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Altri dieci racconti marziani

La conquista dello spazio non è solo uno degli argomenti più affascinanti per chiunque abbia un pizzico di interesse per la fantascienza ma è anche una delle più grandi sfide che l’umanità abbia mai affrontato: trovare il modo di lasciare la terra – e non per pochi giorni ma per anni, forse anche per sempre – con risorse sufficienti per raggiungere un altro pianeta e qui costruire una colonia autosufficiente, capace cioè di provvedere a se stessa nonostante l’ambiente ostile alla vita che la circonda, sembra una sfida persa in partenza per la sua difficoltà.
Tuttavia, nel rinnovato interesse per lo spazio degli ultimi anni, da qualche tempo si inseguono le notizie che danno per probabile la costruzione di un primo insediamento lontano dalla terra entro una decina d’anni e di un’intera colonia nei successivi venti: ed anche se gli addetti ai lavori discordano sulle sue possibili dimensioni è ormai certo che l’abitato verrà costruito su Marte, il pianeta che da sempre affascina di più l’uomo e che in un certo senso incarna il sogno stesso della conquista dello spazio.
A quanto pare, la tecnologia di cui già disponiamo renderebbe tutto un po’ più facile di quello che sembra: la stampa tridimensionale, ovviamente su scala ben maggiore rispetto ai soprammobili che oggi chiunque può prodursi in casa, permetterebbe infatti di spedire sul pianeta un sistema automatizzato in grado di costruire da sé le baracche a tenuta stagna, utilizzando le risorse già presenti sul luogo. Così successivamente sarebbe possibile mandare una spedizione con umani a bordo, che troverebbero sul posto la loro nuova casa già bella e pronta e potrebbero quindi iniziare subito a dedicarsi agli altri compiti più urgenti, come assicurarsi la produzione o il riciclaggio di cibo, aria ed acqua.
Tra i molti articoli pubblicati al riguardo quest’estate ne ho trovati un paio particolarmente interessanti perché mostrano con foto e video due progetti già ben avviati e danno un’idea sia delle modalità di costruzione sia dell’aspetto che potrebbero avere i moduli abitativi dei primi coloni: l’uno parla della proposta vincitrice di un concorso bandito dalla Nasa  (brutta e poco pratica), l’altro di un’iniziativa promossa sempre dalla Nasa, che a partire dall’anno prossimo rinchiuderà gruppi di volontari in uno di questi prefabbricati (perché nonostante tutta la tecnologia impiegata questa è l’impressione che danno le casette marziane: prefabbricati) per studiarne le reazioni. Quest’ultimo articolo in particolare è corredato anche di un breve video che mostra il funzionamento dell’enorme stampante 3d che lo dovrà costruire.
La loro lettura – e l’argomento in sé – mi ha così ispirato una nuova rassegna di altri dieci racconti ambientati su Marte, sulla scia di quella che avevo pubblicato tre anni fa: come sempre, tutte le storie danno un’idea del pianeta rosso ben diversa da quello che è in realtà.
Ma sono proprio queste visioni immaginarie che hanno contribuito a creare il mito di Marte.

I racconti

Stanley Weinbaum – Un’odissea marziana (A Martian Odyssey, 1934)
Un racconto di una certa importanza: spicca infatti nel panorama della fantascienza degli anni Trenta per aver introdotto elementi nuovi, primo tra tutti l’alieno Tweel, che è intelligente, allegro e simpatico anche se strambo secondo il giudizio umano, ben diverso dai consueti alieni piatti e tendenzialmente malvagi dell’epoca. La storia non è altro che il resoconto della breve avventura vissuta da un certo Dick, uno dei quattro componenti della prima spedizione su Marte, che aveva preso una navicella e si era allontanato di ottocento miglia dal campo base per esplorare la zona: giunto a quella distanza si è rotto il motore e così Dick si è trovato costretto a tornare indietro a piedi. Tuttavia percorre sì e no un quarto di quella distanza prima di essere trovato e salvato – al momento opportuno – dai suoi compagni.
