Se è vero come dicono che l’imitazione è la più sincera forma di adulazione è altrettanto vero che il romanzo «Venti di fuoco» di Norvell W. Page (Flame Winds; prima pubblicazione sulla rivista Unknown nel 1939) fa un ben misero servizio al suo ispiratore. Secondo la copertina di una ristampa americana degli anni Sessanta si tratterebbe infatti di «heroic fantasy nella grande tradizione di Conan»: ma di ciò che ha reso il barbaro più famoso della narrativa l’archetipo dell’eroe fantastico non c’è traccia in questo libro, che anzi impallidisce al confronto di una qualsiasi avventura scritta da Howard. Perché in realtà «Venti di fuoco è una storia vuota, riempita di buchi narrativi e costruita su misura attorno al suo protagonista extralarge, un «clonan» senza un briciolo della personalità o della competenza del suo modello ispiratore.
Un nome molto fantasioso
Eppure l’unico vero interesse del romanzo risiede proprio nel suo protagonista: un trombone di nome Prester John, che le tribù mongole presso cui ha soggiornato chiamano Wan Tengri, come il loro dio supremo. Già da questi elementi si ricava un primo indizio: la storia è ambientata sulla terra, nel nostro passato, ed esattamente nel primo secolo dopo Cristo. Ed un secondo indizio proviene dal nome «reale» di questo personaggio, Prester John appunto, che qui viene presentato come un gladiatore alessandrino del primo secolo dopo Cristo che ha abbandonato l’impero romano per cercare fortuna in Oriente.
Già, perché «Prester John» è la versione inglese del Prete Gianni, una figura del mondo reale o, meglio, una figura immaginaria del mondo reale che ha fatto la sua prima apparizione solo un millennio più tardi, in pieno medioevo, quando si iniziò a favoleggiare l’esistenza di un regno cristiano sperduto da qualche parte nel lontano Oriente, retto da un sovrano il cui nome era, appunto, Prete Gianni.
Tuttavia non c’è alcuna correlazione tra questo Prester John ed il protagonista della storia di Page, a parte la regione in cui entrambi operano e l’adesione anche di quest’ultimo al cristianesimo o, più precisamente, alla religione di «quel nuovo dio chiamato “Christos”», che l’eroe tratta alla stregua di un dio pagano, col conforto materiale del talismano rappresentato da un frammento della vera croce che porta sempre al collo.
Per spiegare un nome che suona inglese nel contesto del primo secolo, quando l’inglese ancora non esisteva come lingua, Page si inventa un’ingegnosa etimologia che suggerisce una certa ironia, della quale però nel racconto non c’è traccia: nella prefazione alla ristampa americana del 1969 già citata, assente dalla traduzione italiana, l’autore fa infatti risalire «prester» non al «presbyter» greco da cui derivano tanto il «prete» italiano quanto il «priest» inglese, bensì al verbo greco «pimpremi» (brucio, ardo, secondo il venerabile Rocci). Da qui, prosegue Page, deriverebbe la parola greca «prester», ossia «l’uragano o tornado che a volte affligge il Mediterraneo con le sue vorticanti nuvole nere», usato nelle arene dai tifosi come nomignolo per acclamare il nostro turbolento eroe, anche se il Sacro Tomo del greco antico non lascia spazio a questa interpretazione.
Tanto più che, dopo aver faticosamente costruito l’etimologia del nome ed il parallelo tra i due personaggi omonimi, il romanzo fa scarso uso dell’appellativo di Prester John, al quale invece preferisce quello indigeno di Wan Tengri, ripetuto anche tre o quattro volte a pagina: lo rispolvera solo durante le scene d’azione, per ricordare al lettore che il protagonista è un uragano che anela al combattimento, nonostante la sua insolita predilezione per l’arco e le frecce, di cui fa larghissimo e micidiale uso.
