo o dove sta andando.
E quando qualcuno fa resistenza, nel libro gli viene subito affibbiata l’etichetta di «conservazionista» (ma potrebbe benissimo essere quella di no vax, il disprezzo ed il disgusto che questi termini trasudano è lo stesso) per piegarlo o almeno scongiurare il rischio che il suo modello possa ispirare altri pericolosi devianti: nella realtà non siamo ancora arrivati all’impiego delle tecniche limbali che friggono il cervello e creano dipendenza né alla lobotomizzazione ma il trattamento riservato a chi «spaccia» la verità è lo stesso, solo che passa per l’ostracismo e la cancellazione.
Perché, per rendere liberi, la verità dovrebbe essere udita: ma le masse preferiscono ancora tapparsi le orecchie, girare la testa dall’altra parte ed ascoltare semmai la melodia del pifferaio magico, e seguirlo ovunque quegli voglia condurle. Fa meno male, e costa meno fatica.
Per questo Pohl era un ottimista: credeva che le masse ascoltassero e avessero davvero orecchie per intendere. Aveva decisamente sopravvalutato l’umanità del ventunesimo secolo.

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