Quasi subito dopo l’incidente Dick incontra l’alieno Tweel, che sta per essere divorato da una creatura tentacolata, capace di attirare le vittime con splendide illusioni che paiono reali: il protagonista salva Tweel uccidendo la creatura ed il marziano, che diventa subito suo amico, decide di seguirlo nel pellegrinaggio, anche se appare subito impossibile una vera comunicazione tra le due razze, troppo diverse.
A questa seguiranno altre tre scene rilevanti per la trama: la prima riguarda un essere di silicio, più macchina che creatura, vecchio probabilmente centinaia di migliaia di anni, che passa la vita a costruire piramidi di mattoni di silicio. Pezzo dopo pezzo, si mura vivo al loro interno, poi ne spezza la cima, salta fuori ed inizia subito a costruirne un’altra accanto alla precedente: Dick e Tweel procedono lungo l’intera serie di piramidi erette dall’essere, che però li ignora e prosegue nella sua opera di edificazione. La fila è lunghissima, quasi interminabile: comincia con piramidi minuscole e arriva all’ultima da cui la creatura è appena sbucata, alta più di due metri.
La seconda scena include con un altro mostro tentacolato analogo a quello già visto, che qui viene chiamato «il mostro dei sogni»: attira le vittime con l’illusione, ricrea il loro sogno o desiderio più grande (nel caso di Dick, un’attrice del cinema) e poi le afferra coi tentacoli per divorarle. Questa volta è Tweel a salvare il protagonista, perché probabilmente il mostro è in grado di riprodurre solo un’illusione alla volta.
La terza scena è l’incontro della coppia con una strana razza di creature a forma di barile, che spingono dei carretti: ignorano i due e continuano con la loro attività frenetica, che è raccogliere pietre, portarle all’interno del loro formicaio e farle schiacciare da un’enorme ruota, sotto la quale si gettano anche loro.
Dick vuole entrare ma si perde nel dedalo di gallerie e probabilmente si aggira nel nido per giorni: quando finalmente entra nella grande sala a cupola in cui si trova la ruota, il suo sguardo viene attirato da un cristallo con poteri quasi magici. Lo guarisce immediatamente da una verruca che aveva sul pollice e da un gelone al naso: così, compreso il potenziale curativo che il talismano potrebbe avere sulla terra, lo afferra. In questo modo però desta l’attenzione e l’ostilità dei barili: uno di loro finisce sotto la ruota senza essersi disfatto prima del carretto, e questo fatto è come un segnale per gli altri. Orde di creature li attaccano: nella fuga, Dick trova l’uscita ma viene chiuso dalla massa in una valle cieca, dove è destinato a morire, per gli attacchi delle creature o, se anche dovesse sopravvivere, per il gelo notturno, perché nella fuga si è disfatto del sacco a pelo termico. Ma quando è ormai spacciato arriva la nave dei soccorritori, che lo traggono in salvo: e Tweel se ne va.
Di Tweel, che è simile ad un uccello dal lungo collo, colpisce il comportamento che a noi sembra folle: salta e balza e poi piomba a terra di muso, piantandosi nel suolo col lungo becco che non è rigido ma flessibile, una via di mezzo tra un becco ed una proboscide; ha due braccia e due gambe, il cervello nel corpo tondeggiante ed, appunto, un lungo collo con una piccola testa ed il becco o proboscide. Porta inoltre una piccola borsa legata al collo che pare essere zeppa di cose utili, tra cui un’ingegnosa pistola di vetro che spara proiettili pure di vetro per mezzo del vapore.

Raymond Z. Gallun – Il Vecchio Fedele (Old Faithful, 1934)
Racconto convincente su un altro alieno buono, pubblicato sull’onda dell’«Odissea marziana» di Weinbaum, che era stata pubblicata alcuni mesi prima: quella infatti era apparsa su Wonder Stories di luglio, questa invece è uscita su Astounding di dicembre dello stesso anno.
Il Vecchio Fedele del titolo (nomignolo che gli viene affibbiato dai terrestri perché in nove anni di segnalazioni tra Marte e la Terra non ha mai mancato un appuntamento: il suo nome marziano sarebbe Numero 774, ossia il 774° discendente della sua famiglia) è una creatura disgustosa a vedersi: una sorta di ombrello aperto, con tentacoli come una stella di mare, palpi attorno alla bocca e due grandi occhi ben distanziati; non ha né l’udito né la facoltà di parlare perché i marziani comunicano in altro modo, facendo toccare le terminazioni nervose dei loro tentacoli. Per muoversi e fare quasi ogni cosa usa macchine avanzatissime che costruisce lui stesso o fa costruire da altre macchine.