Così, visto che non c’è alcun legame tra i due personaggi a parte tenuissime e forzatissime rassomiglianze geografiche e religiose, non c’era alcuna necessità di scomodare il Prete Gianni della leggenda per farlo diventare protagonista di quest’altra storia: tra l’altro questo Prester John non ha nemmeno un regno, né all’inizio né alla fine di questa avventura.
In altre parole, un’ambientazione pienamente fantastica sarebbe servita altrettanto bene allo scopo, e forse anche meglio.
Due in cerca di avventura
Con una simile presentazione, che prende un mito per costruirne sopra un altro, ci si aspetterebbe una storia leggera, magari persino ironica: ed invece la levità è bandita da subito, soffocata da trombonate sempre più grosse, descritte e collegate le une alle altre così male che ad un certo punto il lettore per sopravvivere si trova costretto a costruirsi uno schermo attorno alla mente che filtri i pochi frammenti buoni dal mare di inutilità riempitive.
Perché, a dire il vero, la storia non sarebbe nemmeno tanto male, se solo non si prendesse così sul serio: ma questa è una caratteristica dello stile di Page, noto soprattutto per aver scritto decine di episodi di The Spider, uno degli eroi simbolo dei pulp degli anni Trenta dopo The Shadow e Doc Savage, di cui ho già parlato.
Per ragioni sue Wan Tengri, il nostro eroe, si è nascosto in un carro di lana per entrare nella città di Turghol sul lago Baikal: qua e là vengono citate precedenti avventure di cui è stato protagonista, delle quali però non c’è traccia nelle riviste dell’epoca, perché questa è la prima apparizione del personaggio. Ma così ci viene implicitamente detto che è un valoroso.
Appena arrivato, viene subito preso di mira dai sette maghi che dominano la città, che per ragioni loro vogliono catturarlo e farne uno schiavo: ma Wan Tengri riesce a mettersi in salvo con l’aiuto di un ladro, il capo della misera malavita locale, un ometto gobbo ed insignificante al quale presta aiuto. Questo ladruncolo si chiama Bourtai ma senza alcun motivo ragionevole tranne il dileggio l’eroe gli affibbia il nomignolo di «scimmia» e così si ostina a chiamarlo per tutto il tempo, anche se Bourtai gli ha detto chiaramente che questo appellativo gli dà fastidio: ciononostante l’ometto diventa subito l’infido servitore del protagonista e non perde occasione per umiliarsi davanti al padrone compiaciuto, che è ben consapevole della doppiezza del servo ma lo tiene comunque con sé e lo usa persino come confidente e alleato.
Già così la cosa suona un po’ forzata ma diviene addirittura incredibile quando, verso i due terzi, viene finalmente rivelata la vera identità di Bourtai: perché questi non solo è uno dei sette maghi che governano la città e che Wan Tengri ha giurato di abbattere, ma è anche il Sommo, il loro capo, che per ragioni sue si è messo col protagonista.
Per ingannarlo e tradirlo al momento opportuno, si penserà: ma non è proprio così, perché ogni volta che Bourtai tenta di agire contro l’eroe viene subito scoperto, ripreso e riportato all’ordine come un bambino capriccioso. D’altro canto, pur conoscendo la vera identità e la natura traditrice del mago, Wan Tengri continua a tenere Bourtai con sé e se lo porta dietro anche quando nel finale decide di abbandonare la città.
Decisamente uno strano rapporto il loro.
Un protagonista factotum
Anche il resto della storia fa acqua: perché Wan Tengri viene infine catturato e condannato all’immancabile arena, dove trionfa sconfiggendo tutto e tutti, persino l’apparizione della morte, dalla quale riceve un prezioso indizio sul modo per rovesciare i maghi e conquistare la signoria temporanea sulla città. Poi, con un sistema troppo complicato da spiegare che presuppone conoscenze moderne, trova il modo di attraversare il fossato di fuoco che cinge la torre in cui da diciassette anni è rinchiusa la principessa di Turghol, la legittima regnante: è prigioniera del suo stesso corpo, quello di una bambina di sette anni.