Il Vecchio Fedele, che studia la terra e fa le sue segnalazioni con i terrestri, è stato appena condannato a morte dai suoi simili perché non svolge un’attività ritenuta utile per Marte e quindi consuma inutilmente le scarse risorse del pianeta: dovrà uccidersi entro quaranta giorni. Ma è deciso a incontrare i terrestri con cui è in contatto da così tanto tempo: ha persino decifrato parte del codice morse con cui avvengono le comunicazioni – i terrestri usano luci potentissime – ed è in grado di lanciare piccoli messaggi. Così avvisa i suoi corrispondenti che arriverà sulla terra sfruttando una cometa che sta passando in cielo, sfidando l’editto delle autorità. Riesce nel suo intento ma giunge sulla terra sofferente per le fratture e ferite, alcune già incancrenite, che ha subito a causa della forza di gravità, dell’attrito e della spinta del decollo: muore però a causa della pressione atmosferica terrestre, che è sei volte quella di Marte.
Tuttavia prima di morire incontra i terrestri con cui era in contatto e stabilisce un primo contatto: porta loro apparecchi e studi che saranno utili per la conquista dello spazio ed il viaggio su Marte descritto nel racconto successivo, al quale seguirà un terzo episodio.
Nell’insieme di tratta di un buon racconto, scorrevole, con una trama solida, solo un po’ maliconico: le parti migliori sono quelle che parlano del marziano, per il quale si arriva a provare dell’affetto. E proprio del marziano è il merito di tutti i successivi progressi dei terrestri: non solo è lui a compiere il primo viaggio nello spazio e a mettere il primo «piede» su un pianeta alieno ma è sua anche la tecnologia che permetterà agli umani di conquistare prima la luna e poi di arrivare su Marte stesso.

Frederic Arnold Kummer Jr. – Legion of the Dead (Amazing Stories, novembre 1939)
Storia fantascientifica di zombi ambientata su Marte: è degli anni Trenta, quindi di ben prima che i cadaveri ambulanti diventassero un fenomeno di moda. In questo racconto i morti vengono rianimati non per magia né per virus strampalati ma in virtù della tecnologia, una batteria montata sulla schiena viene collegata al sistema nervoso e poi vengono usati liquidi vari per sostituire il sangue.
Marte è un protettorato terrestre: ma i terrestri sono malvisti e odiati dalla popolazione locale (umanoide d’aspetto) e la rivolta è pronta a scoppiare. Già diversi funzionari sono stati uccisi da sicari dei ribelli che non temono la morte e non vengono nemmeno fermati dalle armi terrestri. La ragione si scoprirà più avanti: sono morti rianimati. Ranson, agente del governo terrestre, indaga e viene infine catturato dallo scienziato marziano malvagio, che in perfetto stile James Bond (anche qui, in anticipo di almeno vent’anni) prima di ucciderlo gli spiega come funzionano i suoi inarrestabili zombi: non si accontenta di mostrargli il procedimento di creazione e controllo (tramite una certa frequenza radio) ma gli dice persino come si possono fermare. E gli descrive pure il modo in cui ha in mente di provocare la rivolta generale dei marziani.
Ranson riesce a fuggire dal laboratorio dello scienziato pazzo fingendosi uno zombo e poi, con l’aiuto della polizia, riesce a bloccare la radiofrequenza su cui le creature ricevono gli ordini. Così il governatore è salvo e la rivolta scongiurata: per molto tempo ancora, perché adesso i marziani credono che lo scienziato, che aveva annunciato la morte del governatore come segnale per dare inizio alla rivolta, li abbia traditi.

Jack Williamson – Senza scalo (Nonstop to Mars, 1939)
Si torna agli alieni malvagi: una razza di extraterrestri atterrati su Marte sta rubando l’atmosfera della terra con una sorta di tubo gravitazionale che aspira l’aria. Il protagonista è un pilota da trasvolate pubblicitarie, ormai rese anacronistiche dall’invenzione dei razzi: l’aereo su cui sta volando viene danneggiato da questo tubo e lui deve fare un atterraggio di fortuna su un’isoletta nell’oceano dove viene accolto da una giovane scienziata che sta studiando il fenomeno.
La donna è così piena di sé e crede così tanto nell’importanza del suo lavoro che paragona l’uomo ai dodo: il suo è un mestiere in via di estinzione, gli dice. Ma lui ricambia con l’osservazione che «gli astronomi in gonnella che dimenticano di essere donne sono altrettanto fuori posto, nel mondo civile, quanto i trasvolatori senza scalo». Informato tuttavia di ciò che sta accadendo, decide di mettere a frutto le sue capacità e di fare qualcosa di utile per la terra: vuole compiere la prima trasvolata senza scalo su Marte.
Riparato e rifornito quindi l’aereo, si getta dentro al tubo: dopo una cinquantina di ore da incubo (non può dormire perché se solo toccasse i bordi rischierebbe di andare in pezzi) piomba sull’insediamento alieno e lo distrugge, poi con la radio dell’aereo comunica alla terra ciò che ha fatto e la fine del pericolo. Ormai rassegnato a fare il Robinson Crosuè dello spazio, viene tuttavia soccorso un mese più tardi dalla scienziata, che usa il razzo inizialmente progettato per l’attacco agli alieni per correre invece a salvarlo e informarlo di tutte le medaglie che gli sono state assegnate dalla terra. Ma la conquista più importante è l’amore della ragazza, che sa di aver conquistato.

Lester Del Rey – Missione sconosciuta (Dark Mission, 1940)
Un marziano giunge sulla terra per compiere una missione umanitaria ma in fase di atterraggio il suo razzo si schianta: nell’incidente perde la memoria ma la sua mente è stata condizionata prima della partenza e così al risveglio agisce automaticamente pur senza sapere cosa stia facendo. Tutta la storia è costruita attorno al suo tentativo di scoprire chi sia e cosa sia venuto a fare sulla terra: progressivamente, nell’arco di una sola giornata, apprende via via sempre più informazioni che alla fine lo portano a compiere comunque l’obiettivo secondario, dato che quello primario è fallito, e non per causa sua.
I popoli della terra e di Marte sono fratelli: la terra infatti sarebbe un’antica colonia marziana. Lo stesso protagonista – del quale non viene detto il nome: solo «straniero» – appare umano e nessuno sospetta della sua provenienza. È venuto da Marte in cerca di aiuto: sul pianeta è scoppiata una terribile pestilenza, peggiore persino del covid, che sta sterminando la popolazione; non si sa se sia di origine naturale, umana o addirittura spaziale, portata da una meteorite. A contatto con l’aria i batteri muoiono in un attimo ma basta sfiorare appena la pelle di un malato per infettarsi: e i sintomi del morbo compaiono dopo mesi. Solo bruciando il cadavere un corpo smette di essere contagioso.
Il protagonista è stato scelto per cercare sulla terra un rimedio a questa malattia e, in assenza dell’antidoto, a fare tutto il possibile per evitare che i terrestri possano raggiungere Marte, che rimarrà pericoloso finché anche l’ultimo marziano non si sarà completamente dissolto in polvere.
La missione fallisce perché la medicina terrestre è ancora arretrata rispetto a quella marziana: il protagonista è un forte telepate – è stato scelto proprio per il suo talento particolarmente sviluppato – e così lo apprende con certezza durante un colloquio con un medico. Ma in questo modo apprende anche altre informazioni, come l’imminente lancio di un missile con equipaggio diretto su Marte: non può permettere che parta, per salvare almeno la terra dal contagio.
Così riesce a intrufolarsi nel campo, dove è costretto ad uccidere una guardia quando le loro mani si sfiorano accidentalmente: poi sabota il razzo e, mentre sta ormai per morire lui stesso a causa della malattia, ne provoca l’esplosione, dopo essersi chiuso nella sala motori assieme al corpo della guardia per evitare la contaminazione. Così almeno la terra è salva: ci vorranno molti anni prima che la terra riesca a costruire e mandare un altro razzo. E nel frattempo i marziani e la malattia probabilmente si saranno estinti.