Fedele al suo soprannome, l’eroe entra nella torre come un uragano, restituisce alla principessa la sua età e le sue sembianze (bastava frantumare una sfera di cristallo che era lì sin dall’inizio della storia e attendeva solo di essere fatta a pezzi) e poi regge l’assedio dei diecimila guerrieri dei maghi, col solo Bourtai al proprio fianco, che pure un attimo prima aveva tentato di tradirlo per l’ennesima volta.
Alla fine, Wan Tengri brucia vive le truppe dei maghi incanalando con un sistema di tappeti uniti tra loro il magico vento di fuoco che dà il titolo al libro: poi guida la principessa al tempio per l’incoronazione, sebbene solo metà dei maghi siano stati uccisi; gli altri sono semplicemente usciti di scena senza dare nell’occhio.
E finalmente, nell’unico momento ironico della storia, Wan Tengri rifiuta di diventare il consorte regale: la principessa è così offesa dall’inatteso scorno che vorrebbe pugnalarlo sul posto ma, siccome gli aveva già dato la parola che avrebbe esaudito tre suoi desideri, si trattiene. Ma solo per poco: infatti, quando quella sera stessa Wan Tengri e Bourtai si allontanano sulla galea carica di ricchezze che l’eroe aveva richiesto in cambio dei suoi servigi, la neoregina ritira il suo dono. Già all’inizio della storia infatti era stato stabilito che è potere dei maghi richiamare gli oggetti di loro proprietà che ritengano siano stati rubati loro, la ragione per cui i ladri di Turghol erano così male in arnese.
E così l’eroe si trova nudo (pure le sontuose vesti sono state richiamate) con Bourtai su una barchetta che fa acqua da decine di falle: e qui si chiude la storia, che ha pure un seguito, «Sons of the Bear-God», sempre del 1939, non tradotto in italiano.
Un clonan sbiadito
Page non è Howard e Wan Tengri non è Conan, e si vede: la storia infatti non ha né il ritmo né la crudezza né l’intreccio dei racconti del padre della sword and sorcery e non ha nemmeno la personalità delle storie altrettanto stereotipate di un altro clonan, quel Brak di John Jakes di cui ho già scritto tempo fa, ma è martoriata dai buchi narrativi, con passaggi repentini da una scena all’altra e descrizioni poco chiare, che non riescono a far comprendere cosa stia effettivamente succedendo. Le cose semplicemente accadono: così all’improvviso la storia sembra saltare da una scena all’altra, senza elementi di unione o concatenazione logica. Il filtro di cui ho parlato in precedenza serve proprio per sfrondare tutte le parti che fanno solo confusione e tenere almeno il senso delle azioni.
Ciononostante qua e là sono disseminate delle buone idee: l’idea degli oggetti rubati che possono essere richiamati dai maghi è infatti ottima (vanifica così il lavoro dei ladri, che a Turghol infatti sono ridotti a pelle e ossa e si sono adattati a rubare cose di infimo valore), come lo sono l’idea della città retta dai sette maghi che non si fidano l’uno dell’altro; e poi il carattere scostante della principessa, riconoscente ma non troppo verso l’eroe che l’ha salvata; ed il protagonista stesso, che dichiara apertamente di essere interessato più all’oro che al cuore della principessa, una rarità nelle storie pulp di un tempo.
Alla fine le idee ci sarebbero anche, se si ha la pazienza di cercarle: ma per trovarle occorre setacciare bene ogni pagina e superare una serie ininterrotta di piccoli ostacoli, come una strada piena di dossetti che, per quanto bassi, riescono solo a far infuriare un guidatore.
Così, tra le molte carenze della storia ed un protagonista che è una copia sbiadita di Conan, riesce chiara la ragione per cui il libro non brilla: non ha niente al quale aggrapparsi.