John Wyndham – Storia di Bert (Time to Rest, 1949)
Racconto melanconico e delicato in stile «Cronache marziane» di Bradbury: ed infatti è ambientato proprio su Marte, ed è pure uscito un anno prima della pubblicazione della raccolta di Bradbury. Questo racconto ha tante idee che sono state poi riprese dalla fantascienza successiva, come l’improvvisa distruzione della terra che non solo lascia orfani i pochi superstiti ma in sostanza condanna l’umanità all’estinzione, perché si salvano solo due donne – bruttine ma ci si può accontentare dato che non ce ne sono altre – che però si lasciano presto andare a crimini e omicidi e si intende che sono quindi state giustiziate dagli altri superstiti.
Nessuno sa perché la terra si sia distrutta, una quindicina di anni prima: semplicemente, all’improvviso si è spezzata a metà e dal nucleo è uscito un fuoco incandescente che l’ha consumata; adesso tutto ciò che rimane è una catena di asteroidi. Con la fine della terra anche la luna è stata sparata via dalla sua orbita ed infine è stata catturata da Giove: le astronavi che erano in viaggio durante la catastrofe invece hanno trovato rifugio su Marte (l’opzione migliore) o sono rimaste prigioniere su Venere o sulle lune di Giove, le alternative peggiori.
Sempre sullo sfondo dell’improvvisa autodistruzione della terra, l’anno successivo alla pubblicazione di questa storia Wyndham ha ripreso la stessa ambientazione per un altro racconto ambientato questa volta su Venere, «L’eterna Eva» (The Eternal Eve, 1950), che affronta il medesimo problema della prosecuzione della specie ma dal punto di vista femminile.
Privi di un futuro, i pochi umani superstiti si sono dati al bere o ad altri vizi o indulgono nei loro umori (lo stesso tema di «Recall Not Earth»): alcuni di quelli giunti su Marte, una ventina di astronavi in tutto, si sono però costruiti una famiglia con le marziane.
E attorno a questo concetto si sviluppa tutto il racconto: perché i marziani sono assai simili agli umani, solo leggermente più esili, perché hanno le ossa più leggere, e hanno altre piccole ma trascurabili differenze fisiche; evidentemente sono una razza compatibile. Sono diventati la razza dominante di Marte solo perché non è rimasto molto altro di vivo sul pianeta («erano diventati la razza dominante del loro pianeta solo dopo che non c’era rimasto praticamente quasi niente da dominare», scrive l’autore) e continuano a vivere nel ricordo dei misteriosi Grandi, un popolo grandioso che li aveva preceduti ai quali si devono le opere e le rovine che ancora costellano i deserti marziani. I marziani sono anche miti e incapaci di qualsiasi lavoro tecnico, tanto che Bert vive, ormai da sette anni marziani (quattordici dei nostri), come stagnino e riparatore dei tanti attrezzi che si rompono per l’usura e che i marziani, un popolo arretrato, non sanno risistemare. Bert, che da riferimenti interni deve avere sui trentacinque anni., ha scelto di vagabondare nella sua barca lungo i canali e si ferma dove c’è bisogno di lui: è solo e solo vuole rimanere.
Dopo tanto tempo torna a visitare una famiglia che gli vuol bene e alla quale vuole bene: aggiusta pentole e attrezzi per conto loro e rimane loro ospite alcuni giorni. Una sera la donna più anziana, la madre dei giovani e delle giovani che lavorano nei campi con i loro mariti, gli fa un discorso sul vivere da soli, che non va bene: «La vita non è una cosa che si possa fermare solo perché non ci piace. Tu non sei avulso dalla vita: sei parte di essa (…) non ci si può limitare a esistere». In sostanza, la donna vuole che Bert si fermi con loro e sposi la figlia più giovane, molto carina, che lui però continua a vedere come una bambina. Ma da quel momento gli si aprono gli occhi e la vede come una bella ragazza, di cui si innamora immediatamente: ma è spaventato all’idea di impegnarsi e di sposarsi con una marziana, perché ha paura di tradire il ricordo della terra e al tempo stesso vuole conservare il rancore che sente di dover portare alla provvidenza per ciò che ha fatto al pianeta e all’umanità. Così fugge.
Ma la donna tranquillizza la figlia e le dice che Bert tornerà, perché «i terrestri hanno corpi grandi e forti, ma dentro quei corpi si nascondono dei bambini sperduti». Racconto lento e struggente ma incredibilmente gradevole.

Rex Gordon – Prigioniero del silenzio (No Man Friday, 1956)
Il protagonista, un ingegnere inglese, è l’unico superstite dei sette componenti di una spedizione non ufficiale su Marte: novello Robinson Crosuè, deve trovare il modo di sopravvivere nel deserto, nell’aria rarefatta, nel freddo, nell’assenza di cibo. Ma con molto ingegno se la cava abbastanza bene, almeno abbastanza da sopravvivere, a patto di non abbassare mai la guardia e di lavorare ininterrottamente per garantirsi acqua, ossigeno calore, cibo e tutto ciò di cui ha bisogno.
Quando finalmente prende coraggio ed esplora il pianeta incontra la forma di vita dominante su Marte: enormi mostri marini che però vivono nel deserto e comunicano emettendo luci. Viene adottato da uno di essi, come un cucciolo di cane che viene addestrato dal bambino che l’ha trovato e vuole tenerselo: è lui il Venerdì del titolo, in un imbarazzante scambio della prospettiva consueta.
Quindici anni dopo il naufragio atterra la prima spedizione ufficiale su Marte: è americana. Superata la sorpresa di non essere i primi sul pianeta, gli americani credono a quanto dice anche se stentano a comprendere come possano essere intelligenti le creature che hanno adottato il protagonista, visto che non hanno una loro civiltà ma si limitano a mangiare e dormire, come animali.
La parte centrale della storia è ottima: la prima invece è molto lenta e noiosa, l’ultima troppo filosofica, universalista e pessimistica. Si chiude infatti con le elucubrazioni filosofiche dei due reietti: il protagonista ed il biologo della spedizione americana, un civile, disprezzato dal generale che comanda la missione

H. Beam Piper – Omnilingue (Omnilingual, 1957)
Il racconto che ha dato inizio ad un intero sottogenere: la fantascienza archeologica, di cui ho parlato recentemente nella recensione alla «Civiltà degli Eccelsi» di Silverberg, un altro classico del filone.
Siamo nel 1996. La prima spedizione terrestre su Marte ha trovato un mondo morto, deserto: ma ci sono le prove che un tempo è stato un pianeta vivo e abitato da una razza progredita identica d’aspetto all’uomo. Solo che cinquantamila anni fa è iniziato un lento declino che ha portato alla fine della civiltà e alla scomparsa dei suoi antichi abitanti: tutto ciò che rimane oggi sono le rovine delle città, ricoperte da strati e strati di polvere accumulatasi in millenni di abbandono.
La spedizione include più di cinquanta persone tra archeologi, tecnici e personale militare – senza contare quanti sono ancora a bordo dell’astronave, in orbita attorno al pianeta – che da sei mesi scavano e studiano per scoprire il più possibile di quell’antica civiltà. Si sono accampati presso le rovine di quella che doveva essere un’importante città in riva al mare: ma oggi tutto è coperto dalla sabbia e spuntano solo le cime degli edifici più alti. Qui tutti hanno il loro incarico: quello di Martha Dane, archeologa che si è formata scavando i resti delle città ittite, è di comprendere la lingua marziana. Che è un compito immane: infatti non ha niente su cui appoggiarsi per comparare il significato delle parole ma può solo contare sulle proprie deduzioni.
Sinora ha identificato la trentina di lettere che ritiene compongano l’alfabeto marziano e, partendo dal presupposto che gli indigeni erano simili a noi (lo dimostrano le statue rinvenute sinora) e quindi dovevano usare organi simili ai nostri per formare i suoni, ha assegnato fonemi arbitrari a ciascuna di esse, rendendone così possibile la pronuncia, per quanto fantasiosa: ora è in grado di leggere quattromila parole ma di nessuna conosce il significato perché non sa a cosa si riferissero.
In altre parole, le manca una stele di Rosetta, ossia un testo bilingue che permetta di fare il salto da una lingua nota ad un’altra ignota: così finora è stato possibile decifrare le lingue morte terrestri, quando si scovava un documento scritto in più lingue, come ad esempio il greco nel caso dei geroglifici egizi e del lineare B cretese (una scoperta che è in parte reale e in parte di fantasia). Ma per ovvie ragioni nel caso di Marte è impossibile anche solo sperare in un simile colpo di fortuna: tutto sul pianeta ci è alieno.
Tuttavia tutti i membri della spedizione la sostengono e solo uno, Tony Lattimer, un altro archeologo che vuole farsi un nome col suo lavoro su Marte e non accetta concorrenti (e, soprattutto, teme le capacità della protagonista), la deride e la invita a fare quello che dovrebbe fare un vero archeologo: il lavoro sul campo.
Da quello che la spedizione è riuscita a ricavare sinora, Marte si è spento lentamente, un processo durato millenni: complice il progressivo ritrarsi delle acque, la sua civiltà fiorente è declinata e si è spenta pian piano finché un giorno ha smesso di esistere. Tutti gli edifici sono stati spogliati di quello che contenevano, indizio di una caduta nella barbarie: così sono pochissime le pagine stampate che è stato possibile trovare sinora, e tutte così rovinate dal tempo che si sbriciolano al semplice tocco. Perciò è necessario un lentissimo e delicatissimo lavoro di restauro prima di recuperare anche solo una pagina: ma nessuna di quelle che è stato possibile restaurare sinora presenta immagini sfruttabili per la decifrazione della lingua.
Finalmente Lattimer sfonda una parete di quello che doveva essere un grattacielo: in breve i nostri comprendono che doveva essere l’università di quella città. Esplorando l’edificio, la spedizione si imbatte in una sala dominata da un enorme affresco ancora integro che riproduce la storia del pianeta dalla preistoria all’epoca presente (del suo autore). Il titolo dell’affresco, che ricorre anche su tutte le altre porte del piano, permette di dare un significato alla prima parola marziana: Darfhulva, che Martha intuisce significare «storia». E, al piano inferiore, un analogo affresco che riproduce quelli che devono essere stati i grandi scienziati marziani si intitola invece Sornhulva, che quindi deve significare «scienza».
Sono scoperte incoraggianti, che però vengono presto eclissate dai rinvenimenti più spettacolari di Lattimer, che sigillati in una sala riunioni trova una ventina di corpi ormai mummificati: dal contesto si intende che i marziani si sono suicidati col monossido di carbonio piuttosto che accettare…probabilmente la capitolazione degli ultimi scampoli di civiltà. Perché l’esplorazione dei piani bassi dell’edificio dimostra che ad un certo punto l’università è stata trasformata in una specie di fortino: probabilmente era l’equivalente di un monastero che ha cercato di rallentare il declino della civiltà difendendo il sapere di cui era stato custode, mentre la società declinava verso la barbarie.
Ma i sotterranei dell’edificio nascondono le due scoperte più grandi: il magazzino della biblioteca, con almeno quindicimila volumi, tutti da decifrare, tra i quali probabilmente ci saranno immagini o illustrazioni con didascalie da sfruttare per attribuire significati alle parole.
E, soprattutto, una sala vuota alla quale dapprima nessuno dà la dovuta importanza: ma osservandone i muri Martha Dane, dopo un momento di smarrimento, capisce di aver trovato la stele di Rosetta di cui aveva bisogno per decifrare la lingua marziana. Sulle pareti sono infatti scolpite le tavole periodiche degli elementi: che sono elencati in un ordine diverso da quello terrestre ma la composizione degli atomi permette, a chi li conosce, di identificare facilmente i diversi elementi. E così infatti i tecnici della Marina che accompagnano l’archeologa sono in grado di riconoscere i primi elementi della tavola periodica terrestre, come l’idrogeno e l’elio: e da qui, conoscendo i pesi atomici e le altre caratteristiche di ciascuno, è facile convertire i simboli marziani nei corrispettivi terrestri, perché gli elementi sono identici in tutto l’universo.
Ci sarà ancora moltissimo lavoro da fare per decifrare la lingua marziana ma da questo momento in poi il lavoro è tutto in discesa: Martha Dane ha scoperto la sua stele di Rosetta.
Tutte le lingue morte decifrate sinora infatti appartenevano a civiltà prescientifiche, quindi è stato necessario avvalersi di strumenti specifici, come i documenti bilingui, per decifrarle: ma gli elementi sono identici in tutto l’universo e quindi basta una tavola periodica per decifrare la lingua di una qualsiasi civiltà progredita.
Racconto splendido, carico di atmosfera e idee: molto lento, piuttosto statico e senza autentico mistero, se non il fato degli antichi marziani, riguardo al quale dobbiamo accontentarci delle supposizioni avanzate dagli archeologi. Questa incertezza aggiunge un certo fascino alla storia e la rende credibile, perché anche nel mondo reale non è sempre possibile conoscere ogni cosa.

Richard Wilson – Harry Protagonist, drenatore di cervelli (Harry Protagonist, Brain Drainer, 1965)
Racconto satirico e brevissimo sulle strategie predatorie di certi imprenditori spregiudicati. In occasione del primo razzo su Marte, l’Harry Protagonist del titolo riesce a promuovere un apparecchio che non solo mette gli americani in contatto con le menti di uno dei quattro astronauti (quello che si preferisce) ma permette anche di condividerne pensieri ed emozioni, così da avere un’esperienza diretta della storica impresa.
Visti i prezzi non esagerati, e le superofferte persino per i bambini delle scuole, non c’è americano che quel giorno non sia collegato con gli astronauti. Solo che Marte è abitato e i marziani sono pure molto aggressivi: così abbattono a cannonate il missile della terra, con i quattro astronauti all’interno.
Tutto finirebbe lì, se non fosse che la condivisione delle menti è totale e così quando muoiono i quattro astronauti rimangono uccisi anche tutti gli americani connessi con loro: in pratica tutta la popolazione tranne Protagonist, ora miliardario, che non si era fidato della sua stessa invenzione.
Così, con la scusa della lotta al comunismo, l’Inghilterra sovrappopolata riprende possesso degli Stati Uniti ora spopolati e impone nuove tasse oppressive a ciò che resta dell’ex alleato.

Philip K. Dick – Chi se lo ricorda (We Can Remember It for You Wholesale, 1966)
Lo spunto del film «Total Recall»: il protagonista vuole andare su Marte ma il viaggio costa troppo, così si avvale dei servizi di un’azienda specializzata nell’impiantare ricordi nel cervello dei clienti. Solo che, nel farlo, i tecnici scoprono che il tipo era già stato su Marte e la sua memoria era stati cancellata.
Spedito a casa con i ricordi impiantati a mezzo, il tipo decide di chiedere un risarcimento all’azienda perché è rimasto insoddisfatto del servizio: ma nel cassetto in cui tiene la cancelleria trova una scatolina con vermetti marziani (ormai morti), che ricorda di aver raccolto personalmente e che non facevano parte del pacchetto di ricordi che aveva acquistato.
In quella compaiono anche due agenti, allertati da una sorta di simbionte che, a sua insaputa, gli è stato impiantato nel cervello quando gli sono stati cancellati i ricordi: questo simbionte permette di sapere sempre cosa stia pensando. I due gli spiegano che era un sicario della polizia e che da solo ha eliminato un uomo importante di Marte e la sua scorta.
L’uomo riesce a fuggire ma, sempre grazie al simbionte, gli agenti tornano a mettersi in contatto con lui: se si consegna, gli dicono, gli cancellano nuovamente la memoria, così non devono eliminarlo. Accetta.
Lo psicologo che lo esamina prima dell’operazione determina che il miglior ricordo da impiantargli, per evitare la risorgenza della nostalgia marziana, è un sogno che il tipo aveva da bambino: incrociava l’astronave di una razza aliena decisa ad invadere la terra ma li aveva persuasi a non invaderla finché lui era vivo. Approvato, i tecnici passano ad impiantargli questo ricordo: solo che anche questo è già presente nella sua testa.

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